L’arte pubblica nell’era digitale

Con la diffusione sempre più massiccia della tecnologia digitale, quale posto occupa oggi l’arte pubblica? Un excursus sulle modalità con cui gli artisti si servono dell’estetica tecnologica, trasformandola anche in un impulso a incentivare la creatività.

Nel suo La forma del tempo, lo storico dell’arte George Kubler scrive: “L’utensile è uno strumento di comunicazione e l’uomo ha sempre dato un senso alle cose attraverso la produzione di oggetti. L’opera d’arte nasce per rispondere a una domanda sull’esistenza e ogni epoca risponde in maniera diversa”. Volendo portare questa riflessione ai giorni nostri, viene spontaneo pensare agli strumenti tecnologici, come Internet o gli smartphone, ormai indispensabili nel nostro quotidiano. I dispositivi portatili, in particolare, sono divenuti così popolari proprio grazie alla loro capacità di soddisfare un sempre più alto numero di esigenze: dalla possibilità di comunicare con chiunque e in qualsiasi momento alla voglia spasmodica di condividere con terzi, spesso sconosciuti, la propria vita, più o meno privata.
Ma in un’era in cui si trascorre sempre più tempo guardando piccoli schermi tascabili e in cui realtà aumentata e realtà virtuale si stanno facendo sempre più strada, che posto occupa l’arte pubblica? Come fare per invogliare le persone a guardarsi ancora intorno, magari riflettendo sulla condizione sociale attuale? Emblema di un’ingegnosa collaborazione tra arte pubblica e nuove tecnologie è Blinkenlights, un progetto realizzato da alcuni membri della famosa e numerosa famiglia di hacker conosciuta come Chaos Computer Club. Durante la notte dell’11 settembre del 2001 una facciata dell’Haus des Lehrers di Berlino fu trasformata in un enorme schermo mediante una serie di lampade hackerate e collegate tra loro. Attraverso l’utilizzo del proprio telefono cellulare venne data a chiunque la possibilità di modificare le luci del palazzo giocando al classico videogame Pong, disegnando immagini stilizzate o componendo messaggi personali.

SPUNTI RECENTI

Pensando ad approcci più recenti, lo scorso febbraio a New York, in occasione del 40esimo anniversario della Public Art Fund, è stata inaugurata Commercial Break, un’iniziativa curata da Emma Enderby e Daniel S. Palmer che ha coinvolto diversi quartieri e locali della Grande Mela. La mostra ha previsto, per un intero mese, la trasmissione periodica di video di artisti contemporanei all’interno di LED wall e schermi LCD solitamente adibiti alla promozione di prodotti commerciali. I 23 artisti selezionati, tra cui Cory Arcangel, Cécile B. Evans e David Horvitz, sono stati invitati a riflettere su temi attuali come il rapporto tra sfera online e offline, la relazione mutante tra pubblico e privato e l’impatto che il digitale sta avendo giorno dopo giorno sulla nostra società.
Questo progetto richiama inevitabilmente il famoso Messages to the public, ciclo di mostre curate sempre da Public Art Fund, che, dal 1982 al 1990, ha visto alternarsi sullo Spectacolor di Times Square artisti del calibro di Keith Haring, Jenny Holzer, Vito Acconci e Barbara Kruger (solo per citarne alcuni).

Ma in un’era in cui si trascorre sempre più tempo guardando piccoli schermi tascabili e in cui realtà aumentata e realtà virtuale si stanno facendo sempre più strada, che posto occupa l’arte pubblica? Come fare per invogliare le persone a guardarsi ancora intorno, magari riflettendo sulla condizione sociale attuale?”.

Public Fund Art non è però l’unica organizzazione che a New York promuove eventi simili: dal 2012 infatti Times Square Arts porta avanti Midnight Moment. Seppure con un’impronta molto più spettacolare che contemplativa, ogni mese, per la durata degli ultimi tre minuti che precedono la mezzanotte, i billboard digitali di Times Square ospitano un contributo video realizzato da artisti multimediali che lavorano con i registri visivi più disparati: da Robert Wilson a Pipilotti Rist passando per Ryoji Ikeda e Laurie Anderson. Operazioni simili affondano ovviamente le proprie radici nella tradizione concettuale dei cartelloni d’autore, una pratica che ha portato, dagli Anni Settanta in poi, molte opere d’arte negli spazi pubblici delle città, superando i classici spazi deputati alla fruizione artistica.
Mostri sacri dell’arte contemporanea come Joseph Kosuth, Alfredo Jaar e Félix González-Torres hanno così attuato “una rivendicazione dell’effettualità del messaggio e dell’immagine d’arte, come pensiero pubblico e sociale”, come scrive Germano Celant nel suo Artmix.
Riprendere l’abitudine a osservare ciò che ci circonda è un obiettivo che le nuove tecnologie, usate dagli artisti, possono contribuire a raggiungere, giocando un ruolo fondamentale. Così facendo non solo si svilupperebbe una coscienza maggiore nell’uso degli strumenti, consapevolezza che ridimensionerebbe la tendenza alla demonizzazione di certi dispositivi, ma si contribuirebbe anche ad alimentare la sensibilità artistica. L’osservazione contemplativa tornerebbe a essere una consuetudine, e forse, solo così, il futuro potrebbe apparirci un po’ meno distopico.

Valerio Veneruso

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #37

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Valerio Veneruso

Valerio Veneruso

Esploratore visivo nato a Napoli nel 1984. Si occupa, sia come artista che come curatore indipendente, dell’impatto delle immagini nella società contemporanea e di tutto ciò che è legato alla sperimentazione audiovideo. Tra le mostre recenti: la personale RUBEDODOOM –…

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