Dalla Fondazione Beyeler al Vitra. Intervista a Tobias Rehberger

Il 12 giugno la presentazione alla stampa e agli ospiti, e da lunedì 13 l’apertura ufficiale al pubblico. È il Rehberger-Weg, il sentiero attrezzato dall’artista tedesco tra la Fondazione Beyeler e il Campus Vitra. Cinque chilometri attraverso un parco e attraverso il confine svizzero-tedesco. Fra strani barometri e gabbie (volutamente rotte) per uccelli, un percorso in 24 tappe.

Un sentiero lungo cinque chilometri, l’attraversamento del confine tra Svizzera e Germania, 24 tappe scandite da opere e installazioni. Il tutto per unire Fondazione Beyeler e Campus Vitra. Ne abbiamo parlato con Tobias Rehberger, l’artefice dell’impresa.

Ci parli dei riferimenti storico-artistici del progetto? Mi vengono in mente nomi come Richard Long o Hamish Fulton…
Forse perché il movimento da una tappa a quella successiva è parte integrante del lavoro e di come viene esperito. L’interazione con la presenza fisica del visitatore è un aspetto importante. Ma anche se i 24 Stops sono collocati in un paesaggio naturale idilliaco, non possono essere considerati Land Art, sebbene l’esperienza individuale in un ambiente specifico sia parte del lavoro.
Richard Long lavorava con il paesaggio stesso e l’opera di Hamish Fulton, che spesso resta invisibile nel paesaggio, ruota intorno agli effetti della sua esperienza personale. Mentre 24 Stops riguarda più gli oggetti che l’esperienza personale. E comunque si tratta di un’esperienza all’interno di una comunità piuttosto che del paesaggio stesso. Gli oggetti rendono visibile come il paesaggio sia stato modellato dai suoi abitanti (umani, animali, vegetali) e dalle loro culture; e palesano anche la loro personale esperienza del tempo.

Non vorrei essere blasfemo, ma leggendo del tuo Weg mi è venuta in mente la Via Crucis. È una suggestione a cui ha pensato mentre lavoravi a questo progetto?
Effettivamente no!

Tobias Rehberger, 24 Stops, Rehberger-Weg

Tobias Rehberger, 24 Stops, Rehberger-Weg

Ci racconti la genesi del progetto? È stata una commissione della Fondazione Beyeler e di Vitra? Avevi delle caratteristiche da rispettare o sei stato totalmente libero?
Al boss di Vitra, Rolf Fehlbaum, è venuto in mente di fare una specie di sistema grafico che indicasse la strada fra i due musei. Ha messo insieme un gruppo di partner e il sottoscritto – ho già lavorato diverse volte con la Fondation Beyeler, esponendo il mio lavoro al museo e ad Art Basel a Miami Beach. Comunque, all’inizio mio fratello – che è un graphic designer – e io abbiamo lavorato in quella direzione. Ma poi ci siamo resi conto che non volevamo affatto fare una cosa del genere. E da quel punto in poi siamo stati liberi di fare quello che volevamo. Non ci sono state restrizioni, se non di tipo tecnico. È stata una buona collaborazione con tutti i partner coinvolti: con la Fondation Beyeler, con Vitra, con Swatch e con le municipalità.

In altre occasioni ti sei occupato di spazi di attraversamento. Penso ad esempio al bar dei Giardini della Biennale a Venezia. Qual è la tua idea di fruizione dell’opera?
Il mio desiderio è che l’arte appaia più spesso nella vita quotidiana. Che si incontri l’arte non solo in maniera frontale, come al museo, ma in modo più casuale e forse anche più inatteso. L’elemento della fruizione aggiunge una dimensione ulteriore all’opera, e questo in uno spazio pubblico può diventare un fattore intenzionalmente disorientante – un’opera e un oggetto funzionale possono sembrare concetti contrastanti. Tuttavia, attraverso la loro interazione, sovvertono le categorie che abbiamo accettato in maniera poco consapevole: il non-familiare diventa familiare, un elemento inusuale si può insediare in un contesto quotidiano. Attraverso il contesto, la funzionalità o la disfunzionalità, le persone che vi interagiscono, un’opera può evolvere e diventare qualcosa di completamente diverso. Diventa parte di un immaginario collettivo, può essere condivisa da una comunità, si può dissolvere in uno spazio pubblico, pur restando qualcosa di estraneo e differente. Può anche diventare una metafora di come noi come società assorbiamo un elemento ignoto dall’esterno e lo rendiamo parte della nostra storia personale, di come percepiamo la visibilità, la prossimità e la distanza.

