La comunità che viene. Intervista al collettivo Assemble

“Power to the people!” titola il Guardian per festeggiare il conseguimento di uno dei più autorevoli premi di arte contemporanea da parte di Assemble, collettivo di giovani architetti, designer e artisti, vincitore del Turner Prize con “Granby Four Streets CLT”, progetto di rigenerazione urbana nella periferia proletaria di Liverpool. Li abbiamo incontrati per analizzare le loro pratiche transdisciplinari. Le stesse che hanno fatto storcere il naso alla critica più tradizionalista.

Re-immaginare un quartiere dopo anni di abbandono: Granby Four Streets CLT come sta trasformando la comunità locale?
È importante sottolineare da subito che il nostro coinvolgimento in questo progetto è nato dopo 20-30 anni di difficoltà da parte dei residenti a riappropriarsi del loro quartiere, a lungo segnato dall’abbandono e dal declino generato dal totale disinteresse dell’amministrazione pubblica.
Non definirei il nostro intervento come un “re-immaginare” la condizione della comunità di Granby: più che altro siamo stati in grado di dare una direzione e nuova energia per estendere un processo già avviato dagli abitanti, stanchi di subire la disattenzione amministrativa.

Com’è stato il rapporto con gli abitanti?
L’aspetto più importante – qualcosa di veramente unico e speciale per la zona – è il modo in cui i residenti hanno preso in mano le redini della situazione, lavorando attivamente per sostenere l’attività sociale nelle loro strade. Una partecipazione dalla quale sono nati, tra l’altro, un mercato locale e strade più verdi. Questo attivismo – un gesto di sfida nei confronti di tutte le forze maggiori che andavano contro la comunità, come il governo, locale e centrale – ha avuto un forte impatto sull’atmosfera e sul carattere del luogo.
Il nostro vero obiettivo è riconoscere questa azione, cercare di farla crescere e diffondere; inoltre è la chiave per capire se il progetto ha o non ha successo. Ci auguriamo che il nostro lavoro e il recente riconoscimento con il Turner Prize permettano alla comunità di essere ascoltata, a Liverpool e altrove. In questo senso speriamo Granby Four Streets CLT sia servito a rafforzare veramente la comunità locale, ad accrescerne lo slancio.

Assemble - Liverpool - Courtesy Assemble

Assemble – Liverpool – Courtesy Assemble

Qual è stato lo sviluppo del progetto?
La crescente popolazione che una volta viveva in Granby, quando era stata prevista la demolizione dell’area, si è abbastanza dispersa. Il Granby Workshop, l’elemento del progetto sviluppato attraverso il Turner Prize, ha dato un’opportunità a quanti avevano lasciato l’area di tornare, contribuendo, seppur in piccola parte, alla trasformazione di un luogo che ha significato molto per loro.
Al momento sembra esserci un’assenza di giovani coinvolti nella ricostruzione del quartiere: i volontari del CLT – Community Land Trust infatti sono di una certa età. Svilupperemo quindi un programma del workshop per incoraggiare la partecipazione di una generazione più giovane.

Cosa c’è in programma per l’area di Granby e i suoi residenti, adesso “famosi nel mondo”?
Una delle cose principali circa l’evoluzione dell’area è che continua a procedere, passo dopo passo: un processo lento, graduale. Ciò dimostra come piccoli movimenti, con il tempo, possono generarne di più grandi: il cambiamento può partire dai residenti e crescere verso l’alto e verso l’esterno. È l’opposto della rigenerazione dall’alto verso il basso, ad ampio raggio.
I piccoli, fondamentali, passi compiuti anni fa dalla comunità si stanno trasformando in aspetti permanenti dell’infrastruttura locale: ciò che è iniziato piantando degli alberi, ora si è evoluto nella forma di serre permanenti, grazie alla trasformazione di due proprietà abbandonate; l’attitudine “fai da te” per la creazione ad hoc di vasi in legno e di arredi urbano è divenuto un laboratorio pienamente, con diverse persone all’attivo e prodotti messi in vendita a livello nazionale.

