Barilla, trent’anni di spot. Tradizione o omofobia? Cronaca (e critica) di una polemica rovente

Molto rumore per nulla? Qualche riflessone, all'indomani del caso Barilla, dopo le dichiarazioni che hanno scatenato l'indignazione di gay e attivisti per i diritti civili. L'azienda sceglie l'immagine della famiglia tradizionale. Apriti cielo. Ma si tratta di omofobia o di una comune scelta di branding?

Dove c’è Barilla c’è casa. Slogan vecchio di un trentennio ma che si è sedimentato nelle teste degli italiani per non uscirne più. Una di quelle cose che funzionano, piacciano o meno: perché corrispondono a un immaginario, perché raccontano qualcosa, perché raggiungono il punto giusto sul fondo della memoria collettiva e là mettono radici. Una pubblicità riuscita, verrebbe da dire. Eppure tanto criticata. Perché sì, l’ironia sulla famigliola perfetta descritta dagli spot della pasta Barilla è antica come gli spot stessi. C’è sempre stata. Proprio come per il Mulino Bianco, diventato addirittura un topos della retorica italica familistica di stampo cattolico.
E però, a rivedere ora quegli spot, un poco d’emozione viene. Retorici, sdolcinati, inzuppati di un’armonia che nel quotidiano non esiste nemmeno da lontano e  che se esiste, prima o poi, viene spezzata. D’accordo. Zuccherosi e artificiosi, come i sogni che nessuno vuole più sognare, pena lo sbadiglio o il disincanto. Ma a rivederli non irritano e, semmai, strappano un sorriso. Un po’ è la nostalgia dei tempi andati, un po’ è quella grana sporca e masticata di una registrazione in VHS, poi digitalizzata e trasferita su Youtube (con annesso godimento per quell’eco di low-fi che sa di infanzia). Un po’ è davvero che si diventa vecchi e sfogliare l’album dei ricordi provoca una controversa gioia. Così, quella musichetta martellante e tenue, strimpellata da bambini, ti risveglia tutto uno struggimento che sa di miele, di pomodoro fresco, di pioggia in autunno e di farina.  E che sa di casa, appunto.

Eccoli là, i diabolici fusilli. Nella tasca del papà in viaggio per lavoro, che non dimentica i propri affetti. Nelle tagliatelle cucinate il giorno che nasce il bebè. Nelle emiliane di quanto torna il figlio dal servizio militare. E ancora nelle farfalle, quando rientra a casa la bambina con un gattino bagnato tra le mani. Libro Cuore in versione catodica, ma tant’è. Un modello che ha funzionato, come il più insistente dei ritornelli; perché quel mondo là non sarà certamente reale, nella ruividezza e nella complessità del quotidiano, ma è un mondo che a molti è appartenuto, anche solo per qualche istante, e che tutti, in qualche luogo e in qualche tempo, hanno comunque desiderato: il calore di una famiglia, la quiete del focolare, la certezza della protezione. E non sono forse, il sogno, il ricordo o il desiderio, la materia prima della pubblicità? Dunque, il padre, la madre, i nonni, i bambini, la cura che non finisce, l’amore che rimane. La famiglia, come da tradizione.
E spunta la parola infamante, l’affronto che ha fatto insorgere associazioni gay, attivisti e circoli perbenisti: tradizione. La parola messa al bando. Perché quando Guido Barilla, intervistato dai due fomentatori di professione de La Zanzara (Giuseppe Cruciani e David Parenzo) ha dichiarato candidamente che Barilla non avrebbe mai fatto pubblicità con famiglie omosessuali – non per mancanza di rispetto verso le stesse, ma perché non rientrerebbe nell’idea tradizionale di famiglia che l’azienda ha sempre rappresentato – è scoppiato il putiferio. Qualche virgola fuori posto, un modo d’esrpimersi a tratti infelice e un po’ d’avventatezza nel sottovalutare il tema. Oltre all’incapacità di dribblare a dovere le provocazioni dei due abilissimi conduttori. Ma il succo quello era.

