In Europa si fa così: quaranta i progetti del Premio Mies van der Rohe in mostra alla Triennale di Milano. Ed emerge il quadro desolante del contesto italiano: il 40% dei nostri architetti non arriva a fine mese

“Non credo che lui sarebbe molto d’accordo su alcuni dei progetti che hanno vinto negli ultimi anni. Ma considerato che è morto…”. Non è forse il modo migliore per fare gli onori di casa, ma non si può certo dire che Vittorio Gregotti, decano dei compassi italici, difetti in schiettezza. E questo non può non […]

“Non credo che lui sarebbe molto d’accordo su alcuni dei progetti che hanno vinto negli ultimi anni. Ma considerato che è morto…”. Non è forse il modo migliore per fare gli onori di casa, ma non si può certo dire che Vittorio Gregotti, decano dei compassi italici, difetti in schiettezza. E questo non può non essere un merito. Luci e ombre sull’ultimo quarto di secolo di architettura in Europa a margine della tappa milanese che porta a spasso in mostra il meglio dell’edizione 2013 del premio Mies van der Rohe. Evento che, con buona pace di Gregotti, tenta di scandagliare l’intero Vecchio Continente a caccia di eccellenze progettuali e nuove visioni metodologiche. Sono una quarantina i lavori presentati in Triennale: c’è naturalmente il vincitore, quella sala polivalente in via di costruzione a Reykjavik disegnata con l’aiuto di Olafur Eliasson dallo studio del compianto Henning Larsen, scomparso solo poche settimane dopo l’annuncio della conquista del premio; e c’è ormai l’arcinoto Superkilen di Copenhagen, parco urbano multiculturale griffato Bjarke Ingels Group. C’è l’archistar di oggi, ovvero Rem Koolhaas, e i possibili big di domani: Snøhetta su tutti; ci sono, tra edifici ex novo e riqualificazioni, diversi e variegati progetti per musei, auditorium, biblioteche ed aree archeologiche, evidente espressione di una frenetica necessità di ripensare i contenitori per l’arte e per la cultura. Questo a livello diffuso, in un panorama europeo da analizzare, comprendere e ridefinire. Esiste un comune sentire? C’è una diffusa estetica transnazionale che ci porta a parlare di “stile europeo”? Faccenda da affrontare con un mare di distinguo: a introdurre il tema è un Cino Zucchi particolarmente in palla nell’inquadrare lo iato tra global e local, le difficoltà da parte delle giovani generazioni di confrontarsi con una patrimonio di pratiche sedimentate nel tempo, alle quali è imperativo non ancorarsi ma che vanno comunque tenute in considerazione. Per evitare il proliferare di splendide scatole fredde, elementi alieni al territorio in cui sono calati, costruzioni a tavolino che vanno bene per le riviste di architettura – e per i premi, naturalmente – ma che impattano meno di zero sulla vita delle città che le accolgono. Necessario navigare a vista e con le antenne ben dritte, insomma. A maggior ragione in Italia. Numeri tossici quelli che emergono nel corso della chiacchierata che fa da aperitivo al vernissage: in Italia abbiamo 2,4 architetti ogni mille abitanti, ma il 40% di loro non arriva a portare a casa mille euro al mese e il 38% ha contratto debiti per poter proseguire la propria attività. Se le archistar nostrane hanno i capelli bianchi e all’orizzonte non si intravede il ricambio generazionale dovrà pur esserci un motivo. Magari sta nel fatto che in Italia 45mila architetti lavorano in proprio e da soli, settemila studi contano appena due persone: senza pratica di lavoro collettivo, senza praticantati – veri, eh: mica portare il caffè due mesi e poi tante care cose – il passaggio di consegne si fa impossibile. Ma diventa ostico anche il flusso delle idee, il ricircolo, l’aggiornamento, la freschezza, l’innovazione. E restano le villette a schiera. Ammesso il mercato del mattone riparta…

– Francesco Sala

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Francesco Sala

Francesco Sala

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