Le voci del silenzio. Quattro donne a Ferrara

PAC, Ferrara – fino al 12 giugno 2016. Quattro artiste – Ana Mendieta, Anna Maria Maiolino, Teresa Margolles e Amalia Pica – indagano con coraggio e crudezza le complesse e spesso drammatiche condizioni dei Paesi dell'America Latina. Nell’ambito della Biennale Donna, le tematiche dell'emigrazione, della criminalità, della violenza, della dittatura sono osservate come dirette esperienze personali e insieme come problematiche trame politiche.

RACCONTARE IL SUDAMERICA
Sguardi critici, ironici, coraggiosi, disobbedienti. Sguardi di donne capaci di sbatterci in faccia tutta la crudeltà e l’ingiustizia che caratterizzano ancora il clima socio sociale di alcune aree sudamericane. Le due curatrici – Lola G. Bonora e Silvia Cirelli – hanno evitato di focalizzare la loro attenzione su quel periodo frenetico e spericolato degli Anni Settanta – quando l’arte femminile significava soprattutto rivendicazione, emancipazione, riscatto, quando cioè si tentava di dare testimonianza di sé e della propria vita, magari ricorrendo a un corpo sacrificato, a gesti di amore disperato – e hanno allargato l’inquadratura su una creatività meno antagonista e più libera di esprimersi, scegliendo artiste che sono state capaci di porsi in ascolto di tutte quelle forze e istanze che il solo movimento di opposizione non avrebbe potuto cogliere: il senso della storia, la relazione con l’altro, le urgenze del mondo esterno.
Il fatto poi di aver pensato di raccontare il Sudamerica, un’area dinamica, ricca di storia e di cultura arcaica, ma anche di corruzione, fanatismi, censure, ha portato a proporre riflessioni che tentano di interrogarne e interpretarne i lati oscuri, nascosti o dimenticati. E non a caso la mostra è stata intitolata Silencio Vivo, quasi a voler rilevare il tentativo di denuncia, di allarme, se non addirittura la volontà di dare voce a chi non ce l’ha (agli scomparsi, agli assassinati, ai morti) che tutte e quattro le artiste invitate cercano di mettere in scena.

Ana Mendieta, Untitled (Volcano #2), 1979-99 (particolare) - photo © Marco Caselli Nirmal

Ana Mendieta, Untitled (Volcano #2), 1979-99 (particolare) – photo © Marco Caselli Nirmal

IL RITO, IL CORPO, LA VITA
Ana Mendieta (L’Avana, 1948 – New York, 1985) è attratta da simboli e aspetti di pratiche rituali che vengono dalle antiche culture indigene delle Americhe, dell’Africa, dell’Europa. Usa il suo stesso corpo come filtro con la Natura, facendolo diventare elemento primario tra gli altri, terra con la terra, acqua con l’acqua, sangue con il sangue. È come se volesse smarrire la propria cruda fisicità in una sorta di energia pura. In Anima, Silueta de Cohetes (1976) la sagoma effimera dell’artista, come in un cerimoniale sacro, viene bruciata nel legno “per poi esaurirsi nel ritmo esplosivo di fuochi d’artificio che gradualmente si spengono, sino a non lasciar altro che polvere” (Cirelli).
È un bisogno inesausto di ritrovare le radici non battezzate degli inizi, un bisogno di morire e rinascere, in un continuum vitale senza fine. Un bisogno, dove certo non manca il sangue (“le vene come lingua ancestrale”). E in Untitled (Body Track), documentazione fotografica di una intensa performance del 1974, Mendieta dipinge direttamente sul muro con le mani insanguinate. Ciò che lascia è una traccia di sofferenza, di abbandono, ma anche un segno che evoca l’immagine di un albero, con tutta la sua simbologia di vita, speranza, crescita.

