Intervista a Paolo Baratta. Il sinonimo di Biennale

La Biennale di Venezia come terzo polo della politica internazionale, dopo ONU e OCSE. Il meccanismo oliato fin nei minimi dettagli. L’edizione 2015 come chiusura di una trilogia iniziata con la mostra di Bice Curiger e proseguita con quella di Massimiliano Gioni. E moltissimo altro. È la Biennale raccontata dall’interno, dal suo presidente Paolo Baratta.

Presidente, passano gli anni, passano le crisi, passano i politici, e lei da dodici anni è sempre qui. Se qualcuno le desse del poltronista?
Innanzitutto c’è stato un intervallo tra il primo e il secondo mandato, il che rende la cosa assolutamente legittima. Poi ho sempre ritenuto anche io, come molti che ne hanno avuti, che gli incarichi pubblici non si chiedono e non si rifiutano. Terzo, non mi nomino da me, non detengo la maggioranza delle azioni della Biennale: evidentemente si ritiene che la continuità, in questa fase, possa avere un suo valore.

Valore condiviso, tra l’altro.
Già. Ricordo che l’ultima volta ci fu una sorta di “appello popolare”: certo, si voleva che io restassi, ma soprattutto si voleva che si proseguisse con continuità in quest’opera di ricostruzione, rinnovamento e ampliamento della Biennale.

Qual è il segreto della Biennale di Venezia? Come si fa a restare primi al mondo, in un contesto politico-economico come quello italiano?
Grazie alla riforma del 1998, al fatto di essere, dal punto di vista statutario, molto ben definita come soggetto autonomo, operante nel pubblico ma secondo strumenti privati, con rapporti di lavoro privatistici e direttive emanate solo dal CdA. La politica intesa come vigilanza è ben accetta; la politica come interferenza ha invece difficoltà a penetrare queste barriere. Soprattutto se al comando c’è qualcuno che riconosce nell’autonomia della Biennale uno dei massimi valori: il segreto di questa istituzione è di astrarsi il più possibile da interessi contingenti, per puntare all’obiettivo più importante.

Se volessimo sintetizzare questo obiettivo in uno slogan?
Puntare alla stima del mondo.

E come la si guadagna?
Si guadagna trasmettendo all’esterno il senso di fiducia che deriva dal saper essere autonomi, dal sapersi assumere dei rischi, dal saper contrastare le interferenze. Quindi il segreto è lavorare intensamente, sempre con spirito di ricerca: e mai cullarsi sugli allori…

Il nuovo Padiglione Australiano, di Denton Corker Mashall (foto John Gollins)

Il nuovo Padiglione Australiano, di Denton Corker Mashall (foto John Gollins)

È stato mai tentato di mollare per fare altro? Per esempio il ministro, o il sindaco di Venezia?
Tra i motivi per cui la Biennale gode della stima del mondo c’è la consapevolezza che il presidente è lì per curare la Biennale, non per altre ragioni. Le istituzioni culturali considerate trampolini per fare altro, quelle sì possono dar adito ad accuse di poltronismo o di strumentalismo. Offerte di questo tipo mi sono giunte più volte, nel corso di questi anni: ho sempre chiarito che mai avrei accettato qualcosa che potesse lasciare il sospetto che lavoravo alla Biennale pensando ad altro. Credo che ci sia anche questo alla base del rispetto che a Venezia, in Italia e nel mondo hanno per l’istituzione, e quindi in qualche misura anche per me.

Quindi il ministro Franceschini non deve temere la sua concorrenza. Come giudica questo suo primo anno al Collegio Romano?
Ho partecipato al gruppo di lavoro che l’allora ministro Bray aveva istituito per la riforma del Ministero e trovo che alcune cose che Franceschini sta facendo erano cose che anche io avevo calorosamente perorato.

