Di Franz Paludetto. Un gallerista d’alta quota

Originario di Oderzo, è arrivato a Torino per caso, sbagliando treno. Prima di diventare gallerista ha fatto di tutto: il barista a Mirafiori, il venditore di auto e il direttore d’albergo sul Monte Bianco, dove ha fatto la sua prima mostra. Segni particolari: capacità di arrangiarsi e incontri fortuiti con grandi artisti, da Gina Pane a Roman Opalka. Negli anni ha cambiato tanti spazi, fra Torino, Calice Ligure, Norimberga, Roma. Ma il Castello di Rivara rimane la sua pietra miliare, col suo centro d’arte “inventato” insieme all’amico Aldo Mondino. Prosegue con Franz Paludetto la saga delle interviste ai grandi galleristi italiani targata Artribune.

Chi era Franz Paludetto prima di diventare gallerista?
Quando avevo una decina d’anni ho conosciuto – in quel piccolo paese che era Oderzo, dove vivevo per ragioni politiche di mio padre – tre artisti che frequentavo perché mi interessava il loro modo di dipingere, di vedere le cose, specialmente i panorami. Poi mi sono trasferito. La mia infanzia l’ho fatta in montagna vicino a Cortina: ero presente alle Olimpiadi del ’56. Io sono uno che ama la natura – ecco perché vivo al Castello di Rivara – e gran parte della mia vita l’ho fatta sempre a una certa altezza.

Come sei approdato a Torino?
Mi sento torinese ma i miei genitori sono triestini, anzi di Pirano; mia nonna era viennese. Nel ’56 sono venuto casualmente a Torino perché ho sbagliato treno. Dovevo andare a Basilea; quando sono arrivato, alle 4.30 di mattina, dal mio piccolo paese a Milano, dovevo cambiare e prendere il treno per Chiasso. Io, un po’ confuso, ho preso invece il treno per Chivasso. Così mi sono trovato a Torino, a novembre, in una città grigia, piena di nebbia.

E cos’hai fatto?
Grazie all’indicazione di un tassista sono riuscito a farmi portare da una signora che affittava ai sottotenenti. L’unica paranoia era che tutte le sere, quando rientravo dai miei giri per cercare lavoro, trovavo il letto da un’altra parte.

1969, Gina Pane

1969, Gina Pane

Quando hai cominciato a occuparti d’arte?
Ho fatto qualsiasi cosa: davanti alla Fiat a Mirafiori c’era una specie di chiosco e lì, tutte le mattine, per qualche mese, ho fatto il barista. Poi ho avuto una botta di fortuna e qualcuno mi ha detto: “Perché non vieni su al Monte Bianco, al Rifugio Torino?”. Ci sono andato. Poi è morto il gestore e ho avuto la possibilità di diventare responsabile del rifugio. Lì feci la prima mostra nel ’58, vendetti il primo quadro a Courmayeur, all’Hotel Lo Scoiattolo. Fino agli Anni Sessanta feci un po’ di soldi, poi tornai a Torino e incontrai quella che divenne mia moglie, che ora è morta.

Qual è stata la scintilla che ti ha convinto ad aprire una galleria a Torino?
Nel ’68 lavoravo in una concessionaria di auto, di fronte all’Accademia Albertina. Vedevo sempre questi professori, da Paolo Menzio a Enrico Paulucci, che passavano, oppure li incontravo al bar, li sentivo discutere, vedevo l’entusiasmo dei giovani… Avendo un piccolo spazio a fianco del negozio, ho chiesto a due-tre artisti se volevano fare una mostra. Lì è nata la prima cosa che ho imparato sul mondo dell’arte: la forte competizione tra gli artisti e l’indecisione sul fatto di stare assieme per proporre le proprie idee. E dopo mesi di grandi discussioni, visto che non si faceva nulla, ho deciso di prendere in mano la situazione e ho aperto la mia prima galleria, la Franzp, con personaggi come Marco Gastini, Ezio Bersezio e Nanni Cortassa.