Assemble - Granby Street - Courtesy Assemble

Assemble – Granby Street – Courtesy Assemble

Il progetto presenta anche aspetti di riqualificazione architettonica?
Sì. Oltre la ristrutturazione di più case su Cairn Street, la costruzione del winter garden e lo sviluppo del Granby Workshop con il programma giovanile, ci sono una serie di altre azioni che ci auguriamo partano quest’anno. È il caso di Four Corners, un intervento destinato alle quattro unità di negozi sullo svincolo fra Granby Street e Cairns Street: sarà un’opportunità per rinvigorire quella che è stata una vivace strada commerciale dalla forte vitalità, culturale e urbana. Si tratterà di riattivare una via centrale a Granby, qualcosa che è mancato, dolorosamente e per molto tempo, ai residenti.
Speriamo inoltre di iniziare i lavori su Ducie Street, dove sorgono ampie case a schiera, a doppia facciata in stile vittoriano, che versano in terribili condizioni; questo progetto riguarderà, allo stesso tempo, la ristrutturazione e la costruzione di nuove abitazioni sul lato opposto della strada.
Stiamo cercando di utilizzare questo processo di ricostruzione di case e strade del quartiere anche per riattivare le infrastrutture sociali e fornire nuove opportunità economiche. L’intento è creare una struttura che permetta alla comunità di proseguire, mantenendo la situazione nelle proprie mani e servendosi di creatività e intraprendenza per continuare a trasformare insieme il loro luogo d’appartenenza. È importante guardare oltre e comprendere che stiamo agendo con un’area veramente piccola; nelle vicinanze ci sono ancora molte altre case chiuse, con intere strade, aree della città che hanno sofferto di un simile destino: ci auguriamo che molte delle idee e degli effetti di Granby Four Streets CLT possano diffondersi in altre zone della città. E oltre.

Siamo di fronte all’inizio di una nuova sensibilità nella pratica dell’arte contemporanea?
Il Turner Prize può essere visto come una sorta di sostegno per un certo tipo di pratica congiunta e impegnata socialmente: forse punta verso un dissolvimento delle tradizionali barriere disciplinari e, forse, segnala un allontanamento dal singolo autore verso un più anonimo approccio collaborativo. “Anonimo” nel senso che ci sono molteplici artisti o architetti e il “cliente” è un partecipante, non un semplice fruitore.
Sono molte le persone in tutto il Paese che affrontano problemi simili a quelli dei residenti di Granby, che lottano per cambiare la propria comunità: speriamo che questo progetto – e la diffusa attenzione che ha ricevuto – porti a un interesse maggiore nei riguardi di queste lotte.

Assemble - Granby Showroom - Courtesy Assemble

Assemble – Granby Showroom – Courtesy Assemble

Siamo consapevoli che sia nell’arte che nell’architettura il “lavoro socialmente impegnato” non è nulla di nuovo. L’approccio ha molto in comune con le idee di William Morris sul potenziale del fare e della produzione artistica in relazione alla società e alla comunità: crediamo che il nostro lavoro possa essere collocato in questa traiettoria. Riconosciamo il potere che la produzione artistica produce impattando sulla vita delle persone comuni, al di là della sfera di una galleria e oltre l’esoterico “mondo dell’arte”. Abbiamo considerato questo argomento di particolare interesse in relazione allo spazio pubblico e alla ricchezza di fondi disponibili per le commissioni di arte pubblica; c’è una grossa responsabilità e un’opportunità nel fare qualcosa che sia veramente legato alle situazioni locali, alle persone del posto e ai loro programmi: qualcosa in più rispetto a realizzare una scultura per una rotonda.

Alcuni dubbi sono sorti circa la vostra ammissibilità al premio. Eppure, come ha affermato il direttore del Mima, Alistair Hudson, sul Guardian: “Abbiamo bisogno che le persone inizino ad apprezzare l’arte, così che non dicano più ‘preferiamo avere un ospedale piuttosto che una galleria d’arte’”. Qual è la vostra opinione sull’“ideologia dell’utile”?
Crediamo sia un termine leggermente fuorviante, poiché tutta la buona arte è “utile” in qualche modo. Una cosa grandiosa dell’arte rispetto all’artigianato e alle altre discipline come l’architettura è il suo essere sollevata dal peso della funzione. Possiede una libertà maggiore nel commentare e riflettere sulla cultura del nostro tempo e ci fornisce una fonte di lettura dei valori sociali e delle attitudini durante il corso della storia. È in grado di coinvolgere, cambiare e guidare opinioni e il modo in cui le persone vedono il mondo: in tutti questi modi è “utile”.
Per noi il suo significato più rilevante è la capacità di influenzare le persone nella vita di tutti i giorni, anziché la sua esistenza all’interno del mercato commerciale. Ci piace pensare che tutti i nostri interventi a Granby si raccontino su più livelli e non siano unicamente “oggetti utili”: sono reperti narranti attraverso la storia rivelata dal luogo; sono carichi di un piacere visivo, tattile, materiale e formale che esiste indipendentemente dalla funzione. Hanno fornito un’opportunità alle persone della zona: essere coinvolti nella rimodulazione del loro ambiente. Indipendentemente da come sono delineati i diversi tipi di opere, che sia arte o non lo sia per niente, il punto cruciale è che esiste una tensione che travalica la semplice osservazione o il facile commento.

