Al cinema: il Pinocchio di Matteo Garrone e la maledizione dei classici

Matteo Garrone non ha mai nascosto di essere ossessionato dal racconto di Carlo Collodi. Sin dall’età di sei anni disegnava Pinocchio e i suoi personaggi. E dopo il trionfo a Cannes con Dogman si concede questo sogno: portare il burattino di legno sul grande schermo. Ottima estetica, poca identità. Il film sarà nelle sale italiane a partire dal 19 dicembre.

Quale migliore storia se non quella di Pinocchio per descrivere il nostro tempo? Gli uomini imbroglioni che fanno di necessità virtù (di sopravvivenza), quelli che si beffano anche dei bambini pur di arrancare, quelli soli che hanno per compagnia unicamente oggetti privi di vita. Fermi tutti però, il Pinocchio di Matteo Garrone – in sala dal 19 dicembre con 01Distribution – non è un film sull’attualità o sulla nostra società. Non ha nessun riferimento corrente. Parte però con tutti i buoni propositi, essere un film per i bambini di oggi, per fare scoprire loro una favola senza tempo, e per i bambini di ieri, i grandi di oggi che sono disposti a lasciarsi alle spalle per quasi due ore il loro presente. Il Pinocchio di Garrone è un film in cui le allegorie tra giusto e sbagliato, verità e menzogna sono tante ma sono ben nascoste dalle maschere e dagli effetti speciali, perché alla fin fine è questo l’aspetto che più si ricorderà di questa sua parentesi cinematografica: la ricerca estetica impeccabile.

LA MALEDIZIONE DI UN CLASSICO UNIVERSALE?

Il Pinocchio di Garrone è come una biglia immobile su una tavola pendente e che seppur pende da un lato impedisce alla biglia di cadere da un lato o da un altro. Spieghiamo meglio… I toni della favola ci sono ma non troppo, quelli più cupi e dark si intravedono ma restano nel buio. Cosa è successo? È Garrone che ha rincorso questa storia per così troppo tempo da non avere lucida la strada da percorrere? Doveva aspettare ancora prima di portarla al cinema? O la produzione gli ha richiesto un film che andasse in una precisa direzione pur avendo un regista bravo in tutt’altro? Una cosa è certa, questo Pinocchio in ogni caso ha ora un compito, quello di fare riscoprire una storia italiana che fa parte della nostra memoria e che va rispolverata per le nuove generazioni. Brutto non è il film, ma Garrone avrebbe potuto fare molto meglio. Il regista ha dimostrato in più di un’occasione di sapere raccontare il mondo delle fiabe, Il racconto dei racconti è una chiara prova ma anche L’imbalsamatore o Dogman lo sono se pur nerissime. In questa favola qualcosa però non va. È la maledizione di un classico universale? La risposta la daranno gli spettatori anche se Garrone ha messo le mani avanti: “il mio cinema è spesso associato a toni cupi o violenti, ma in questo caso ho voluto fare un film adatto a tutti, grandi e piccini, mantenendo lo spirito del testo originale e inglobando aspetti ironici e leggeri”. 

MASCHERE PERFETTE, CAST E TECNICI

Ho iniziato a disegnare la storia di Pinocchio quando avevo 6 anni, è una favola a cui tengo moltissimo e ho avuto la fortuna di avere al mio fianco compagni di viaggio meravigliosi. È un film di cui sono molto orgoglioso, è un film popolare come il capolavoro di Collodi. La sfida era fare un film che potesse sorprendere e far riscoprire una favola conosciuta in tutto il mondo”. Con queste parole e anche con un briciolo di commozione il regista presenta il suo film alla stampa. Un film per il quale ha scelto alcuni tra i volti più importanti del nostro cinema e spettacolo. Roberto Benigni è il poverissimo Geppetto. Massimo Ceccherini, che firma anche la sceneggiatura, è la volpe bugiarda. Rocco Papaleo è il gatto senza personalità. Gigi Proietti è Mangiafuoco solitario. Oltre agli interpreti principali, Matteo Garrone convoca una legione di maghi del prosthetic make-up capitanata dal due volte Oscar Mark Coulier (lo stesso di Harry Potter per intenderci!). Dietro al trucco e all’aspetto dei personaggi c’è tutta la venerazione da parte del regista per la tradizione di Pinocchio e per il primo illustratore del libro, Enrico Mazzanti.