Ad esempio?
Ad esempio la distinzione necessaria fra “beni culturali” e “attività culturali”. Il nostro Paese è dominato dall’espressione “bene culturale” e nello stesso tempo ha costruito attorno al bene culturale una delle visioni più ricche e più vaste fra tutti gli altri Paesi. Ma in Italia è dal 1860 che si legifera sui beni, ma non sulle istituzioni: perché il concetto di tutela da noi è connaturato col processo di unificazione nazionale. L’unità d’Italia volle dire, in quel momento, salvare il salvabile di fronte alle fughe, ai furti, alle vendite. Un’ansia di tutela, di messa in sicurezza, direi: i grandi musei europei, del resto, si erano formati grazie alle fughe dei beni artistici connessi alle trasformazioni socio-politiche dell’Italia. Ma poi non si è mai legiferato sui musei e oggi i nostri musei si trovano sprovvisti degli strumenti necessari a svolgere l’attività propria di un museo moderno. Franceschini, per gradi, sta cercando di dare corpo a un’idea di museo come luogo attivo, che può darsi dei programmi di produzione e scambio culturale. Io trovo molto ambigua la parola “valorizzazione”: dev’essere ben chiaro che stiamo parlando di valori culturali da perseguire con autonoma capacità scientifica, e di cercar risorse per la scienza e la ricerca, e che ciò deve andare a beneficio del pubblico.

Paolo Baratta, Presidente della Biennale di Venezia - photo Alvise Nicoletti - courtesy la Biennale di Venezia

Paolo Baratta, Presidente della Biennale di Venezia – photo Alvise Nicoletti – courtesy la Biennale di Venezia

La Biennale è arrivata ad allineare novanta partecipazioni nazionali, un porto franco della cultura. Quest’anno metterete assieme in una mostra India e Pakistan: non è che, oltre alla “stima del mondo”, punta al Nobel per la Pace?
Mi piace parlare di questo, che è uno dei tanti segreti della Biennale. Perché al di là degli 88 Paesi presenti ufficialmente, avremo quest’anno 44 mostre collaterali – presenti in catalogo, con il nostro logo, quindi di fatto presenti nella rassegna – proposte da fondazioni, o da enti non profit, provenienti da altrettanti Paesi. Lì sono rappresentate, e vengono a mostrare se stesse come parte del mondo, etnie che non si riconoscono nello Stato che ufficialmente partecipa alla Biennale. Penso alla Palestina, per fare un esempio: che io non posso ammettere come rappresentanza ufficiale, perché non riconosciuta dallo Stato italiano, ma che accolgo lo stesso a Venezia. Vige un po’ il concetto di Nazioni Unite nella cultura, un luogo di rappresentanza universale.

Insomma, la Biennale come ente sovranazionale che certifica l’esistenza stessa, culturalmente parlando, di un paese.
Esattamente. Dico spesso che i Paesi nuovi, che emergono dalle profonde trasformazioni in atto nella geografia politica mondiale, come prima cosa vanno a New York all’Onu, come seconda vanno a Parigi all’Ocse per presentarsi come entità economiche, come terza chiedono di venire alla Biennale di Venezia, per essere riconosciuti come soggetti attivi in campo culturale.

Una Babele creativa, e anche umana. Ha un aneddoto speciale da raccontarci?
Ce ne sono mille, a partire dai Giardini e dalle sorti dei padiglioni di Stati soggetti a trasformazioni, dalla ex Cecoslovacchia alla Russia, poi Unione Sovietica, poi ancora Russia. Ma racconterò qualcosa relativo alla Biennale di Architettura 2010. Chiede di partecipare per la prima volta il Bahrein e, viste le architetture in voga a quelle latitudini, tutti ci aspettiamo che porti a Venezia un bel fascio di grattacieli, per mostrarsi al mondo nella gloria del momento. E invece arrivano una ministra donna, una curatrice donna, un commissario donna, ed espongono tre curiosissime, fragilissime e modeste costruzioni di legno, addirittura dotate di ruote, case di pescatori presenti alla periferia della città, pensate per essere spostate a mano a mano che la città si espande. Con una sensibilità per il problema dell’architettura nella comunità degna della riflessione più profonda. Vinse il Leone d’Oro: per me una grandissima soddisfazione, per la ministra grandi problemi al rientro, in una realtà marcatamente maschilista, che questo trionfo ha contribuito a mettere un po’ in discussione. Noi siamo anche, fortunatamente, un sismografo delle questioni del mondo…

Padiglione russo, Giardini della Biennale, Venezia

Padiglione russo, Giardini della Biennale, Venezia

Ci racconta la giornata-tipo del presidente della Biennale, nel mese che precede l’inaugurazione?
Anni fa, nell’ultimo mese c’era una situazione che definire nevrotica è un eufemismo. Da qualche tempo, l’ultimo mese è di grande calma: il budget è stato già sistemato, i dettagli col curatore sono rifiniti, l’impianto organizzativo è a pieno regime, abbiamo procedure ormai rodate adottate dal curatore fin dal primo giorno. Si tratta di un esercizio di perfezionamento, aggiornato in progress: è paradossale, ma nell’ultimo mese siamo calmi. Tensioni ce ne possono essere, ma c’è anche il metodo e lo stile per affrontarle. Il nostro lavoro è stato nella direzione di eliminare pesantezze critiche dove non ce ne devono essere: ora possiamo affrontare il via con grande serenità, possiamo girare il mondo a presentare la mostra e pensare alla comunicazione. Qualche variabile viene dall’approccio del curatore: qualcuno aggiusta, e non solo dettagli, anche all’ultimo minuto, e questo ci crea delle ansie, ma sono ansie ampiamente gestibili.