1971, La Monte Young

1971, La Monte Young

E l’incontro con Gina Pane?
Sono davanti all’Accademia, arriva una ragazza giovane coi capelli corti e mi dice: “Buongiorno, mi chiamo Gina Pane, vivo a Parigi ma sono di Torino. Mio padre è l’accordatore di pianoforti Pane di Santa Rita. Dovrei fare una mostra in Italia, a Torino in particolar modo, perché questo gallerista francese molto conosciuto, Jean Larcade, vuole cambiare indirizzo alla sua galleria e aprire ai giovani francesi e non. Però io non ho curriculum e ho bisogno di fare questa mostra per far vedere che ce n’è qualcuna”. Io accettai. Arrivò un camion di sabbia bianca dalla Francia, su cui lei lasciò tracce con il rastrello per la sua installazione Stripe-Rake.

Dopo quella mostra è nato lo spazio LP220…
Il gallerista francese venne in Italia per l’inaugurazione. L’aereo Parigi-Torino allora era solo una volta al giorno. Quel giorno fu in ritardo, invece di arrivare alle 19 arrivò all’una di notte. Assieme a Larcade c’era anche una donna, Tania Moreau, che il giorno dopo gli disse: “Ma perché non apri una galleria insieme a questo bel giovane italiano?”, e Larcade disse: “Eh, ma la galleria è piccola”. Io gli risposi di non preoccuparsi e gli trovai i 400 mq di via Carlo Alberto, la galleria LP220, sigla che significa: Larcade, Paludetto e 220, un numero africano che, tradotto da Tania Moreau, vuol dire “lunga vita”. Io ci sono ancora, questo è il discorso. E lì, in via Carlo Alberto, su due piani è partita tutta la mia storia, diciamo pure che va dai concerti di LaMonte Young alle mostre di Giuseppe Chiari, a Roman Opalka.

Castello di Rivara

Castello di Rivara

Poi cosa è successo?
È successo che il signor Larcade è andato in crisi economica, tanto da non essere più in grado di pagare l’affitto della galleria. Venne un giorno la proprietaria del locale e disse: “Senta una cosa, c’è una ditta che vorrebbe comprare questo spazio. Pagano 43 milioni…”. Io dissi: “Devo parlare col mio socio in Francia”, ma lui non si faceva più trovare. Così, un giorno ho detto alla proprietaria: “Senta una cosa, se lei mi dà 6 milioni, io in 48 ore le lascio lo spazio”. Lei mi rispose di parlarne con i nuovi proprietari che volevano comprare. Io con quei soldi andai ad abitare in piazza Solferino, nel grattacielo.

Quanti spazi hai aperto a Torino?
Dopo LP220 in via Carlo Alberto, sempre con lo stesso nome, andai in piazza Solferino, poi in via Susa, dove feci la mostra di Pino Pascali, di Aldo Mondino e la grande mostra di Sergio Ragalzi con il testo di Rudi Fuchs. Lo stesso vale per la galleria in via Mazzini, dove organizzai una grande mostra di Salvatore Astore, svuotando un box della Gondrand e dove feci anche Europa-America. Avanguardie diverse sugli artisti segnalati da Achille Bonito Oliva. E poi mi sono trasferito al Castello di Rivara.

Perché cambiavi continuamente galleria?
Io ho cambiato tanti spazi non perché non pagassi l’affitto, ma perché privilegiavo il momento in cui accadevano le cose. Per il tipo di installazioni che si facevano allora era normale che, una volta consumate, l’artista avesse bisogno di un nuovo spazio per creare, sennò si produceva una ripetizione e la cosa non mi interessava. Questa è la mia storia di gallerista, anche se non sono proprio un gallerista, in definitiva.

