Romaeuropa Festival. Intervista al direttore Fabrizio Grifasi

Al via la kermesse romana dedicata al mondo delle arti performative e non solo. Come dimostra il carattere “in between” della 33esima edizione.

Inizia oggi, 19 settembre, uno dei festival più attesi da tutti gli appassionati di danza, teatro, musica e arti visive: Romaeuropa giunge alla sua 33esima edizione e inaugura con lo spettacolo Kirina di Serge-Aimè Coulibaly. Ospitato da diversi luoghi della capitale il festival proseguirà poi fino al 25 novembre. Between Worlds è il titolo di questa edizione sempre più aperta agli artisti dei Paesi extraeuropei. Fin dagli esordi, in fondo, il Romaeuropa Festival si è fatto promotore di un pensiero libero, transmediale, aperto sul mondo, ha fatto conoscere i giovani artisti e i loro linguaggi, costruendo, dal punto di vista artistico, un primo terreno di scambio tra l’Italia e l’Europa e poi tra l’Europa e il mondo, cercando contemporaneamente di dialogare con un vasto pubblico. Nel programma di quest’anno Africa, Cina, Argentina, Libano, Israele, Iran, Giappone, Vietnam… Ne abbiamo parlato con il direttore artistico Fabrizio Grifasi.

Il titolo scelto quest’anno è Between Worlds. Hai scritto, nel testo d’introduzione del catalogo, che l’essenza della missione del festival si colloca in uno “spazio ‘in between’, luogo di mediazioni e riconciliazioni tra opposti, ambito di riflessione e accoglienza”, con l’ambizione di “contenere il tutto contraddittorio di questo nostro tempo”. Cosa significa in termini sia progettuali che artistici? 
Ho chiuso il programma del festival a gennaio di quest’anno e a distanza di otto mesi le parole usate per descrivere il festival e i contenuti stessi assumono un significato e una valenza ancora più importante per noi. Mi sembrano parole “giuste”, che un progetto artistico di una città capitale, centrale in Europa, dovrebbe sostenere e sviluppare, dando la parola agli artisti, accogliendoli da luoghi e spazi molto diversi e non solamente europei, privilegiando approcci estetici originali e la loro esigenza di affrontare temi spesso concreti, che talvolta sono lontani da alcune nostre modalità di ricerca tipicamente europee e proprie di una certa opulenza produttiva e mediatica. Un fare arte che nasce da altri presupposti (storie lontane e recenti, ricerca d’identità, drammi recenti, necessità di metabolizzare percorsi di fragili e recenti democrazie) con una rivendicazione di fondo che riguarda le forme e l’esigenza di non essere sempre giudicati con le lenti degli altri (le nostre). E collocare quindi il festival, e in fondo noi stessi, in uno spazio “di mezzo”, appunto, “between worlds”.

Romaeuropa Festival 2018. Peter Brook

Romaeuropa Festival 2018. Peter Brook

Anche l’apertura del festival con lo spettacolo Kirina di Serge-Aimé Coulibaly sembra andare in questa direzione. Una scelta coraggiosa sia in termini di contenuto che sul piano della programmazione. Perché tale scelta e cosa ci racconta del festival?
Serge-Aimé Coulibaly è un artista ancora non “star” in Italia: già danzatore di Alain Platel, è autore con la sua compagnia, la Faso Dance Théatre, di alcuni recenti e rimarchevoli spettacoli come Kalakuta Republic, omaggio a Fela Kuti dello scorso anno. Al suo fianco, per la collaborazione alla composizione musicale, un’innovatrice della musica maliana come Rokia Traorè, non nuova alle scene teatrali (aveva interpretato dal vivo le musiche per la Desdemona di Toni Morrison, regia di Peter Sellars, che appunto me la presentò ai Wiener Festwochen alcuni anni fa). Ancora, nello spettacolo che presenteremo dal 19 al 22 settembre al Teatro Argentina, il testo di Felwine Sarr, giovane economista e filosofo (con alle spalle già alcune incursioni nel mondo dello spettacolo), animatore degli Incontri di Dakar a novembre, attualmente il think tank africano più interessante sul tema del futuro dell’Africa.

