Il ritorno della “vecchia signora” pittura. Intervista a Renato Barilli

MUMI, Francavilla al Mare ‒ fino al 30 settembre 2018. A qualche ora dall’inaugurazione della mostra legata al 69esimo Premio Michetti, abbiamo intervistato il suo curatore, Renato Barilli.

Trentatré gli artisti a dipingere la contemporaneità postmoderna dove si assiste al grande ritorno della pittura. Ma in mostra, oltre ai dipinti, installazioni e sculture decretano la fine dell’epoca citazionista per un ritorno a un’arte che non mortifica i sensi, un’arte che con il concettuale “duro e puro” ha poco a che fare.
Si celebra il cinquantesimo anniversario del Sessantotto, tuttavia sfatando la pretesa morte dell’arte intesa come il disuso dei media tradizionali, che proprio il Sessantotto aveva sancito. Antesignano di questa affermazione è Francesco Paolo Michetti il quale, nel 1898, sosteneva: niente più pittura possibile, la fotografia è il futuro. Eppure un altro maestro è presente insieme agli artisti invitati da Barilli, Domenico Colantoni, che della fotografia riprende l’iper-realismo e il tratto precisionista.
Visitare la mostra con Barilli è stata un’occasione per cogliere i mutamenti dell’attuale panorama artistico italiano ‒ e per capire che in epoca postmoderna la tendenza è non avere tendenze ‒ ma anche una possibilità di discutere sulle buone pratiche curatoriali.
Che arte fa oggi in Italia? E quale cura? Ne abbiamo parlato con una delle più importanti figure della critica militante, la quale ci dice che la militanza, oltre a essere ancora possibile, è necessaria.

Inaugurazione Premio Michetti 2018 © Matteo Pantalone

Inaugurazione Premio Michetti 2018 © Matteo Pantalone

L’INTERVISTA

Ci racconti della sua esperienza al MUMI. Ha già curato diverse edizioni del Premio Michetti, cosa l’ha portata di nuovo qui?
Nel 2011 ho curato il 62esimo Premio Michetti con una personale di Mattia Moreni, uno dei più grandi artisti del dopoguerra. Nel 1993, assieme a mia moglie Alessandra Borgogelli, ho realizzato un’edizione particolarmente importante dedicata all’ultimo Michetti [L’ultimo Michetti. Pittura e fotografia, N.d.R.]. Michetti non è stato solo un artista a tutto tondo, ma anche l’autore di un grande atto di coraggio. Infatti aveva riposto grandi speranze nei due dipinti tuttora conservati al MUMI, che presentò all’expo di Parigi del 1898. Ma il risultato fu un disastro perché i gusti stavano cambiando. Scoraggiato, decretò in grande anticipo sui tempi una specie di “morte dell’arte”, se affidata alla pittura, decidendo che ormai bisognava puntare in prevalenza sulla fotografia, cui del resto aveva già recato ottimi risultati. A quel modo Michetti è stato un antesignano di quel Sessantotto di cui oggi stiamo celebrando i cinquant’anni dalla nascita, ma con la possibilità di sfatare la profezia della morte dell’arte.

Prendiamo il titolo della mostra: Che arte fa oggi in Italia. Dal titolo sembrerebbe che l’arte non si possa mai dare per scontata…
Essendo stato docente di fenomenologia degli stili, ho sempre insegnato ai miei alunni che gli stili sono “fenomeni”, perciò vanno e vengono. Così è l’arte. E se l’arte è per natura transeunte, la condizione della ricerca è l’essere mobile. Per questo ci vuole la figura del critico militante che fiuta l’aria che tira e si assume la responsabilità di dirlo ai visitatori.

Cristiano Focacci Menchini, Dentro un fulmine

Cristiano Focacci Menchini, Dentro un fulmine

Oggi la professione del curatore dovrebbe assolvere questo compito. Non pensa che si possa parlare anche di fine della militanza critica?
Al giorno d’oggi i curator non si vogliono impegnare nelle tendenze. È vero che non c’è una vera e propria tendenza dominante nell’arte, ma si possono però evincere delle famiglie stilistiche. C’è poca ricerca in Italia perché il reale cruccio dei curator è quello di non fare passi falsi. Vivono nel terrore di sbagliare e non rischiano sui giovani, ma puntano sui nomi omologati. L’arte, invece, ha bisogno di scommesse.