Castello di Rivara, 1992 - Paul McCarthy, Bang Bang Room

Castello di Rivara, 1992 – Paul McCarthy, Bang Bang Room

Anche tu ti sentivi un artista fallito come Sperone?
Pur nella diversità, Sperone mi stimolava a essere non concorrenziale, a intraprendere una cosa totalmente diversa. Ecco cosa significa quando dico che non mi sento gallerista, perché normalmente i miei colleghi, ai quali voglio tanto bene, cercano sempre di carpire le cose di qualcuno che si è già affermato. Io invece non volevo fare artisti come Mario Merz, perché non mi appartenevano, non erano mie storie. Io volevo una mia storia. Ecco perché c’era Gina Pane, LaMonte Young, Roman Opalka, Hermann Nitsch, Arnulf Rainer…

Cercavi un’affinità con gli artisti?
Volevo che fosse una cosa mia. Nella piccola galleria in via Accademia Albertina, dove c’è stata Gina Pane, ho fatto anche la prima mostra di Luigi Ontani, il suo primo catalogo. Questi due artisti li ho fatti io per la prima volta a Torino. Anche se, e questa è una denuncia che faccio, questi famosi direttori del Castello di Rivoli, in occasione della mostra di Ontani, prima di tutto non si sono preoccupati di sapere se io avevo dei documenti, perché io non ho fatto una sola mostra, ne ho fatte quattro, poi non mi hanno mandato neppure l’invito…

Castello di Rivara, Felix Gonzales-Torres - Untitled (March 5th) #1, 1991

Castello di Rivara, Felix Gonzales-Torres – Untitled (March 5th) #1, 1991

Com’era Torino, artisticamente parlando, negli anni delle prime gallerie?
Io ho imparato una cosa stando a Torino: essere sempre discreto e non ficcarsi assolutamente in mezzo per farsi notare. Non frequentavo le gallerie. Se andavo, andavo da solo senza bisogno di farmi notare.

Che ruolo ha avuto Calice Ligure?
Su invito dell’artista e gallerista Giorgio Ciam sono andato nel 1973 a Calice, dove viveva una comunità di artisti guidati da Emilio Scanavino. Un giorno mi ha detto: “Perché non vieni ad aprire una piccola galleria qui?”. Così ho aperto uno spazio come quello davanti all’Accademia e ho fatto tutta questa serie di mostre che duravano solo un giorno, dal titolo A Calice Ligure non c’è il mare. C’è stato un falso matrimonio tra Nanda Vigo e Renato Mambor; c’è stato Aldo Mondino che come mostra presentava suo figlio; c’è stato Tino Stefanoni con un evento che io pensavo consistesse in una partita di ping pong e invece c’era solamente lui che faceva: “Ping pong, ping pong”. E portai la prima mostra di Joseph Beuys, quella con la slitta, perché avevo fatto una mostra di Beuys anche in via Carlo Alberto. Nel matrimonio di Nanda Vigo con Renato Mambor, ho addosso il vestito di feltro di Beuys.

E la storia del Castello di Rivara?
A Calice Ligure c’era anche Aldo Mondino. Un mese prima, ritornando dallo spazio di Gondrand che avevo fatto svuotare per realizzare la grande mostra di Astore, uno dei proprietari del castello si era ricordato di una collettiva con Staccioli, Carlino, Spagnulo che avevo organizzato quando ero in piazza Solferino. Mi ha detto: “Tu che avevi fatto questa mostra, noi abbiamo comprato un castello, vai a vedere se ti interessa organizzare delle mostre”. Io sono andato a Rivara, il castello era totalmente abbandonato e ho pensato che non mi interessava. Fatalità: due mesi dopo sono a Milano e incontro Aldo Mondino che era tornato da Parigi, appena separato dalla sua compagna e madre di suo figlio, e non sapeva dove andare. Gli dico: “Senti Aldo, tu sei torinese, a me hanno offerto un castello, io provo a telefonare se me lo danno in comodato”. Me l’hanno dato in comodato per sei mesi, poi hanno rinnovato per altri sei mesi. Nel frattempo ho cominciato a comprare una piccola quota, poi tre quote, cinque quote, sei quote ed è diventato mio. Unico proprietario insieme a mio figlio, che mi dà una mano.