Veniamo a questa edizione. Come nasce la scelta di Okwui Enwezor?
La scelta del curatore è la manifestazione di un programma di ricerca che la Biennale si propone, e il mio compito è quello di attuarlo, attraverso la libera espressione dei curatori che volta a volta scegliamo. Nelle ultime tre edizioni abbiamo voluto affrontare diverse modalità di lettura dell’arte contemporanea, approfondendo i diversi elementi che compongono la qualità delle opere. L’arte contemporanea si è presentata, all’epoca delle avanguardie, al grido “l’arte è, in quanto si proclama arte”. L’arte non era più mimesi, non era più colori, non era più solo forme. L’arte metteva in discussione l’arte. Oggi, anche l’arte contemporanea inizia a non essere più una giovincella rivoluzionaria, ma ha una sua storia. Quali sono dunque i criteri in base ai quali ci si avvicina a un’opera e si riesce a distinguerla da un qualsiasi rumore, o suono, od oggetto? Esiste insomma il tema di un’estetica dell’arte contemporanea…

Da qui originano le scelte, con tre edizioni in qualche modo concatenate?
La percezione: il tema della ricerca di Bice Curiger che trattava l’ampliamento delle capacità di osservazione e di pensiero come condizione per avvicinarsi sempre più all’arte, non a caso la mostra si intitolava ILLUMInations. Secondo capitolo: cos’è che fa la differenza, al dunque, fra un artista e un designer, o un altro creativo? Massimiliano Gioni ha risposto con una mostra che citava due tra gli elementi principali per riconoscere qualcuno che compie un atto artistico, generoso e libero: lasciarsi ispirare dalle proprie utopie, da un lato, e dalle proprie ossessioni, dall’altro. Con il simbolo del libro di Jung, che sentì il bisogno di andar oltre la parola scrivendo un libro fatto di  immagini. L’arte visiva comunica quello che non si comunica con l’uso della parola.

Paolo Baratta, Presidente della Biennale di Venezia - photo Antonello&Montesi

Paolo Baratta, Presidente della Biennale di Venezia – photo Antonello&Montesi

Con Enwezor pare che le parole ritorneranno…
Veniamo al terzo capitolo. Gli elementi esterni, la storia. Guai a pensare all’arte dal solo punto di vista intimista: l’arte vive della storia e nella storia. Enwezor è una persona che da sempre vive intensamente il rapporto tra fenomeni esterni della storia e la produzione artistica. E proprio per questo è stato invitato in questo 2015, in questa età dell’“anxiety”. Ha concepito una mostra nella quale ha voluto, in un certo senso, interpellare il mondo: il sottotitolo scelto, Parliament of Forms, secondo me è più importante, chiarisce meglio l’approccio, che non il titolo All the World’s Futures. Una mostra dove gli elementi che fanno riferimento a valori umani e sociali sono molto forti: con forti riferimenti a testi che li hanno analizzati, e in questo senso sì, la parola avrà grande rilievo. Parlare del presente vuol dire parlare della storia, parlare della storia vuol dire parlare dei frammenti che la storia ci lascia, dai quali traiamo, come dice Walter Benjamin, senso di spavento, di frustrazione e anche, forse, illuminazione. E sono questi frammenti che interessano Enwezor, frammenti che la storia ci dà e che si ripercuotono nel tempo presente come parte della nostra realtà. Nel suo progetto, i testi citati sono di autori che cercarono, in qualche modo, una visione della storia lineare, dove dal passato si potesse indagare sul futuro, ma sono citati anche autori che a questa linearità non credevano.

