Gli artisti e la ceramica. Intervista a Salvatore Arancio

Al via la rubrica dedicata al legame tra diverse generazioni di artisti italiani e la ceramica come materiale chiave della loro pratica.

Da ormai diversi anni, e in maniera sempre più sistematica, la ceramica è entrata all’interno della produzione artistica contemporanea. In epoca recente Vitamin C è intervenuto facendo il punto (in chiave internazionale) su chi utilizza il linguaggio ceramico come medium preferito, sdoganando qualsiasi distinzione tra arte applicata e scultura.
Ma cosa succede in Italia? Quale è l’equilibrio tra chi si è solo recentemente avvicinato al mezzo ceramico e chi, invece, lo utilizza da ormai un ventennio? Quali sono le esigenze specifiche di ciascun artista? E come si bilanciano la realtà di laboratorio e la fase di elaborazione del pezzo? Queste e altre domande saranno al centro della rubrica Touched for the very first time, in cui diverse generazioni di artisti che lavorano e producono in Italia saranno chiamate a descrivere il loro primo incontro con il materiale e l’uso che ne hanno fatto negli anni.
Salvatore Arancio (Catania, 1974) è il naturale punto di congiunzione tra i due poli trattati: lo scenario internazionale e l’Italia: tra gli artisti presentati in Vitamin C, negli ultimi due anni ha esposto in luoghi cardine del panorama contemporaneo, si ricordino in questo senso la sua partecipazione alla main section della Biennale di Venezia nel 2017 e la mostra presso la Whitechapel di Londra, aperta fino a gennaio 2019. Nel corso di questa chiacchierata abbiamo cercato di capire quali siano le ragioni che lo hanno spinto a scegliere la ceramica come suo medium d’elezione, il perché produca in Italia e quale sia il suo rapporto con la tradizione.

L’INTERVISTA

Nel descrivere il tuo recente progetto alla Whitechapel hai evidenziato come per te fosse importante essere rispettoso tanto dei prodotti naturali della collezione con cui eri chiamato a dialogare, quanto di una certa tradizione artigiana del passato. Vorrei partire col chiederti quale è la tua relazione, invece, con il sapere artigiano attuale? Quanto conta nella costruzione di un progetto il dialogo con la parte tecnica che ti aiuterà a realizzare il lavoro? 
Questo dipende tanto da materiale a materiale. Come accennato in altre interviste in passato, cerco di usare la ceramica, per esempio, in maniera liberatoria, seguendo il più possibile solo alcune basi essenziali del processo e cercando di lasciare molto alla casualità, tralasciando la conoscenza tecnica sviluppata negli anni. Questo mi aiuta a usare il materiale in una maniera giocosa che riesce a divertirmi e a reinventarmi. Per un materiale con cui ho una relazione così intensa, è una caratteristica per me importante.

Salvatore Arancio, A soft land no longer distant, 2017. Installation view at Artissima, Torino. Photo Andrea Rossetti. Courtesy of the artist & Federica Schiavo Gallery

Salvatore Arancio, A soft land no longer distant, 2017. Installation view at Artissima, Torino. Photo Andrea Rossetti. Courtesy of the artist & Federica Schiavo Gallery

Dunque il confronto con il sapere artigiano è un aspetto fondamentale del tuo lavoro.
In generale a parte il valore umano è soprattutto il piacere nei momenti di scambio con persone che magari hanno speso la vita intera a perfezionare solo una tecnica o una maniera di lavorare. Mi diverte confrontarmi con la loro conoscenza e cercare di creare nuovi ibridi, cercando nuovi crossover con aspetti del mio linguaggio. Questo per esempio è successo in maniera molto felice con la Bottega Ceramica Gatti di Faenza: la loro maestria nell’usare i lustri a terzo fuoco si è mischiata al mio uso di smaltature sfumate, creando un effetto totalmente inedito.
Devo ammettere che mi appassiona capire come realizzare un lavoro, il problem solving mi diverte.

Durante una chiacchierata, un po’ di tempo fa, mi raccontavi di come fosse proprio la dimensione manuale, il toccare e lo sporcarsi, ad averti attratto la prima volta che hai lavorato la ceramica. Come unisci questa dimensione sensoriale, pre-conscia, con le finiture altamente estetiche e preziose dei lustri che coronano le tue ceramiche? 
La tipologia di lustri e smalti che uso spesso è usata per contrastare la dimensione sensoriale e subconscia nel mio rapporto con la materia a cui ti riferisci. L’intento è forse di spiazzare lo spettatore, cercando di creare nuove maniere di lettura di quei gesti scultorei iniziali e della materia, ma anche di mantenere un elemento di seduzione.

Negli ultimi due anni hai portato la ceramica in alcuni “templi” del contemporaneo, penso alla Biennale di Venezia e alla Whitechapel, giusto per fare due esempi. E ciò che mi sembra più interessante è che tu lo abbia fatto senza rivendicare alcuna “militanza” della ceramica, ma con la semplicità di usare un materiale come un altro, forse solo piuttosto antico e per questo vicino a un tuo certo immaginario. Pensi che il materiale ti accompagnerà anche nei tuoi prossimi progetti? 
Decisamente! Come dicevo prima è un materiale che mi diverte, delle cui infinite possibilità ho appena esplorato la superficie. Ma, come hai detto bene, per me è un materiale come un altro, che uso quando per me ha una connessione con uno specifico concetto che voglio esprimere.