CREAZIONE E DISTRUZIONE
Anna Maria Maiolino invece è nata in Italia, precisamente a Scalea, in provincia di Cosenza, nel 1942. E, dopo un’infanzia da migrante, nel 1960 si trasferisce a Rio de Janeiro, in Brasile. Qui ha modo di sperimentare il clima repressivo della dittatura militare fatto di controlli, divieti, violenze. Così, tutta la sua opera appare come un inesausto e inquietante interrogativo sul senso della paura e del pericolo, ma anche sul limite tra vita e morte, tra creazione e distruzione.
Nella sequenza fotografica In-Out (1973) alcune bocche riprese in primo piano tentano invano di esprimersi, di comunicare, ostacolate da grovigli di fili, da sbuffi di fumo o dagli stessi denti serrati: allusione ai totalitarismi che “tolgono letteralmente voce all’individuo”. Nel trittico fotografico Entrevidas (1981) si vede l’artista camminare tra centinaia di uova stese sull’asfalto. È l’esibizione del rischio di un “passo falso” che finirebbe per distruggere i fragili segni di vita, ma anche quella di un pericoloso campo minato in cui a essere messa a repentaglio è la stessa esistenza umana.

Anna Maria Maiolino, In-Out (antropofagia), 1973-2000 (particolare) - photo © Marco Caselli Nirmal

Anna Maria Maiolino, In-Out (antropofagia), 1973-2000 (particolare) – photo © Marco Caselli Nirmal

DARE UN VOLTO ALL’ASSENZA
Teresa Margolles, messicana classe 1963, fa ancora un passo avanti e racconta direttamente la morte, anche se non la fa mai vedere. Nell’installazione site specific Pesquisas (indagini), per esempio, presenta una parete con le fotografie con cui le famiglie si rivolgono alla polizia o tappezzano le strade di Ciudad Juarez per avere notizie sulle figlie scomparse. Ma sono fotografie usurate dal tempo, in cui le fisionomie si confondono e si perdono. “Io sono solo un mezzo per denunciare, portare alla luce ciò che sta succedendo”, dice l’artista. Ed eccola, allora, in Sonidos de la muerte (2008) registrare i suoni quotidiani dei luoghi in cui è stato rinvenuto il corpo di una donna uccisa.
Niente “effetti speciali”, niente corpi dilaniati, ma il tentativo di far capire la tragedia, attraverso il silenzio, l’assenza, la sparizione. Ma dare corpo a un’assenza non vuol dire anche andare al di là della pura creazione dell’opera, per aprirsi all’ascolto del “suono del mondo”? Forse la specificità dell’arte delle donne oggi sta proprio in questo: nel produrre passaggi, esperienze connettive, relazioni sociali.

Amalia Pica, Switchboard, 2011-12 (dettaglio) - photo © Marco Caselli Nirmal

Amalia Pica, Switchboard, 2011-12 (dettaglio) – photo © Marco Caselli Nirmal

COMUNICAZIONE NEGATA
Ed è precisamente sulla comunicazione che si basa l’indagine della più giovane tra le quattro artiste, Amalia Pica (Argentina, 1978). Alla ricerca di nuovi canali di dialogo, lei finisce invariabilmente per scontrarsi con i quotidiani equivoci del linguaggio che sono la fonte prima dell’incomunicabilità. E perciò gioca con i paradossi del dialogo (“ma non quelli logici che prevedono una spiegazione, ma con quelli assurdi”, dice). Mette in bacheca, “come fossero preziose reliquie”, dei tappi per le orecchie, per rilevare come essi non solo isolino da ogni suono, ma blocchino ogni comunicazione, ancora prima di iniziare. Oppure crea una struttura ispirata all’antico divertimento del “telefono a barattolo”, solo che i fili si aggrovigliano e ogni comunicazione finisce nel vuoto.
Mostra rigorosa, “senza grazia”, fatta con poche opere, Silencio Vivo. Ci mette con le spalle al muro, rompendo silenzi, superando confini, mostrandoci realtà spesso negate. Arrivata alla sua XVI edizione, la Biennale Donna si pone come una denuncia senza sconti. Crudamente interroga e ci interroga.

Luigi Meneghelli

Ferrara // fino al 12 giugno 2016
Biennale Donna 2016 – Silencio Vivo
a cura di Lola G. Bonora e Silvia Cirelli
PAC
Corso Porta Mare 5
0532 244949
[email protected]
www.biennaledonna.it

MORE INFO:
http://www.artribune.com/dettaglio/evento/52481/biennale-donna-silencio-vivo/

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Luigi Meneghelli

Luigi Meneghelli

Laureato in lettere contemporanee, come critico d'arte ha collaborato e/o collabora a quotidiani (Paese Sera, L'Arena, L'Alto Adige, ecc.) e a riviste di settore (Flash Art, Le Arti News, Work Art in progress, Exibart, ecc.). Ha diretto e/o dirige testate…

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