Cosa ci offre questa mostra? Che panorama dipinge?
Questa mostra vuole offrire una risposta attraverso 33 artisti che oggi, con qualche eccezione, hanno quarant’anni circa e una ricerca matura alle spalle. L’arte va in tante direzioni, chiaramente oggi non c’è una tendenza predominante, ma certo molte cose le abbiamo ereditate dal Sessantotto, come per esempio le installazioni, che non sono vere e proprie sculture (infatti, com’è morta la pittura, è morta anche la scultura). Il primo piano del MUMI è consacrato proprio alle installazioni, addossate alle pareti o poste a occupare il pavimento. In basso. Invece il piano inferiore è dedicato in prevalenza al ritorno della pittura, nel che la triste profezia di Michetti risulta smentita, ma credo col suo pieno favore, se lo potesse esprimere. Ritornando per un momento al Sessantotto e a Joseph Kosuth, che ne fu il grande interprete, si possono ricordare i tre modi per rappresentare un oggetto da lui indicati: l’oggetto stesso, per esempio una sedia, che si può attaccare alla parete secondo l’operazione “ready made” ideata da Marcel Duchamp. Oppure la sua foto, oppure ancora una sua definizione letterale, ricavate da un vocabolario. A quel tempo sia la scultura che la pittura erano escluse a priori. Oggi invece possiamo tornare a dipingere di nuovo la sedia, come ogni altro oggetto. In genere, possiamo dire che l’arte d’oggi riscopre un certo sensibilismo, allontanandosi dagli esiti “duri e puri” che erano stati tipici dell’arte concettuale.

Lei parla di “nuova sensorialità”. Ci può spiegare cosa intende?
È proprio questo, un allontanamento dal Concettuale più rigoroso. Per questa ragione ho quasi escluso dalla mostra la fotografia, un linguaggio di cui si è abusato al giorno d’oggi. Il video, invece, ha più vitalità rispetto alla fotografia, tanto che ogni anno presso l’università di Bologna curo con altri docenti una sorta di annuario della videoarte italiana [Videoart Yearbook, N.d.R.]. E dunque, se in questo Michetti non ci sono opere video, è solo per ragioni tecniche, lasciando ad altri luoghi e occasioni di mostrare la fertilità di questo mezzo.

Adriano Valeri, Bedouin Queen

Adriano Valeri, Bedouin Queen

Ha senso dire che siamo ancora nel Postmodernismo?
Per me il Postmoderno viene dopo l’arte moderna ed è sinonimo di contemporaneo. La mia tesi è che siamo entrati nel Postmoderno alla fine del ‘700 con le prime manifestazioni di elettromagnetismo ravvisabili nelle opere di Füssli, Blake e Turner. Io applico in merito gli schemi filosofici hegeliani: tesi, antitesi e sintesi. La tesi, per venire a tempi a noi vicini, è rappresentata dal Sessantotto, in cui si esclude la pittura e si adottano fotografia, scrittura e oggetti, alla maniera di Kosuth. Poi è subentrata l’antitesi, ovvero lo spirito della citazione che ha dominato gli Anni Settanta, con Giulio Paolini, per esempio, ma anche con de Chirico, che si è rilanciato ricorrendo proprio ai colori tipici del Postmoderno, giallo limone, verde pistacchio, rosa fragola, in una ripresa della Metafisica. Infine abbiamo la sintesi, con artisti come John Armleder e Jeff Koons, che hanno preso sia dell’uno che dell’altro: hanno fatto un passo indietro, non praticano più la citazione, sono ritornati alle avanguardie Anni Sessanta, Pop e Optical, ma con un rinnovato senso del colore.

Come ha scelto gli artisti in mostra?
Ho approfittato di ricognizioni precedenti quali Officina Italia 2 (2011) e Biennale Giovani 3 (2016), realizzate con i colleghi Guido Bartorelli e Guido Molinari e ho fatto una sintesi delle esperienze per dare una nuova possibilità di affermazione a questi artisti. Ho aggiunto un omaggio a Domenico Colantoni, scomparso a ottant’anni pochi mesi fa, abruzzese, e dunque c’è un omaggio anche a questa regione. Egli è stato un iper-realista, da paragonare ad artisti internazionali di grande successo come lo statunitense Katz e l’inglese Hockney, e nello stesso tempo lo si può porre anche a confronto con chi procede alla stessa meticolosa evocazione del reale ricorrendo a materiali plastici, le gommepiume di Piero Gilardi, le ceramiche del duo Bertozzi e Casoni.

Martina Lolli

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati

Martina Lolli

Martina Lolli

Curatrice e giornalista freelance nei settori di arte e musica. Dopo aver frequentato “La Sapienza” e l’Accademia di Brera (comunicazione e didattica per l'arte contemporanea) conclude la formazione con il corso per curatori CAMPO 14 alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo.…

Scopri di più