Castello di Rivara, Aldo Mondino 2005

Castello di Rivara, Aldo Mondino 2005

Come sei riuscito a farne un centro d’arte contemporanea con una collezione di artisti come Nitsch, Penone, Opalka, Calzolari, Ontani, da far invidia ai musei più riconosciuti?
Io ho comprato il Castello di Rivara con l’arte contemporanea, vendendo I Mille fiumi più lunghi del mondo di Alighiero Boetti, che era mio e avevo offerto alla Gam di Torino. Ma aveva rifiutato dicendo che era un artista che non gli interessava, o meglio, che non gli interessava l’opera Mille fiumi, e quindi l’ho venduta al Museo di Francoforte. Ho venduto i Pascali in Giappone perché qui non interessavano, perché c’era una politica di chiusura. Abbiamo avuto a Torino, e questo lo devo dire, una fortuna enorme, perché abbiamo avuto la possibilità di avere un potenziale di scambio importante e ce lo siamo fatto scappare, a parte Rudi Fuchs che fu veramente un direttore straordinario. Oggi si parla di Boetti, ma non lo volevano. Pensa che, per fare una mostra, avevo prestato i Pesci di Aldo Mondino, e la direttrice – senza fare nomi… – me li ha mandati indietro. Non hanno valorizzato gli artisti torinesi. A meno che non fossero Mario Merz, o quei tre o quattro…

Torniamo a Rivara…
La mostra di Maurizio Cattelan con la sua Fuga l’ho fatta io al Castello di Rivara. Qui ho portato Arnulf Rainer e Hermann Nitsch, dopo aver organizzato la loro prima azione nella chiesa sconsacrata di via San Massimo. E poi di Nitsch ho fatto una grande mostra, con tutti i quadri rossi, nella galleria di via Susa.

Alcuni artisti ci hanno solo lavorato, altri ci hanno proprio vissuto, al Castello di Rivara.
Aldo Mondino ci ha vissuto per due anni. Altri artisti che hanno proprio abitato qui sono stati Umberto Cavenago, Maurizio Arcangeli, Nicus Lucà. C’è gente che stava una settimana e poi se ne andava, altri sono rimasti un anno, due anni. Quando Mondino è venuto giù da Parigi e ha visto questo luogo, ha detto: “Da qui non mi muovo più”. Non aveva neanche la patente allora, ed è rimasto due anni. Ogni tanto veniva giù la sua amica Paola Mattioli, che poi ha sposato.

Castello di Rivara, Balkenhol e Becker (1989)

Castello di Rivara, Balkenhol e Becker (1989)

Qualche retroscena?
Finita la mostra di Gina Pane, sia a Torino sia a Parigi, l’ho portata a Bruxelles, a casa di una grande collezionista che si chiama Betty Barman, dove abbiamo organizzato l’azione Moment de silence. Avevamo invitato tanta gente e Gina Pane è rimasta sei ore lì in silenzio. Poi ho fatto la mostra di Gianni Piacentino al Palais des Beaux Arts, sempre a Bruxelles: era l’entusiasmo a sostenermi, ma non c’era niente di sicuro. Mi ricordo quando ho conosciuto Opalka: venne a Torino perché in Polonia aveva una Fiat Campagnola e qui poteva trovare i pezzi di ricambio. Venne da me in via Carlo Alberto e mi disse che voleva fare una mostra in Italia, così la facemmo nella mia galleria. Allora un quadro di Opalka costava al pubblico 400mila lire, invece a una delle prime fiere di Basilea a cui ho partecipato sono riuscito a venderlo per molto di più.

