La storia dell’universo secondo Terrence Malick sbarca a Venezia. La nostra recensione

Proiettato in anteprima a Venezia l'attesissimo film di Terrence Malick. Dopo la Palma d’Oro strappata nel 2011 a Melancholia di Von Trier, l’auspicio è che la giuria della Mostra del Cinema non si faccia lusingare, come già accaduto a Cannes, dal Malick filosofo. Ecco perché il film non ci è piaciuto.

L’ARTISTA FILOSOFO
Qual è il pericolo più grande per un artista? Farsi filosofo. È già successo a Marina Abramović e Bill Viola, tra i casi più eclatanti, e dopo la visione di Voyage of Time: Life’s Journey abbiamo avuto la definitiva conferma di Terrence Malick. Un regista al quale le star di Hollywood si affidano incondizionatamente, e quasi gratis, convinte così di purificarsi artisticamente. Come se lavorare per Quentin Tarantino, nel caso di Brad Pitt, non fosse già l’equivalente di essere parte della Fabbrica di San Pietro ai tempi di Michelangelo. Recitare per Terry ha cambiato il mio modo di vedere questo lavoro. Lui era più interessato a cogliere l’attimo e aspettare il momento della verità.” Questo dichiarava Pitt a Cannes nel 2011 a proposito di The Tree Of Life (di cui Voyage of Time: Life’s Journey è una diretta derivazione).
Le meravigliose immagini dell’Universo, nella sua dimensione macro e micro, e le vertigini provate nell’osservarle a una tale definizione sul grande schermo rappresentano il momento più bello e alto di quella pellicola, che però subito dopo deragliava nella scena di folla di anime new age.

Terrence Malick, Voyage of Time

Terrence Malick, Voyage of Time

TRA DINOSAURI, PIANETI E CELLULE
Convinto di poter ampliare e approfondire la sua riflessione, in virtù di materiale avanzato dal film precedente (7 anni di riprese, migliaia di ore), Malick si avventura con Voyage of Time: Life’s Journey in un’impresa ambiziosissima: raccontare la storia dell’Universo e dell’evoluzione in soli 90’. Ma non in modo metaforico, bensì reale. E siccome l’Universo è immortale e ciclico, meno di due ore non bastano, da qui il primo problema, oltre a quello di aver usato il linguaggio dell’arte, i contenuti della scienza e gli intenti della filosofia in maniera approssimativa e ingenua. Raggiungendo il grottesco nella scena in cui, dopo la breve comparsata di un dinosauro in computer grafica, finalmente appare sulla terra l’umanità: gli uomini uccidono un coniglio e lo fanno alla brace, le donne, con viso da scimpanzé ma già depilate, attendono vicino al fuoco assumendo le pose della Venere di Urbino. Il paragone con l’unica scena della storia del cinema in grado (attualmente) di descrivere in pochi secondi l’evoluzione umana, 2001 Odissea nello Spazio, risulta inevitabile ed impietoso.

IL TRIONFO DEL DIDASCALICO
Tra una scena subacquea con pesci che si divorano l’un l’altro e una nebulosa rossa, a tratti fa capolino la miseria umana contemporanea con riprese in bassa definizione, in caso non fosse chiara la battaglia persa della mente umana con la magnificenza dell’Universo. A guidare lo spettatore è la voce di Cate Blanchett, che in un’invocazione alla madre (natura) si cimenta in una serie di affermazioni così didascaliche da ridursi al captcha sonoro delle immagini: per esempio Cate dice “Life”, ed ecco che una cellula si moltiplica. E così via, per tutta la durata del film.

– Mariagrazia Pontorno

 

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