Questa Biennale farà molto discutere, anche sul piano ideologico. Crede che questo sarà un limite o una forza?
Innanzitutto vorrei che questa Biennale fosse capita. Enwezor cita Benjamin e poi Marx: due visioni del mondo tra loro in parte divergenti. Com’è possibile trarne un profilo ideologico? Benjamin parla di Paradiso, Marx si arrovella alla ricerca di un filo logico nella storia. Per i suoi fini, Enwezor avrebbe potuto citare Voltaire, Tolstoj, Keynes. La lettura di un libro proposta alla Biennale equivale a un gesto artistico. Nella mostra – per rispondere all’obiezione maggiormente in voga – il visitatore non leggerà Marx: il visitatore sentirà parole tratte da Il Capitale, che così diverrà anch’esso frammento della storia. Uno dei massimi tentativi di dare una spiegazione unitaria ai fenomeni, ai conflitti, alle ragioni, viene presentato a frammenti. Una visione che può apparire persino pessimistica: noi, infatti, sembriamo non cercare neanche più qualcuno che ci dia una spiegazione del tutto, non siamo alla ricerca di una teoria che tutto spieghi. Il Capitale viene evocato, diventa “parole”. Alla fine questa mostra, al di là dell’interesse specifico per le numerosissime opere presenti, sollecita riflessioni ed evoca in qualche modo la spiritualità.

Il Padiglione Santa Sede

Il Padiglione Santa Sede

Qualcuno ha parlato di una Biennale che rispolvera il marxismo, ora lei ci parla di spiritualità?
Io conosco il testo de Il Capitale: sarebbe semplicemente delirante se pensassi davvero di appoggiare una Biennale su un rispolvero ideologico. Vero è che oggi nessuno chiede più che esista un Hegel, o un Marx, o un filosofo che ci spiega tutto sul nostro futuro possibile. Sappiamo che gli anelli mancanti nelle catene dei ragionamenti che usiamo sono tanti: il liberismo e la democrazia hanno tanti anelli mancanti, eppure siamo liberali, e siamo democratici. Se noi accettiamo la libertà, accettiamo la democrazia, accettiamo il Parlamento, è perché abbiamo vissuto la storia che a essi ci ha condotto, non perché siamo convinti di una teoria che riteniamo al cento per cento esatta. La storia è un grande rombo, un grande ausilio di fondo, e qualche volta ci dà almeno il basso continuo sul quale tracciare una melodia, o una composizione, non facile nel tempo presente. Ma questa è la responsabilità dell’uomo moderno: fronteggiare la complessità. In una Biennale poi ci sono molte ambiguità: anche in questo senso parlavo di frammenti, di residui di storia. Nelle Corderie dell’Arsenale ci sarà un coro che canterà un brano appoggiato su un recitativo della Creazione di Haydn. Ci sarà la voce di Pasolini, e ci saranno anche alcune frasi di Marx: voci, parole significanti, quelle che compongono un nostro bagaglio epistemologico di fondo, quello che ci dovrebbe aiutare a capire. Mi è capitato di dire a Enwezor: non immaginavo tu fossi una persona così religiosa…

Parliamo di edifici. Quest’anno infatti c’è una significativa novità ai Giardini: l’Australia si presenta con un padiglione nuovo nuovo. Architettura inedita firmata da un importante studio. La cosa rompe un po’ la staticità architettonica e urbanistica dei Giardini. Che sensazione è? C’è spazio per altri cambiamenti?
L’Australia aveva un padiglione provvisorio in una zona “residuale” e per questo le è stato consentito di realizzare un nuovo padiglione di rilevanti dimensioni. Nel bazar di architetture dei Giardini fa la sua figura!

Sempre parlando dell’avvincente lato “immobiliare” della Biennale, quali sono le novità invece all’Arsenale? Quali e quanti spazi state pianificando di recuperare dopo il recente restauro del grande edificio dove ha sede, tra gli altri, il Padiglione della Santa Sede?
Continuiamo, mano a mano che riusciamo a disporre di risorse, nel recupero del complesso cinquecentesco delle Sale d’Armi, destinandole ai Paesi che contribuiscono al restauro, a Biennale College, ai servizi al pubblico, creando così soprattutto un complesso unitario di spazi restaurati e vivificati.

Massimo Mattioli

www.labiennale.org

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #25

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Massimo Mattioli

Massimo Mattioli

É nato a Todi (Pg). Laureato in Storia dell'Arte Contemporanea all’Università di Perugia, fra il 1993 e il 1994 ha lavorato a Torino come redattore de “Il Giornale dell'Arte”. Nel 2005 ha pubblicato per Silvia Editrice il libro “Rigando dritto.…

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