Biennale del Design di Lubiana. Parola ad Angela Rui

Ha aperto i battenti la più longeva Biennale del Design al mondo, quella di Lubiana. Dal 1964 a oggi, le sue 24 edizioni l’hanno resa una piattaforma di alta interazione tra cultura del progetto e processualità industriale. Parola alla curatrice Angela Rui.

Alla prima edizione di BIO – Biennale di Design Lubiana nel 1964 ne sono seguite altre 24, che hanno riunito designer, clienti, produttori e studenti di tutto il mondo, tra cui nomi importanti come Naoto Fukusawa Design, Ron Arad, Kazue Kawasaki, Marco Zanuso, Vitra International, Porsche Design Studio, Siemens, Elektrolux, Zanotta, Pininfarina, Ergonomidesign, Tupperware, Ikea. Fino al prossimo 29 ottobre, BIO tornerà a essere una mostra internazionale, spostando l’attenzione sulla ricerca e la sperimentazione nel design. Lo scopo della mostra e delle installazioni dislocate sull’intero paesaggio sloveno, organizzate dal Museo di Architettura e Design di Lubiana, è di presentare progetti inediti e possibili territori del design contemporaneo.
I temi sviluppati avranno titoli come Underground Release, After Utopia, Occupying Woods. La curatrice Angela Rui ne racconta motivazioni e sviluppi.

Underground Release, FARAWAY, SO CLOSE, BIO 25, photo: Delfino Sisto Legnani e Marco Cappelletti

Underground Release, FARAWAY, SO CLOSE, BIO 25, photo: Delfino Sisto Legnani e Marco Cappelletti

L’INTERVISTA

Quali segni di distinzione, urgenze e visioni caratterizzano questa nuova edizione della Biennale del Design?
In Slovenia il design è sempre stato presente. Ma l’attenzione del Museo di Architettura è ovviamente molto diversa rispetto al sinonimo di efficienza, progresso, tecnica ed eccellenza che la cultura del progetto ha rappresentato in ambito industriale. Negli Anni Novanta la Biennale ha perso leggermente la sua portata, fino a quando, in occasione della scorsa edizione, nell’anno del cinquantenario, è stato chiamato un curatore come Jan Boelen per rivederne il formato.

Cosa è cambiato?
La Biennale sta diventando una piattaforma di produzione, ovvero produrre ciò che si vede in mostra, e non selezionare progetti esistenti. Sebbene legata alla storia, a collezioni e a tradizioni precedenti, è un’occasione per produrre nuova conoscenza, per testare la disciplina al di fuori della sua confort zone. Abbiamo dato un’impronta locale molto forte, includendo municipalità slovene, persone che conoscessero bene il Paese e luoghi espositivi non istituzionali.
Lubiana è solo una delle location adottate dalla Biennale, mentre per capirne il formato è necessario visitare gli altri sei luoghi che compongono l’intero network. Per attuare questa decentralizzazione sono stati da subito necessari il dialogo e la collaborazione con Maja Vardjan, design curator di MAO. Questo formato di co-curatela locale ha permesso di contestualizzare ogni pensiero.

FARAWAY, SO CLOSE, BIO 25, photo: Delfino Sisto Legnani e Marco Cappelletti, graphic design: Grupa Ee

FARAWAY, SO CLOSE, BIO 25, photo: Delfino Sisto Legnani e Marco Cappelletti, graphic design: Grupa Ee

La prossimità, la distanza, l’eterna relazione tra un interno e un esterno, sovvertiti oppure ricongiunti dal design, quale peso conferiscono al titolo che avete scelto: Faraway, So Close?
Abbiamo sempre lavorato su una doppia traccia: una relativa a temi urgenti che riguardano la percezione del contemporaneo, e una di “setting”, alla ricerca di situazioni locali dentro le quali potessimo geolocalizzare questi temi, che abbiamo chiamato “episodi”. La geografia Slovenia è permeata da caratteristiche naturalistiche e di paesaggio uniche, compresse in un Paese che conta due milioni di abitanti. La varietà di climi è vastissima: dalla foresta al mare, dalla campagna alle Alpi, fino a una rete di grotte e caverne tipiche del territorio carsico. Un territorio ideale, una cartina di tornasole per poter osservare, mettere alla prova e discutere un vero cambiamento di paradigma: assistiamo, infatti, sempre di più a una crescita del numero di persone che dalle città si muovono nuovamente verso territori extraurbani. I motivi sono diversi, ma hanno molto a che fare con il post-crisi economica del 2008, momento in cui le città hanno cominciato a essere non più sostenibili, soprattutto per le nuove generazioni. In un contesto globale, e questo vale anche per l’Europa, diversi Paesi hanno attivato programmi di concessione di terreni, edifici, e villaggi abbandonati, concessi gratuitamente sotto presentazione di progetti di conversione e nuovo utilizzo. È un fenomeno che potremmo definire free land trend, e che considera migrazione interna ed esterna, dentro cui si vedono casi interessanti anche relativi ai recenti flussi migratori.