Su quale terreno opera Sarr?
Sarr lavora molto sulla rottura con il paradigma occidentale della “crescita e dello sviluppo globalizzato”, quello che abbiamo imposto al mondo dalla fine del colonialismo. È invece paladino di uno sviluppo regionale autonomo, più armonico, in linea con un recupero delle tradizioni a partire dalla centralità delle culture locali. In questo senso Kirina da un lato rappresenta un formato di “opera” altra, dove scrittura coreografica e interpretazione musicale si amalgamano in scena, dall’altro affonda le sue radici nella storia dell’impero mandingo e rivendica un passato fondativo fatto di unità, osmosi, crescita, ma all’“africana” e non all’“occidentale”. Sarr incontrerà Aboubakar Soumakoro, attivista sindacale e sociale per i diritti in Italia, martedi 18 settembre in Opificio Romaeuropa proprio per parlare del futuro dell’Africa. Perché il futuro appartenga a loro e non ai mercanti di schiavi.

Romaeuropa Festival 2018. Kids+Family. Cledat&Petitpierre, Ermitologie. Photo © Martin Argyroglo

Romaeuropa Festival 2018. Kids+Family. Cledat&Petitpierre, Ermitologie. Photo © Martin Argyroglo

Dopo Coulibaly il festival attraverserà universi diversi sotto l’influenza di quella che appare come una nuova generazione di artisti. Mi vengono in mente Omar Rajeh, Caroline Guiela Nguyen, Wen Hui, Cecilia Bengolea… Come è cambiata secondo te la scena internazionale negli ultimi anni? Quali sono per te le sue nuove urgenze e quali quelle che ha abbandonato? 
I nomi che hai indicato ‒ a cui aggiungerei Lola Arias, Sharon Eyal, Agrupacion Senor Serrano, Christos Papadopulos, Cledat&Petitpierre, Salvo Lombardo, Anagoor, Tagliarini&Deflorian e altri ‒ rappresentano una fotografia perfetta del REf18 e del progetto che ho voluto sviluppare: l’urgenza e l’emergenza di figure artistiche con un forte segno autoriale, una diversità di estetiche e di approcci formali, mix di linguaggi e forte presa sul nostro tempo. Lo stesso spettacolo di un grande maestro come Peter Brook, che appartiene alla storia del REf, s’inserisce perfettamente in questo percorso. Alla sua maniera, affronta il tema del perdono e della riconciliazione attraverso il ricordo di un incontro in Afghanistan. Insomma c’è un mondo fuori dalle nostre porte che ha delle urgenze legate al suo presente. È interessante ascoltare le sue storie, ci possono insegnare molto. Accanto a questa esigenza di rinnovamento, che è stata una costante della nostra storia, c’è la nostra fedeltà ad alcuni artisti, costruita negli anni in primis da Monique Veaute (presidente della Fondazione Romaeuropa e fondatrice del festival), e che rimane indissolubile: li ritroveremo regolarmente nei nostri programmi.

E rispetto alla curatela artistica quali sono le differenze che hai potuto osservare ‒ se ci sono ‒ fra il tuo mestiere in Italia e in altri Paesi europei (anche in relazione al differente tessuto sociale che caratterizza la nostra nazione e Paesi come la Francia, dove mi trovo in questo momento)? Ad esempio facilitazioni, difficoltà, differenti visioni artistiche, differenti pubblici…
La differenza di fondo, oltre ai curatori, la fanno i contesti in cui si opera, dai quali è sempre (e giustamente) impossibile prescindere. Ci sono agglomerati urbani come le grandi città europee dove il tessuto artistico è caratterizzato da una proposta continua e differenziata che dura dodici mesi, il che si riflette sia sulle scelte sia sul pubblico (molto stimolato) ma anche sulla ricchezza e diversità dei programmi. Roma e l’Italia non hanno assolutamente lo stesso ritmo per ragioni molto diverse e nonostante gli sforzi di tanti. Poi c’è anche un rapporto diverso con le tutele e i sostegni pubblici: sentirsi sostenuti quando si prendono dei rischi e si cerca di interpretare al meglio il senso della propria missione di servizio pubblico (e di uso del sostegno pubblico) è importante; magari non sempre accade e in alcuni contesti è più difficile. In generale è evidente che nella società dell’informazione social, nella quale siamo immersi, bisogna tenere in conto nuovi parametri e capire bene come collocare i propri progetti, coniugare esigenza con accessibilità. Naturalmente mi riferisco a chi ha l’ambizione di parlare non al piccolo cerchio degli operatori del proprio settore e alle sfere limitrofe di “iniziati”, ma ambisce ad avere un impatto diverso sulle città.