Vi descrivete come architetti, designer, idraulici e attivisti, impegnati in situazioni di vita reale. Granby Workshop è diventato un centro sociale e creativo e in molti dei vostri progetti è riconoscibile lo spirito del DIY. Immaginate e riconoscete “l’artista” come un fornitore di servizi, gli spettatori come utenti e produttori, l’arte come mezzo e dispositivo?
In molti dei nostri progetti il processo è il risultato essenziale: si muove sulla stessa intensità del prodotto. Esiste un valore in una certa indeterminatezza, laddove il processo in sé è valorizzato rispetto alla decisione estetica. Le idee di potenziale, di cambiamento, di sviluppo delle infrastrutture, non risolvono necessariamente i problemi, ma permettono ad altri processi di nascere e svilupparsi: il lavoro non è mai “finito”, ma è perennemente in progress, si adatta e si evolve. La nostra collaborazione è iniziata perché eravamo frustrati dall’assenza di contatto diretto col processo di realizzazione di oggetti e luoghi. Molti dei nostri progetti riflettono su come questa urgenza possa essere sfruttata e trasformata in un processo nel quale altre persone abbiano l’opportunità di essere coinvolte. L’artista quindi è un motivatore, capace di attivare una partecipazione più ampia.

Assemble - cut out tiles - Courtesy Assemble

Assemble – cut out tiles – Courtesy Assemble

In Participation, Claire Bishop riflette sulle pratiche artistiche che dal 1960 interferiscono e interagiscono, sempre di più, con la vita di tutti i giorni, ponendo l’accento su “attivazione; paternità; comunità – sono le più citate motivazioni volte a un possibile incoraggiamento alla partecipazione nell’arte”. Condividete questa visione o siete più vicini a quella contenuta in The nightmare of participation, in cui Markus Miessen sostiene l’impossibilità di determinare una sola idea di partecipazione?
“Partecipazione” è un termine abusato e problematico. Siamo consapevoli che possa essere utilizzato come una sorta di clausola per evitare alcun tipo di responsabilità e come mezzo politico per supportare la visione della “big society”. Può risultare poco critica, e ci sono ovviamente dei limiti di progettazione con il consenso generale. Il ruolo dell’“outsider” – sia esso artista, artigiano o architetto –, la competenza e la conoscenza che apporta, non devono essere sottovalutati; essere critici, affrontando lo status quo, è essenziale per progredire e innovare. Ci viene in mente l’affermazione di Henry Ford: “Se avessimo chiesto alle persone cosa volessero, avrebbero risposto cavalli più veloci”.
Ad ogni modo, è difficile trovare l’equilibrio. Da una parte ci sono molti progetti di coinvolgimento collettivo nei quali le persone si descrivono come neutrali, come partecipanti passivi, non riconoscendo le responsabilità e l’influenza che hanno su certe circostanze. Ma, dall’altra parte, diventa anche problematico se un soggetto interpreta il ruolo di professionista autoritario, dando istruzioni ma non producendo il lavoro. Inevitabilmente si stabilisce una relazione di potere e una barriera fra l’“artista” e lo “spettatore”.
Ci sembra che facilitare non sia comunque l’unica funzione, poiché c’è ancora una chiara idea di paternità nel nostro lavoro. Ci piace l’analogia del catalizzatore – qualcuno o qualcosa che accelera un evento – in quanto riconosce una presenza fisica che permette o incoraggia la creazione. In quasi tutti i nostri progetti abbiamo sviluppato un elemento fisico, tangibile di cui siamo artefici. Siamo specifici e strategici nei confronti di ciò che progettiamo e apportiamo in un luogo, utilizziamo la nostra esperienza e le nostre abilità per svilupparlo. Quello che produciamo, speriamo incoraggi altri progetti, altre persone a prenderne il controllo e a estendere la traiettoria. Qui è dove la partecipazione si verifica.

Marco Petroni e Brunella Todisco

http://assemblestudio.co.uk/

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Marco Petroni

Marco Petroni

Marco Petroni, teorico e critico del design. Ha collaborato con La Repubblica Bari, ha diretto le riviste Design Plaza, Casamiadecor, ha curato la rubrica Sud su Abitare.it, è stato redattore di FlashArt. Collabora con l'edizione online di Domus. Curatore senior…

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