A proposito delle sedi della Biennale: quali landmark, quali distretti del paesaggio rappresentano e su quali accenti sociologici pongono attenzione?
Ci sono realtà, all’interno delle quali stiamo lavorando, in cui la crisi economica è stata fortissima e la percentuale di disoccupazione è incredibilmente alta. Trbovlje, ad esempio, cittadina cresciuta sull’industria mineraria e una delle location scelte come una delle sedi della Biennale, è stata tra le prime regioni industrializzate in Slovenia ed è nota per le battaglie nell’ideale coinciso con la costruzione di una quotidianità moderna e progressista; dunque un esempio di utopia realizzabile sotto l’influsso socialista. Con la quasi totale chiusura delle miniere, la “nostalgia” è diventata un disagio sociale. Ha un futuro difficile da re-inventare. Forse la Biennale non migliorerà, nell’immediato, le condizioni economiche e lavorative dei suoi cittadini, ma questa collaborazione ha fatto in modo che si possa guardare con altri occhi al futuro, ricominciando dalla condivisione di esperienze individuali in grado di riattivare un dialogo all’interno della comunità.

Come avete lavorato in questo contesto?
Point Supreme (Konstantinos Pantazis, Marianna Rentzou – Atene) e il team associato hanno selezionato e raccontato una serie di storie straordinarie che si svolgono dietro le mura del paese, da scienziati che collaborano con la Nasa, ad artisti straordinari, poeti, coreografi di fama internazionale, ingeneri spaziali – raccontando la straordinarietà dei suoi abitanti. L’episodio After Utopia dunque, che insiste sull’assunzione della fine dell’ideale, offre come alternativa la possibilità di ricominciare a immaginare il futuro basato su questa straordinarietà del quotidiano, che per intenderci abbiamo sempre definito una “super normal propaganda”.

After Utopia, FARAWAY, SO CLOSE, BIO 25, photo: Delfino Sisto Legnani e Marco Cappelletti

After Utopia, FARAWAY, SO CLOSE, BIO 25, photo: Delfino Sisto Legnani e Marco Cappelletti

Quanti designer sloveni sono stati invitati?
Abbiamo invitato sette guest designer e li abbiamo fatti lavorare in coppia con personalità slovene dal profilo molto specifico: da una filosofa a uno scienziato, da un atleta a a un ricercatore alimentare, da una scrittrice di science-fiction a un ballerino coreografo di fama internazionale. A loro sono stati connessi designer selezionati da una open call, tutti di alto profilo, e diversi dei quali sloveni – anche se ormai molti di questi vivono e lavorano all’estero. È sempre molto importante analizzare come persone che si sono formate al di fuori dal proprio Paese possano riportare a casa competenze e conoscenze che arricchiscono le loro stesse radici.

La stessa dialettica tra esterno e interno si ritrova anche nella scelta degli spazi ospiti della Biennale?
La dislocazione dei progetti al di fuori di Lubiana racconta una piccola scissione, un allontanamento. Di fatto, l’unica location urbana si identifica con un oggetto, il kiosk K67, progettato nel 1966 da Sasa Machtig e oggi considerato una delle icone del design negli ex Paesi socialisti, è stata manipolata da Didier Fiuza Faustino – che lo trasforma da oggetto d’uso a oggetto di memoria. Un oggetto di reminiscenza di un passato florido, legato all’utopia del socialismo che, un tempo, si credeva avrebbe influito benevolmente sulla società. Si tratta di moduli prefabbricati, diventati oggi una sorta di nuova rovina urbana alla quale la comunità locale è molto legata, dunque a partire dalla “fiction” costruita attorno a questo oggetto, il discorso si piega al fatto che l’utilizzo di un oggetto è sempre arbitrario, non è fisso nel tempo e nello spazio. E osservarne la sua evoluzione restituisce un’immagine della relazione tra cosa e individuo, tra individuo e società.

Puoi raccontarci alcuni esempi di dislocazione urbana?
Escludendo la dimensione urbana, ad esempio, abbiamo portato i Formafantasma a lavorare in relazione con la nozione di underground, codificato attraverso due ambienti: la cava e la caverna. Loro hanno lavorato sulla nozione di materia in sé, su come si presentifica una volta che, estratta, entra nelle nostre vite, rendendo visibile il rapporto tra tempo lunghissimo di formazione della materia, e tempo di produzione degli oggetti. Nella caverna invece è stata installata la performance di Dan Adlesič, designer che ha lavorato con i Formafantasma, che invece restituisce attraverso un’installazione audio-video la dimensione più antropologica, immateriale e irrazionale che ci lega a questi luoghi.
Matali Crasset invece ha installato nel cuore della foresta una grande stufa multifunzionale, che potrà essere utilizzata dalla comunità installata attorno a Kočevje. Se tradizionalmente la stufa viene identificata come un dispositivo domestico, simbolo del focolare, nel caso di Crasset è la foresta a diventare un ambiente accogliente, un luogo dove combinare esplorazione e senso di comunità.

Ginevra Bria

www.bio.si

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Ginevra Bria

Ginevra Bria

Ginevra Bria è critico d’arte e curatore di Isisuf – Istituto Internazionale di Studi sul Futurismo di Milano. È specializzata in arte contemporanea latinoamericana.

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