Dialoghi di Estetica. Parola a Valentina Ornaghi e Claudio Prestinari

Dopo gli studi in disegno industriale e architettura, dal 2009 Valentina Ornaghi (1986) e Claudio Prestinari (1984) lavorano insieme sviluppando le loro ricerche nell’ambito dell’arte contemporanea. Interessati alla sperimentazione resa possibile dalle risorse tecniche e artigianali, realizzano installazioni, disegni, sculture esplorando le possibilità offerte dai materiali. Le loro opere sono attualmente esposte nella mostra personale “Keeping Things Whole” presso la Galleria Continua di San Gimignano. Nel dialogo abbiamo considerato: lo sviluppo delle idee, la sperimentazione nei processi di lavorazione, il rapporto tra forma e concetti, le trasformazioni dei materiali, il ruolo dell’equilibrio e delle possibilità.

C’è un aspetto in particolare del vostro lavoro che vorrei subito considerare: c’è sempre qualcosa di inatteso, le cose appaiono in un certo modo ma non sono mai come sembrano. 
A volte, l’opera di un artista è considerata un po’ come se fosse una specie di ufo che piomba all’improvviso davanti agli occhi di qualcuno. Si tratta di una situazione che da sempre attira il nostro interesse. Quello che per l’artista sembra essere logico e normale, per altri può non esserlo affatto.

Perché vi interessa questa situazione?
Spesso non si capisce che cosa voglia dire un’opera perché non si riesce, per così dire, a ‘incasellarla’. Ci si dimentica però che c’è comunque un legame, anche dove non lo si vede immediatamente. D’altra parte, tanta arte di avanguardia ha provato a promuovere proprio questo approccio: disabituarsi a leggere preventivamente le opere, ovvero incentivare una visione che non sia vincolata da un pensiero. Quando un’opera sfugge a qualche schema per spiegarla è un buon segno!

Alla luce di questi aspetti, come si sviluppa il vostro lavoro
Condividiamo un principio che aveva espresso efficacemente Bruno Munari: da cosa nasce cosa. I materiali possono essere ripresi, modificati, scomposti e nuovamente assemblati. Si prende qualcosa di grezzo e si lavora per raffinarlo. Difficilmente partiamo dal nulla. In fondo, un’opera d’arte appartiene a una dimensione storica: c’è qualcosa prima di essa e ci sarà molto altro dopo.

Quanta importanza date alla fruizione delle opere?
Moltissima. Per noi è fondamentale che ci sia sempre uno sguardo esterno. Questo vuol dire poter mettere in discussione il processo di creazione dell’opera e l’esito che si può ottenere con esso. Essendo in due, nelle nostre attività c’è sempre un fruitore in più che è già presente durante la produzione dell’opera. Il nostro lavoro si sviluppa attraverso questa dinamica: uno crea e l’altro osserva, l’uno risponde e il lavoro prosegue in una nuova direzione. Per cui, l’altro crea e lo sguardo del primo diventa il nuovo occhio critico e così via. L’opera prende forma attraverso il dialogo e gli sviluppi del lavoro. Alla sua conclusione essa sarà poi oggetto di altri sguardi.

Ornaghi & Prestinari, Abito, 2014. Courtesy Voorlinden Museum. Photo Ela Bialkowska, OKNOstudio

Ornaghi & Prestinari, Abito, 2014. Courtesy Voorlinden Museum. Photo Ela Bialkowska, OKNOstudio

Su quest’ultimo fronte, che cosa succede con gli altri fruitori?
Una volta creata, ogni opera ha una vita propria. L’esaurirsi di quella vita è la fine delle letture e delle possibilità che essa potrà offrire. Chi legge un’opera potrebbe intuire alcune delle motivazioni che ne hanno determinato la produzione, oppure qualcosa che volevamo dire. Ma non possiamo prevedere che cosa succederà. Certo, c’è una grande gioia quando vediamo che qualcuno può condividere qualcosa di più o meno affine a ciò che sentivamo nel momento in cui l’abbiamo fatta. È una gran soddisfazione sentire che quello che hai fatto può anche essere sentito dagli altri.

E per quanto riguarda quello che volete dire con l’opera, siete interessati alla sua condivisione?
Sì, certo. Però, allo stesso tempo, ci interessa anche che l’opera possa offrire più di una chiave di lettura. Siamo affascinati dalla sua polisemia. La chiave che potremmo assegnare a un’opera è infatti del tutto transitoria. È ben possibile che chi sperimenterà l’opera la stravolgerà dando la propria lettura. È nella natura dell’arte, ed è altrettanto fondamentale che sia così perché la si possa apprezzare.