Come hai fatto?
Avevo caricato i quadri di Opalka sulla 124 blu di questo mio amico, Giorgio Ciam, e avevamo trovato il sistema di passare la dogana senza avere il buono o il pass. Questo succedeva perché all’interno della fiera c’era la dogana, lasciavamo 100 franchi svizzeri in deposito e andavamo dentro. Quando tornavamo, ci restituivano anche i franchi, se non avevamo venduto niente. E andavamo sempre due giorni prima, fuori dalla fiera, aspettando che qualche americano o qualche galleria dall’estero non venisse, per farci dare lo spazio da riempire. Questa era la tecnica che usavo io. Dopo una lunga attesa con l’ansia di non avere lo spazio, avevo messo su questi quadri, quando passa un ragazzo giovane che dice: “Quanto costa quel quadro?”. E io: “Non sono in vendita”, ma l’avevo detto così. Se n’è andato via. Il giorno dopo è tornato insieme a un signore coi pantaloni alla zuava. Era Bruno Bischofberger, che io non sapevo nemmeno chi fosse. Si è fermato e mi ha chiesto: “Cosa costano questi quadri?”. E io: “3mila dollari”. Me l’ero inventato sul momento. Ho visto questo qui che dal taschino dietro dei pantaloni tirava fuori il portafoglio dicendo: “Compro questo e quest’altro”. Io ho risposto: “No, l’altro non si vende perché è già venduto”, ma non era vero niente. Poi c’era tutta una serie di fogli di viaggio, di disegni originali. “No, guardi, può prenderne solamente due perché tutti gli altri sono venduti”, e non era vero. Da lì è partita tutta la storia, perché ho fatto fare una mostra di Opalka alla galleria di Bruno Bischofberger, con cui ho fatto uno scambio, portando in Italia cinquantadue Daniel Spoerri, per farne una mostra in via Mazzini.

Castello di Rivara, Cavenago e Nitsch

Castello di Rivara, Cavenago e Nitsch

Perché sei andato a Norimberga ad aprire la Galleria Linding in Paludetto?
È successo questo: i collezionisti iniziali del Castello di Rivara erano torinesi che si erano riuniti in una fondazione. Questi signori erano ricchissimi, però la loro esperienza era minima. Di fronte al denaro gli artisti sono sensibili. Che cosa vuol dire? Che quando tu contattavi un artista, questo preferiva andare dall’altra parte, perché dall’altra parte, pur di affermarsi, compravano tutte le opere. Allora, con quella che poi è diventata la mia seconda moglie, Carolin Linding, abbiamo deciso, visto che lei era tedesca, di spostare il baricentro in Germania, tenendo sempre il Castello di Rivara, per non creare tensioni o metterci in concorrenza. Non a Colonia, né tantomeno a Berlino, dove c’erano troppe gallerie, ma a Norimberga, dove stavano per aprire il nuovo museo di arte contemporanea. Siamo andati avanti dal 1999 al 2005, poi mia moglie si è ammalata e la cosa è finita. Io ho portato avanti ancora per una stagione l’idea e infine ho chiuso.

Nel 2010 apri una vetrina del Castello di Rivara a Roma e nel 2011 fai altrettanto a Torino, dopo un’assenza di dieci anni…
Lo spazio di Roma l’ho aperto perché, come quello poi di Torino, era un momento di grande crisi. Volevo fare una piccola vetrina per far vedere che l’arte continua. Senza fare le megamostre, come informazione. Questa, secondo me, era la reazione più politica che potevo avere in un momento di grande crisi. Per rispetto all’arte. Per documentare quelle che erano le ultime cose.

Claudia Giraud

www.castellodirivara.it

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #19

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Claudia Giraud

Claudia Giraud

Nata a Torino, è laureata in storia dell’arte contemporanea presso il Dams di Torino, con una tesi sulla contaminazione culturale nella produzione pittorica degli anni '50 di Piero Ruggeri. Giornalista pubblicista, iscritta all’Albo dal 2006, svolge attività giornalistica per testate…

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