Da qui, una valanga di reazioni sproporzionate s’è riversata ovunque, come da copione: ore e ore di polemiche su blog, giornali, in radio e in tv. Coi social media a fomentare una protesta divenuta di proporzioni globali: il boicottaggio del marchio è esploso nel giro di niente.
Perchè gli indignados dei diritti civili, i battaglieri con lo striscione sempre pronto (anche quando non c’è nessuna battaglia da armare), si sono tutti arrabbiati moltissimo. Ma come, Mr. Barilla discrimina i gay? Non vuole papà Ugo e papà Mario che apparecchiano coi bimbi intorno, il grembiule indosso e il gatto che fa la fusa? Al rogo. Mr. Barilla è un omofobo. Sì, perché adesso, in questa isteria di massa che ha inspiegabilmente preso piede, una banale scelta di marketing aziendale diventa una questione etica. Errore ingenuo o strumentalizzazione? Il punto è allora uno: se nello spot tradizionale non ci infili l’elemento di rottura, sei automaticamente un razzista, un ignorante, un nemico delle minoranze. In sintesi, non è dato scegliere.
Ma non sarebbe più normale considerare che esistono aziende (in Italia poche o nulle, in verità) orientate a un messaggio di cambiamento e di rischio, e altre che invece optano per un modello consueto? Non sarebbe più normale pensare che si parla di target, di tipologie di prodotto, di strategie di comunicazione e che, per esempio, un marchio nato nel segno della tradizione pastaia italiana, oltre un secolo fa, è un marchio che alla tradizione ha legato la sua identità? I valori d’una volta: quelli della famiglia, quelli della pasta e dell’azienda stessa. Qualità, fiducia, dedizione, sicurezza, amore, fatto a mano, semplicità, armonia, cura. In una sola parola, “italianità”. Questa è la linea adottata. E siamo nel campo del branding, non dei diritti civili. Sovrapporre le due cose è pretestuoso. Escludere o includere un soggetto, un modus, un contesto, una caratteristica, uno stile, una cultura, non significa discriminare, offendere, emarginare o aggredire gli altri. Significa scegliere. Per vendere. Stop.

Dagli anni Ottanta a oggi gli spot Barilla hanno mantenuto un tipologia costante. Sono stati tradizionali nel seguire un approccio tradizionalista. Basta scorrerli, lungo tre decenni (con qualche chicca d’autore, da Fellini a David Lynch alla regia, passando per Depardieu ai fornelli) e al di là di cambiamenti di superficie, legati all’evoluzione di contesti e life style, il nocciolo resta sempre lo stesso: il caro, vecchio, dolce nucleo familiare o comunque la sfera dell’affettività.
Altre aziende, con una mission diversa e un prodotto diverso, fanno altre scelte, magari fortemente provocatorie. E il punto è uno: tanto è deprecabile il bigotto che boicotta Ikea, non per la qualità dei mobili ma perché fa lo spot con la coppia gay (vero Giovanardi?), tanto lo è quello progressista che boicotta Barilla perché fa lo spot con la coppia etero. Exploit talebani del nostro tempo. E a questi ultimi, i censori della tradizione, verrebbe da chiedere: non sarà mica il caso di istituire le “quote fucsia”, con un comitato di vigilanza che sanzioni gli spot privi di una percentuale sufficiente di messaggi omofili?

Che poi, per tornare alla tanto vituperata parola “tradizione”, ci sarebbe da dirne, cercando il perché di tanta inestirpabile forza. Tradizione non è l’antitesi di cambiamento. Tradizione è l’orizzonte entro cui il cambiamento avviene, rapportandosi con un’origine non temporale, che ha a che fare con narrazioni arcaiche e sentimenti antropologicamente radicati.  Tradizione non è nemmeno la famigliola etero, in sé e per sé. Ma è quella cosa per la quale, alla fine, gli omosessuali desiderano anche loro una famiglia (e dentro gli spot Barilla ci vorrebbero pure stare… Contraddizione? Appiattimento su modelli vecchi? Forse, ma anche no). È  il senso di un nucleo stabile, che magari cambia involucro, linguaggio, che attraversa crisi e che perde pezzi. Ma che resiste. Non magari nella forma, ma certo nella sostanza originaria. La comunicazione Barilla attinge da quel ceppo là. E lo fa in una maniera borghese e conformista, spesso stucchevole. Ma questo fa parte delle declinazioni culturali attraverso cui i miti si incarnano lungo la linea della storia. Ed è quanto attiene alle scelte, per l’appunto.
Scegliere un registro, un topos piuttosto che un altro, un riferimento. Ma farlo – nei casi migliori, in cui la comunicazione “arriva” – per toccare delle corde autentiche. Le parole casa e famiglia sono parole potenti, antiche. Che producono sentimenti forti, positivi e negativi, di desiderio e di rabbia, di calore e di frustrazione, ma che riguardano tutti. E ci saranno sempre, nella memoria o nel desiderio di tutti, una madre, un padre o una nonna che preparano una pietanza calda.

Boicottare la pasta Barilla? Ci sta pure. Ma perché la qualità non è più quella di un tempo e a fronte del costo il prodotto lascia a desiderare. Un fatto di semole, di farine, di lavorazione. L’indignazione sulle faccende civili e sociali è davvero l’ultima delle ragioni per cui non metterla nel carrello. La Barilla non è la migliore pasta italiana (non è più nemmeno totalmente italiana, con una quota societaria statunitense) e le crociate moraliste c’entrano come il maccherone a merenda. Gli amanti del politically correct si plachino. Il problema, casomai, è la pasta. Non chi la porta in tavola.

Helga Marsala

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati

Helga Marsala

Helga Marsala

Helga Marsala è critica d’arte, giornalista, editorialista culturale e curatrice. Ha innsegnato all’Accademia di Belle Arti di Palermo e di Roma (dove è stata anche responsabile dell’ufficio comunicazione). Collaboratrice da vent’anni anni di testate nazionali di settore, ha lavorato a…

Scopri di più