Nel vostro lavoro le possibilità polisemiche sono determinate in particolare da un attento e sapiente uso dei materiali. In questo senso, una vostra opera, Abito, è emblematica.
Siamo interessati alla possibilità che le cose possano anche apparire per quello che non sono (o che siano anche per come non appaiono). Abito è un’opera che invita anche a riflettere sul limite inteso come risorsa, come possibilità di muoversi da una parte all’altra nella sua lettura. Che una cosa sembri ma non lo sia, ti permette di passare oltre e di iniziare a immaginare qualcos’altro. Ti consente di chiederti: ma quindi, quella cosa lì, che cosa è? Il cambiamento del materiale della tuta favorisce esattamente questa possibilità: essendo fatta di lana e non di un materiale idoneo al lavoro, non è più ignifuga e tecnicamente utile; anziché proteggerti da eventuali incidenti, ti protegge dal freddo… Insomma, è pronta per essere usata per altri scopi. Il cambiamento che abbiamo ottenuto con questo intervento sul materiale è decisivo sia per la polisemia sia per l’ampliamento delle possibilità.

Ornaghi & Prestinari. Keeping Things Whole. Exhibition view at Galleria Continua, San Gimignano 2018. Photo Ela Bialkowska

Ornaghi & Prestinari. Keeping Things Whole. Exhibition view at Galleria Continua, San Gimignano 2018. Photo Ela Bialkowska

L’offerta delle possibilità in rapporto al cambiamento ottenuto tramite i materiali è cruciale anche in altri vostri lavori – penso, per esempio, all’opera A fior di conio.
Quest’opera nasceva da una riflessione sul tema dell’epidermide. L’idea è che, facendo a meno del rame, sulle monete rimane il ferro. Esse sono perciò meno protette perché possono ossidare più facilmente. Allo stesso tempo, sono anche più nobili dato che scintillano di più proprio perché sono di metallo grezzo. Quella riflessione ci ha spinto anche a fare attenzione alla questione della fragilità del materiale. Abbiamo realizzato un forziere del tesoro che però è poverissimo: la scatola che contiene le monete è di terracruda.

Da dove trae origine il vostro lavoro, dalla materia o dalla forma?
A volte sembra che un’opera sia più riuscita quando incarna con precisione un concetto specifico. Noi però seguiamo una intuizione originaria, una sorta di immagine che porta con sé anche numerosi concetti. Gli uni non escludono gli altri. I concetti costituiscono, infatti, una specie di rete che è alla base di quel potenziale narrativo che potrà poi avere un’opera.

Proviamo ad approfondire questo nesso tra forma e concetti.
Molti guardano al nostro lavoro individuando una componente concettuale e una formale. Spesso ci viene chiesto quale delle due ci interessa di più. Per noi la forma è una intuizione che contiene già dei concetti. È un po’ come se, per esempio, dovessimo stabilire se in una poesia una parola sia suono o concetto. Il poeta la sceglie perché essa è entrambe le cose. È la coincidenza delle due a rendere possibile la poesia. Questo vale anche per noi. Vuol dire trovare una coincidenza tra pensiero e azioni, tra concetto e forma, così da ottenere un equilibrio per creare un’opera. Anche se, come dicevamo, essa nasce anzitutto da una immagine.

Ornaghi & Prestinari, A fior di conio, 2014. Courtesy Voorlinden Museum. Photo Ela Bialkowska, OKNOstudio

Ornaghi & Prestinari, A fior di conio, 2014. Courtesy Voorlinden Museum. Photo Ela Bialkowska, OKNOstudio

Come la spieghereste questa ‘scintilla iconica’ che indicate come intuizione all’origine di un’opera?
La forma per noi è prima di tutto una immagine mentale che traduciamo subito in uno schizzo, una traccia che possa ripeterla al meglio. Quella protoforma astratta contiene anche dei concetti. Nel rilanciarci tra di noi questa ‘palla’, c’è una sorta di continua decodificazione che ci permette di stabilire come tradurre quei frammenti, quelle informazioni che costituiscono la rete, come arricchire la forma in un modo o in un altro, così da arrivare all’opera. Il pensiero diventerà sempre più complesso e si tratterà allora di riuscire a trovare una soluzione per tradurre l’opera nella materia. Questo di solito avviene attraverso una sintesi. L’immagine astratta è infatti molto più ricca di come sarà poi l’opera.

Ci sono dei fattori in particolare che influenzano questo ‘snellimento’ dell’immagine astratta?
Difficile a dirsi, perché bisogna considerare anche una imprevedibilità che naturalmente si palesa durante il lavoro. Le nostre intuizioni derivano dall’esperienza pregressa, da quello che abbiamo fatto, dai libri che leggiamo… Tutti questi fattori finiscono nel ‘frullatore’ (nel nostro cervello) per poi diventare altro. Spesso ci capita di scoprire che un certo elemento che abbiamo assorbito riemerge inaspettatamente in un lavoro proprio perché esso è uno di quei fattori che hanno determinato l’intuizione, dunque anche lo snellimento dell’immagine.