GEPPETTO E PINOCCHIO, L’AMORE DI UN PADRE PER UN FIGLIO

Il Pinocchio di Matteo Garrone ha forse un grande pregio, quello di accentuare l’amore tra padre e figlio. Un amore nato in un frammento di secondo, il primo in cui i due si vedono e si sentono e che, tra alti e bassi, accompagna tutta la storia sin dalla povertà iniziale fino alla ricchezza finale. “Geppetto è il super babbo per eccellenza, il più famoso del mondo insieme a San Giuseppe, entrambi con due figli adottivi piuttosto discoli”, dice il Premio Oscar Roberto Benigni emozionato dal suo ruolo. Il burattino di legno che diventerà bambino è interpretato da Federico Ielapi. I più attenti lo ricorderanno in Quo vado? nei panni di Zalone da piccolo e in Moschettieri del re di Veronesi. Federico Ielapi potrebbe essere a tutti gli effetti una baby star. Ha capito molto bene come funziona questo mestiere, per il momento ha recitato accanto ad attori popolarissimi e nel ruolo di Pinocchio è azzeccatissimo. Malandrino, disobbediente, dalla voglia incondizionata di giocare. Tutto il film è sulle sue spalle, le spalle di un bambino che ogni giorno per tre mesi è stato al trucco per ben quattro ore. Le scene più belle, quelle più coinvolgenti sono proprio quelle in cui Pinoccho e Geppetto sono insieme, quelle in cui al padre nasce un figlio, il figlio sfugge al padre, il padre cerca il figlio, il figlio si prende cura del padre. 

PAROLA DI ROBERTO BENIGNI

Giuseppe e Geppetto hanno entrambi figli che gli scappano di casa, muoiono e risorgono. Sono due grandi padri e anche io avevo fatto un padre ne La vita è bella, in quel caso dicevo la più grande bugia a fin di bene, ero pinocchietto io. Mi sono legato proprio a questa storia d’amore tra padre e figlio. Geppetto è un personaggio iconico, universale, ci si riconoscono tutti. Avevo già detto di sì a Matteo prima che mi proponesse il film, in pratica. Se capita un personaggio così, nella vita artistica di un attore, non si rifiuta certo. Ho lavorato, sono ‘invecchiato’ apposta per la pellicola. Quando Garrone mi ha fatto vedere la prima foto dal set, sembravo mio nonno. È uno dei più grandi registi che conosca. Certo, somiglia a un pittore, ma non dimentichiamo che con le immagini sa soprattutto raccontare. Mi ha incantato. Sul set era con le antenne sempre alzate, era come se scrivesse il film con la biro giorno per giorno, seguire le sue indicazioni è stato naturale. La povertà di Geppetto è la madre di tutte le ricchezze, quella povertà non solo ‘dignitosa’, ma talmente estrema che ti fa sembrare un miracolo la vita, e la scena della trasformazione di Pinocchio significa il massimo della ricchezza: guadagnare la vita. Una vera cornucopia. E poi c’è Chaplin, il più grande Geppetto e Pinocchio di sempre. Mi sono ispirato a lui per le scene del formaggio e dell’osteria. Pinocchio ci conquista come Amleto, Don Chisciotte, L’Iliade o la Divina Commedia. Nasce puro e pensa che non ci sia il male nel mondo. È come il mare, ci avvolge e ci conquista con i suoi insegnamenti diretti e indiretti. Ma la sola trovata del naso che si allunga per le bugie vale mille superpoteri di Batman e dell’Uomo Ragno”.

-Margherita Bordino

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati

Margherita Bordino

Margherita Bordino

Classe 1989. Calabrese trapiantata a Roma, prima per il giornalismo d’inchiesta e poi per la settima arte. Vive per scrivere e scrive per vivere, se possibile di cinema o politica. Con la valigia in mano tutto l’anno, quasi sempre in…

Scopri di più