Fabrizio Grifasi

Fabrizio Grifasi

Torniamo a questa edizione del festival: al suo interno anche una sezione dedicata ai bambini dal titolo REfKids in cui compaiono anche uno spettacolo/concerto dedicato a Berio e uno dedicato a Ligeti. Un’altra sfida?
Intanto è stata una sfida l’aver lanciato un programma specifico per i kids e le famiglie durante tutti i week end del mese di novembre, un unicum tra i grandi festival europei, che ha avuto lo scorso anno oltre 10mila presenze. Rappresenta la nostra idea di lavorare sul futuro e anche il riconoscimento di un’area della creazione contemporanea, al di fuori dei gruppi “storici”, sempre più sensibile all’idea di rivolgersi ad altri pubblici (significativo il progetto di Akram Khan per i ragazzi che abbiamo presentato nel 2017). Naturalmente pensiamo il REfKids con le stesse caratteristiche del REf, e cioè spazio alla creazione, alla multidisciplinarietà, rapporto con le arti visive, con le musiche “colte” oltre che popolari. I progetti di Letizia Renzini su Berio (Berberio) e Ligeti (Grasland), con la loro fedeltà irriverente, vanno in questa direzione e sono sicuro che troveranno un ascolto attento e divertito molto maggiore tra i bimbi che in una sala di concerti normale.

Un’ultima domanda: quest’anno Digitalife ‒ la mostra che per quasi dieci anni si è occupata di arte e nuove tecnologie ‒ fa spazio a Digitalive, un focus sul rapporto tra tecnologie e performance. Perché? Cosa ci dici di questa new entry?
Dopo otto anni, fatti anche di un discreto nomadismo (Digitalife ha cambiato quattro location in otto edizioni, evento tipico della città di Roma), abbiamo pensato di trasformare il progetto per un anno, mantenendo una parte installativa ad accesso gratuito alla Sala Santa Rita con i lavori di Robert Henke e dei None Collective, e di dare carta bianca a Federica Patti (ex Robot Festival di Bologna e con molti percorsi curatoriali in essere) per Digitalive, un progetto “between worlds”, tra arti performative e new media, con artisti mai presentati al REf (quasi tutti) che si svolgerà tra il 4 e il 7 ottobre e un ponte con altre manifestazioni della scena elettronica come Spring Attitude. È un esperimento, come ci piace farne regolarmente, e si affianca alle rassegne Anni Luce (dal 23 al 28 ottobre), curata da Maura Teofili e dedicata alla nuova scena teatrale, Dancing Days (dal 18 al 21 ottobre), che ha la stessa vocazione ma legata alla danza europea, curata da Francesca Manica e appunto RefKids + Family (dal 10 al 25 novembre tutti i fine settimana), curata da Stefania Lo Giudice. Una linea di programmazione con un’unitarietà di luogo, gli spazi del Mattatoio (Testaccio, Roma), a ribadire la vocazione di laboratorio che speriamo la nuova governance del Palaexpo, da cui ora dipende, vorrà confermare. Una pluralità di sguardi e di sensibilità che appartiene alla storia di Romaeuropa e ci sembra il modo migliore per osservare il mondo di oggi e raccontarlo nel REf.

Chiara Pirri

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Chiara Pirri

Chiara Pirri

Chiara Pirri (Roma, 1989), residente a Parigi, è studiosa, giornalista e curatrice, attiva nel campo dei linguaggi coreografici contemporanei e delle pratiche performative, in dialogo con le arti visive e multimediali. È capo redattrice Arti Performative per Artribune e dal…

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