La Corea e l’architettura. Una mostra a Roma

In occasione di “Sections of Autonomy. Six Korean Architects”, la mostra che sta per inaugurare presso la Fondazione Pastificio Cerere, abbiamo intervistato il co-curatore Choi Won-joon. Per comprendere lo scenario architettonico emergente nel Paese asiatico.

Professore Associato alla Soongsil University di Seul, Choi Won-joon si è formato presso la Graduate School of Architecture, Planning and Preservation della Columbia University. È membro del team di ricerca del Mokchon Architecture Archive, attivo nell’elaborazione di un archivio sull’architettura coreana contemporanea. Insieme a Luca Galofaro ha curato la mostra Sections of Autonomy. Six Korean Architects, in programma alla Fondazione Pastificio Cerere di Roma dal 3 al 21 febbraio 2017.
Protagonisti del percorso espositivo sono sei progettisti coreani – Choi Moon-gyu (Ga.A Architects), Jang Yoon-gyoo (Unsangdong Architects Cooperation), Kim Jong-kyu (M.A.R.U.), Kim Jun-sung (Architecture Studio hANd), Kim Seung-hoy (KYWC Architects) e Kim Young-joon (YO2 Architects) –, presentati, nell’allestimento dello studio LGSMA, per mezzo di altrettanti dispositivi visivi, le cosiddette “isole”. Come evoca il titolo, Sections of Autonomy ricostruisce l’orizzonte di autonomia condiviso da questi architetti: le loro esperienze, seppur indipendenti, definiscono uno specifico scenario nella Corea dei giorni nostri. Con formazioni e background eterogenei, hanno debuttato sulla scena architettonica del Paese asiatico tra la fine degli Anni Novanta e gli albori del 2000. Una fase importante per la storia nazionale, durante la quale le trasformazioni economiche e politiche si sono riflesse nel contesto culturale in termini di maggiore libertà rispetto al passato.

LA COREA OGGI

Scossa, negli ultimi mesi, dagli scandali che hanno investito la presidente Park Geun-hye –prima donna nella storia coreana eletta Capo di Stato – e dai casi di corruzione che coinvolgono alcuni colossi produttivi locali, la Corea del Sud si presenta a Roma come un territorio aperto alla ricerca architettonica, con un atteggiamento ambivalente verso le tentazioni della spettacolarizzazione e uno sguardo rivolto all’identità locale.
Intensamente urbanizzata – Seoul è una delle megalopoli più dense al mondo –, come osserva Choi Won-joon nell’approfondimento storico che introduce la mostra, la Corea “è nota per i suoi rapidi cicli di sviluppo e riqualificazione, sostenuta da una cultura incline a improvvisi cambiamenti della moda, che convive con condizioni geografiche montane e variazioni climatiche intense. A questi aspetti si aggiunge la realtà del settore edilizio: la (limitata) disponibilità dei materiali e delle tecnologie costruttive, i regolamenti edilizi, adempimenti burocratici, e le relazioni particolari con i clienti e collaboratori”.

Kim Junsung, Humanist Office, Seoul 2011-12

Kim Junsung, Humanist Office, Seoul 2011-12

L’INTERVISTA

Sections of Autonomy si concentra sulla prima generazione di architetti coreani “liberi” da pressioni e condizionamenti ideologici. Questo particolare status come è stato declinato in termini di formazione e di metodo di progettazione?
La nuova condizione socio-culturale è emersa a metà degli Anni Novanta, quando questi architetti hanno aperto i loro studi indipendenti. Il contesto è molto diverso da quello nel quale hanno studiato; presenta analogie con lo scenario che hanno sperimentato in America e in Europa, dove si sono perfezionati e formati professionalmente. Allontanandosi dalla “grand narrative”, sono stati in grado di generare un’architettura contraddistinta dalla sobrietà, fondando i loro interventi su dati reali, piuttosto che su concetti a priori. Si sono anche espressi attraverso il linguaggio intrinseco della disciplina – forma, spazio, programma, materialità, struttura –, diversificando anche la dimensione della comunicazione architettonica. Tutto un altro quadro rispetto alla precedente generazione che, nello sforzo di innalzare l’architettura a pratica culturale, si è legata soprattutto a “trattazioni filosofiche”, occupandosi di temi che convergevano solo verso determinate questioni.

Il legame di questa generazione con l’Europa o gli Stati Uniti come ha inciso sul suo approccio alla tradizione del Paese?
Dopo aver trascorso i loro anni di formazione all’estero, questi architetti si trovano oggi a proprio agio nella condivisione di temi, metodologie e linguaggi e appartengono a un’architettura cosmopolita. Ciò tuttavia non significa che tale generazione sia indifferente all’identità regionale. Di conseguenza, i risultati rivelano un’analisi chiara e una risposta alle questioni reali della produzione architettonica. La differenza tra questi architetti e il passato risulterà evidente ai visitatori stranieri della mostra di Roma.

Analizzando lo stato della professione, questa generazione opera in piccoli studi, con pochi collaboratori. Una scelta che sottintende una presa di distanza dal “modello archistar” o andrebbe interpretata in un’altra ottica?
Molti architetti coreani hanno consapevolmente deciso di limitare le dimensioni dei loro studi per avere il pieno controllo sulle loro opere. In Corea, comunque, si sperimentano anche nuove forme di cooperazione: penso al network attivato da Kim Jong-kyu o alle collaborazioni di Jang Yoon-Gyoo con grandi società di progettazione.

Jang Yoongyoo, Culture Forest, Seoul 2009-10

Jang Yoongyoo, Culture Forest, Seoul 2009-10

Associamo più di frequente il suo Paese all’avanguardia tecnologia. Quale ruolo sta rivestendo nel panorama dell’architettura asiatica contemporanea?
In Asia, il quadro sembra essere più difficile da delineare rispetto a quanto avviene nell’architettura europea o americana: esistono grandi differenze tra i vari Stati. Si potrebbe tuttavia affermare che in questo scenario composito il contributo della Corea si manifesti in termini di mantenimento della sua diversità, di coerenza verso le sue peculiari condizioni.

Se dovessimo ragionare in termini di “icone architettoniche” di Seoul, cosa segnalerebbe?
Il concetto di icona di solito si riferisce all’essere unico, distinto. In questa accezione, degna di nota è la recente Lotte World Tower – KPF [progettata da Baum Architects Associate Architect, con i suoi 555 metri di altezza punta a entrare nella classifica dei 10 edifici più alti del mondo, N.d.R.] o il DDP – Dongdaemun Design Plaza di Zaha Hadid Architects. Tuttavia, alcuni architetti sostengono che Seoul, a differenza di altre metropoli, sia già caratterizzata da una presenza iconica: le sue tante montagne. Se il ruolo fondamentale delle icone e dei punti di riferimento è fornire a una comunità di persone una sorta di “esperienza visiva condivisa”, allora l’architettura di Seoul è sollevata da tale funzione: è già svolta dalla Natura. La capitale non ha bisogno di edifici emblematici, anzi la loro assenza definisce la mappa visiva. Piuttosto molti progettisti oggi mirano a concepire progetti in grado di fondersi con l’ambiente naturale: su questo specifico fronte possiamo individuare parallelismi anche nella scena internazionale.

Valentina Silvestrini

www.mokchon-kimjungsik.org

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Valentina Silvestrini

Valentina Silvestrini

Dal 2016 coordina la sezione architettura di Artribune, piattaforma per la quale scrive da giugno 2012, occupandosi anche della scena culturale fiorentina. È cocuratrice della newsletter "Render". Ha studiato architettura all’Università La Sapienza di Roma, città in cui ha conseguito…

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