L’ingresso al Metropolitan non era gratuito? Americani pronti alla class action per la comunicazione ingannevole che spilla ai turisti la bellezza di 25 dollari a cranio: è solo un invito alla donazione, ma sembra un ticket obbligatorio

Andiamo: nessuno legge mai le scritte in piccolo a margine di un contratto. Cavilli, comma, rimandi, citazioni: noiosissima roba da legulei; una firmetta e tutto va via liscio, obnubilato nella più pacata e tranquillizzante superficialità. Negli Stati Uniti, regno incontrastato del common law, intricata savana per avvocati dalle zanne aguzze, a certe cose viene invece […]

Andiamo: nessuno legge mai le scritte in piccolo a margine di un contratto. Cavilli, comma, rimandi, citazioni: noiosissima roba da legulei; una firmetta e tutto va via liscio, obnubilato nella più pacata e tranquillizzante superficialità. Negli Stati Uniti, regno incontrastato del common law, intricata savana per avvocati dalle zanne aguzze, a certe cose viene invece dato un peso specifico non banale. Negli Stati Uniti, strano Paese dove il concetto di libertà individuale conserva intriganti aspetti sacrali, il confine tra furberia e reato viene preso decisamente sul serio. E la partecipazione collettiva a casi di manifesta – o presunta – ingiustizia monta con incontrollabili effetti mediatici. Quelli che, in queste ore, stanno mettendo in croce il monolitico Metropolitan Museum. E il tutto per una apparente banale questione grafica: un affare che vale, però, montagne di dollari.
Nessuno legge mai le scritte in piccolo: figuriamoci quando ha fretta, soprattutto se dopo un’estenuante attesa in coda arriva finalmente il suo turno per mettere le mani sull’agognato biglietto che consente l’accesso al museo, ogni anno, a non meno di 6 milioni di visitatori. Accesso, beninteso, commisurato alle possibilità di spesa dell’utente: secondo quella meravigliosa ordinanza della città di New York che dagli Anni Settanta impone accessi agevolati alle più importanti istituzioni pubbliche della città, per almeno cinque giorni e due sere la settimana. C’è chi di norma fa pagare il prezzo pieno, ma istituisce giornate free entry; e chi, è il caso del Brooklyn Museum e appunto del Met, preferisce lasciare l’accesso alla libera donazione dell’utente. Paga ciò che puoi, insomma. Le regole non sono cambiate, l’ingresso è ancora regolato in questo modo: ma sono in molti quanti, negli ultimi tempi, hanno lasciato alla cassa la bellezza di 25 dollari a testa. Solo, si fa per dire, 17 per  pensionati; 12 per i bambini. Vera e propria induzione illecita alla generosità secondo le associazioni che da quelle parti tutelano i diritti dei consumatori: sul pannello all’ingresso del museo di legge a chiare lettere la voce Admissions, seguita dai vari scaglioni di prezzo. Non si legge altrettanto bene, proprio perché in caratteri minori, la postilla recommended: consigliati, suggeriti, graditi. Ma non obbligatori. La protesta monta non tanto per l’aumento del fee, alzato di cinque dollari dopo oltre sei anni di prezzo calmierato; ma perché non è dichiarata in modo inequivocabile la possibilità di corrispondere una cifra minore.
E così per pigrizia, disattenzione o anche ignoranza della lingua – la dicitura è solo in inglese – sono centinaia i visitatori che ogni giorno aprono il portafoglio convinti di non poterne fare a meno: contribuendo così in maniera involontaria ad alzare la quota con cui la voce bigliettazione – oggi ferma attorno al 15% – incide su un bilancio che si aggira attorno ai 250 milioni di dollari ogni anno. E che potrebbe presto vedere aumentare le uscite del capitolo “spese legali”.

Francesco Sala

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Francesco Sala

Francesco Sala è nato un mesetto dopo la vittoria dei mondiali. Quelli fichi contro la Germania: non quelli ai rigori contro la Francia. Lo ha fatto (nascere) a Voghera, il che lo rende compaesano di Alberto Arbasino, del papà di…

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