Surreal Science. Loudon Collection with Salvatore Arancio. Installation view at Whitechapel Gallery, Londra 2018. Photo Stephen White. Courtesy of the artist & Federica Schiavo Gallery

Surreal Science. Loudon Collection with Salvatore Arancio. Installation view at Whitechapel Gallery, Londra 2018. Photo Stephen White. Courtesy of the artist & Federica Schiavo Gallery

La ceramica porta con se una certa complessità, una caratteristica che può anche rendere schiavi della “tecnica”. Per contro quando descrivi i tuoi progetti sembra che tutto parta da una dimensione fortemente concettuale. Come avviene per te il passaggio dalla prima fase alla materia? Progetti anche tecnicamente delle soluzioni fin dall’inizio o procedi per tentativi? 
Di solito, inizialmente, cerco di avere un’idea più o meno precisa di cosa voglio creare, che penso riesca a trasmettere quello che voglio comunicare o magari solo un’immagine che possa semplicemente essere un punto d’inizio. Questo processo iniziale, poi, è seguito da un periodo di sperimentazione con la materia, riflettendo continuamente su come mantenere una connessione tra forma e concetto. I risultati possono essere molto vicini alla mia idea iniziale, altre volte diventano qualcosa di totalmente nuovo; non riesco e cerco di non prevedere troppo inizialmente, ma è tutto decisamente guidato dal processo.

E a proposito del processo: come adatti la tua progettualità quando sei “fuori sede”? Alcuni dei tuoi progetti in ceramica, infatti, sono stati la risultante di esperienze di residenza in luoghi anche diversi tra loro: Piemonte, Sicilia, Messico. Quanto ti lasci guidare dalle specificità delle tradizioni che incontri?
Uno degli aspetti che amo di più della ceramica è il fatto che si presta a diverse maniere di lavorazione. A parte alcune regole essenziali, tutto è aperto a svariate interpretazioni e maniere diverse per arrivare a una soluzione. Attraverso le varie residenze passate mi sono accorto di come non si finisce mai di imparare e di scambiare questa sapienza. Un continuo viaggio nel tempo attraverso tecniche antiche fino a tecniche tecnologicamente avanzate.
Ogni tanto mi piace confrontarmi con alcune di queste tradizioni: appropriandomene e reinterpretandole, cerco di creare degli ibridi che abbiano un’affinità con la mia pratica o che potrebbero aggiungere qualcosa a quello che cerco di comunicare.

Salvatore Arancio, It was only a matter of time before we found the pyramid and forced it open, 2017. Installation view at 57. Biennale di Venezia. Photo Andrea Rossetti. Courtesy of the artist & Federica Schiavo Gallery

Salvatore Arancio, It was only a matter of time before we found the pyramid and forced it open, 2017. Installation view at 57. Biennale di Venezia. Photo Andrea Rossetti. Courtesy of the artist & Federica Schiavo Gallery

Durante il talk pubblico alla Biennale di Venezia hai espresso chiaramente come l’idea di nazione sia qualcosa di molto distante dalla tua pratica e dalla tua vita. Descrivendo il tuo progetto in Messico, hai associato la tecnica messicana a quella del bucchero, compiendo un salto di alcuni secoli e di una decina di migliaia di chilometri. Guardando i tuoi progetti, sembra proprio che la ceramica dia voce a questa dimensione trans-nazionale e libera, che hai poi trasposto anche in performance. Come è nata l’esigenza di questa associazione terra-azione-performance?
Beh direi in maniera totalmente naturale e spontanea, dato che il materiale in sé istiga questo rapporto. Il contenuto d’ acqua dell’argilla è ovviamente un elemento che immediatamente crea una connessione viscerale col nostro corpo. Mi affascina la sua fisicità per esempio, o come il nostro corpo, plasmando l’argilla, in un certo senso si trasformi in qualcosa di inanimato.

Per chiudere: posso chiederti chi sono stati i tuoi punti di riferimento quando hai iniziato a lavorare la ceramica? Chi sono (se ci sono) i “maestri” che senti più vicini?
Sinceramente non ce n’erano, almeno non in maniera diretta. Sono partito ispirato per lo più da una forte necessità di tradurre in maniera tridimensionale elementi che facevano già parte delle mie rappresentazioni del paesaggio. A poco a poco ho comunque sentito affinità con il lavoro di Ken Price, Lucio Fontana, Leonardo Leoncillo, tra tutti.

‒ Irene Biolchini

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Irene Biolchini

Irene Biolchini

Irene Biolchini (1984) insegna Arte Contemporanea al Department of Digital Arts, University of Malta, ed è Guest Curator per il Museo Internazionale delle Ceramiche in Faenza, per il quale dal 2012 cura mostre site specific. È curatrice della collezione d’arte…

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