Sul piano materiale, come procedete per ottenere la sintesi di cui parlavate prima?
Non imponiamo la nostra volontà ma cerchiamo di trovare un equilibrio. E questo è possibile lavorando su una dinamica di domanda e risposta, individuando le possibilità che offre la realtà. In alcuni casi, questo può anche voler dire arrivare al limite, tra quello che è e quello che non è. Spesso, sembra che quando non si riesce a tradurre qualcosa vi sia l’accenno di un fallimento. Per noi invece le cose sono interessanti proprio perché potrebbero non essere traducibili in una sintesi. Perché oppongono una certa resistenza.

Qual è la vostra idea di equilibrio?
Lo consideriamo come la chiave per riuscire a cogliere l’essenza della dualità che attraversa il nostro lavoro. Questa dualità può essere tra pieno e vuoto, luce e ombra, tensione e distensione. La compresenza degli opposti indica esattamente la continua necessità di stabilire un equilibrio. Per esempio, negli Inerti, ora esposti nella mostra Keeping Things Whole alla Galleria Continua di San Gimignano, c’è di nuovo questa condizione duale. Da quei parallelepipedi pesanti di cemento emergono dei motivi floreali, forme morbide che si contrappongono alle loro strutture rigide geometricamente definite.

Ornaghi & Prestinari, Armarsi, 2015. Courtesy Voorlinden Museum. Photo Ela Bialkowska, OKNOstudio

Ornaghi & Prestinari, Armarsi, 2015. Courtesy Voorlinden Museum. Photo Ela Bialkowska, OKNOstudio

C’è anche un’altra opera, Armarsi, che esprime una contrapposizione tra due aspetti che la caratterizzano: la fragilità e la protezione. Anche in questo caso il materiale è fondamentale.
L’opera nasce dalla medesima riflessione attorno al tema della epidermide. Rimuovere una protezione vuol dire trovare una nuova superficie. Ma denudare un oggetto vuol dire sia scoprire che cosa sta sotto sia trovare una nuova forma. Nel caso di Armarsi, si è trattato di una sostituzione di uno strato con un altro strato, quello della corteccia con quello delle viti. Il legno sembra protetto da un’armatura, ben corazzato. Ma alla fine tutte quelle fratture mostrano una evidente fragilità. Le viti sono la causa della rottura e, allo stesso tempo, l’elemento principale per il mantenimento dell’intera struttura del tronco.

Forse, una parola chiave per le vostre attività potrebbe essere ‘progetto’.
Il progetto solitamente viene prima dell’azione. A noi interessa il progetto calato nell’azione. Ossia il venire alla luce delle difficoltà, del travaglio che l’idea deve vivere per poter uscire nel mondo. Quel travaglio è un po’ come se fosse la verifica del pensiero: per capire se quello che è stato pensato era qualcosa che potrà esistere nel mondo oppure no. Se si pensa a qualcosa senza tenere conto di questo travaglio è molto probabile che il risultato sarà deforme. È come se si trattasse di una via obbligata per lo sviluppo del lavoro. Perché questo abbia successo è fondamentale conoscere e praticare questa strada di verifica almeno quanto lo è pensarla. Altrimenti, si ottiene qualcosa che è altro da come si era supposto potesse essere.

Consideriamo un momento l’accidentalità: pensate che possa avere un ruolo in questo sviluppo travagliato dell’idea?
È sicuramente un fattore che contempliamo, un imprevisto è un ottimo preambolo per un cambiamento. Talvolta, la deformità ha anche un suo fascino. È indiscutibile. Essa però non è una soluzione di ripiego ma una scelta. Non ci si accontenta di quello che accade, ma si vuole che vada così, che la deformità sia il risultato.

Se le cose vanno diversamente da quanto progettato, pensate che si possano comunque individuare altre possibilità? 
Arrivare là dove non vuoi arrivare è altrettanto interessante. È come se ti rendessi conto che un esperimento che non riesce è importante tanto quanto uno che riesce perché ti sta comunque offrendo delle risorse. Quella cosa che non riesce è come se ti dicesse: guarda che il tuo modo di pensare la realtà, forse, è sbagliato. Da questo carattere sperimentale proviene infatti la possibilità. Riconoscere che nel proprio modo di pensare ci possono essere degli errori può essere una grande occasione. Da qui si può iniziare a mettere in discussione quel che si fa. C’è una frase che Brian Eno e Peter Schmidt hanno scritto nelle Strategie Oblique che dice: “Onora il tuo errore come un’intenzione nascosta”.

Davide Dal Sasso

www.ornaghi-prestinari.com

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Davide Dal Sasso

Davide Dal Sasso

Davide Dal Sasso è ricercatore (RTD-A) in estetica presso la Scuola IMT Alti Studi Lucca. Le sue ricerche sono incentrate su quattro soggetti principali: il rapporto tra filosofia estetica e arti contemporanee, l’essenza delle pratiche artistiche, la natura del catalogo…

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