Tobias Rehberger, 24 Stops, Rehberger-Weg

Tobias Rehberger, 24 Stops, Rehberger-Weg

In questo sentiero, come in altri tuoi interventi che si avvicinano all’art-design, giochi appunto sul filo tra funzionalità e disfunzionalità. Qual è la tua idea in merito? L’arte serve a qualcosa?
Sono attratto dalla diversità di ogni in between state della funzionalità, e nel Weg ci sono molte sue declinazioni. Ad esempio, le Campane sono completamente funzionali, la Scultura sull’albero è un puro way-marker, la Casa del Tempo è pienamente funzionale e lavora come un barometro, a dispetto delle sue sembianze astratte. Le Uccelliere ovviamente potrebbero funzionare, ma sono rotte e quindi rese intenzionalmente disfunzionali. Le Case per Uccelli e gli Alveari sembrano totalmente astratti, e invece offrono un riparo funzionale per gli animali dell’ambiente circostante.
La percezione è parte dell’esperienza che rende familiari oggetti che di primo acchito paiono strani, oppure rende il non-familiare improvvisamente familiare per il fatto che può essere parte di un’esperienza condivisa. In generale, non penso esista qualcosa privo di utilità, in una maniera o nell’altra. Ma sono anche interessato all’idea di approcciare le cose da diversi prospettive. Così, vedere qualcosa non solo in modo artistico lo rende – ed è piuttosto divertente – ancora più interessante proprio dal punto di vista artistico.

Quale sarà secondo te il fruitore-tipo del tuo Weg? L’appassionato d’arte? L’escursionista? Vedranno l’intero percorso?
Chiunque sia maggiorenne può fare quello che vuole.

Tobias Rehberger, 24 Stops, Rehberger-Weg

Tobias Rehberger, 24 Stops, Rehberger-Weg

Le opere all’esterno sono sempre a rischio vandalismo. È successo pochi giorni fa anche a Ugo Rondinone nel deserto americano. Come ti comporteresti se accadesse anche a una delle tue stazioni? Perché le reazioni possibili sono tante: ad esempio Kapoor a Versailles aveva chiesto che non si cancellassero i graffiti sulla sua opera…
Non so cosa sia successo ai lavori di Ugo. Spero nulla di brutto… C’è una forma di vandalismo che confina con un atto di appropriazione e c’è il vandalismo violento, che inclina verso la distruzione. Sono entrambe modalità devianti per esprimere attenzione, e gli esempi che hai citato fanno parte di questo genere di reazioni: questa strana interazione diventa parte della storia espositiva dell’opera.
Generalmente penso che, nel momento in cui un lavoro si confronta con una situazione pubblica, debba essere in grado di sopportare anche le reazioni meno belle. Ovviamente si potrebbe arrivare alla distruzione vera e propria del lavoro, ma direi che è troppo!

Quando ti vedremo in Italia? Hai in programma mostre dalle nostre parti?
Sto lavorando a un paper show da Giò Marconi a Milano, che dovrebbe inaugurare verso la fine dell’anno.

Marco Enrico Giacomelli

http://www.24stops.info/

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Marco Enrico Giacomelli

Marco Enrico Giacomelli

Giornalista professionista e dottore di ricerca in Estetica, ha studiato filosofia alle Università di Torino, Paris 8 e Bologna. Ha collaborato all’"Abécédaire de Michel Foucault" (Mons-Paris 2004) e all’"Abécédaire de Jacques Derrida" (Mons-Paris 2007). Tra le sue pubblicazioni: "Ascendances et…

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