Vedi alla voce “slow-art”. Intervista a Barbara Rose

Il nostro Pericle Guaglianone ha incontrato il grande critico statunitense Barbara Rose, in Italia per la mostra “La pittura dopo il postmodernismo”. Diversi i temi affrontati nella conversazione che ne è nata: la figura dell’artista-manager, la spazialità nella pittura, l’editoria d’arte. Tanti anche i nomi passati in rassegna: da Duchamp a Maurizio Cattelan, da Walter Benjamin ad Achille Bonito Oliva, da Vermeer a Lucio Amelio.

Incontro Barbara Rose (Washington, 1938) a Roma all’Accademia Nazionale di San Luca. Occhio vigile sull’arte contemporanea da oltre mezzo secolo, autrice di saggi anche imprescindibili (l’articolo Abc Art inquadrò teoricamente il minimalismo nel ‘65), personalità universalmente riconosciuta come auctoritas intellettuale del settore. Grazie a Francesco Moschini, Segretario Generale dell’Accademia, posso conversare con lei a margine di una conferenza in cui si è parlato soprattutto della sua mostra La pittura dopo il postmodernismo. La mostra, dopo aver fatto tappa a Bruxelles e Malaga, è ora alla Reggia di Caserta, fino al 16 giugno.
Il talk evidenzia che si tratta di un progetto messo su con passione, che è anche e soprattutto un saggio critico, una creatura “militante”, frutto delle sue posizioni più recenti. E che quindi costituisce anche un insegnamento morale, nel senso che ribadisce un principio troppo spesso eluso. Questo, che ideare – e curare – una mostra non significa confezionare bene un prodotto, o amministrare al meglio un evento, ma proporre una linea di pensiero, schierarsi con le proprie scelte, dando un contributo al dibattito del proprio tempo.
Sono sempre contro, è la mia personalità”, dice Barbara Rose seduta tra gli storici dell’arte Claudio Zambianchi e Diane Kelder, l’artista Gianni Dessì e lo stesso Moschini. Sì, ma “contro” cosa? Contro “l’arte che non dura”, chiarisce, quella fatta per la riproduzione, caratteristica che a suo dire sta al cuore stesso del cosiddetto – detestato – postmodernismo. Ecco allora la scelta degli artisti presentati a Caserta, che considera accomunati da un’attitudine “artigianale”, oltre che “mistica” (in proposito cita Ad Reinhardt). Li chiama “resistenti”, li considera dediti a un’arte “seria”, quella – appunto – che anzitutto non può essere riprodotta. Un’arte che, però, precisa – e qui alza le mani – non può tornare indietro recuperando soluzioni accademiche. Questo ha detto, in buona sostanza, Barbara Rose in conferenza. Quello che segue, invece, è ciò che ha detto a me. (P.S.: la prima domanda non era in programma, ma su Instagram avevo appena pubblicato la foto di uno studio d’artista con tele e pennelli, ricevendo diversi “like” da artisti giovani ed emergenti, il che fino a pochi anni fa sarebbe stato impensabile, almeno in Italia)

Barbara Rose

Barbara Rose

L’INTERVISTA

La pittura sta diventando “cool”. Si tratta di una novità, almeno per l’Italia.
È così dappertutto. Tutto nasce dalla Germania, dai neo-espressionisti. I quali, però, essendo espressionisti, non avevano gli stessi interessi dei pittori di oggi. Quanto all’Italia, bisogna sempre considerare che l’Italia non è espressionista, non lo è l’artista italiano. Gli artisti in mostra alla Reggia di Caserta li conosco da una vita, hanno sempre dipinto e studiato belle arti.

Non sarà che c’è del rigetto per come è stato “frainteso” – come hai detto una volta – Duchamp? Nel 2008 dichiaravi che “i musei adesso sono pieni di objets trouvés di tutti i tipi: principalmente rifiuti buttati per terra e definiti come ‘installazioni’” [La critica non può difendersi. Intervista a Barbara Rose, a cura di Lucia Presilla, in Paradiso americano. Saggi sull’arte e l’anti-arte 1963-2008, Scheiwiller, 2008, pp. 9-27].
A Marcel Duchamp, che ho conosciuto personalmente, piaceva il gioco. Il pubblico e i musei hanno preso sul serio i suoi “giochi”. È lui, alla fine, l’eroe dell’arte concettuale. Ed è lui che ha dato inizio al postmoderno.

Parli con entusiasmo di “slow-art”. Sembra ti interessi, più che il medium pittura in sé, l’idea di un’arte fatta per la contemplazione.
Mi interessano opere che si possano guardare come si fa con quelle del Rinascimento, o del Barocco. Al cospetto delle quali si rimane almeno un po’.

“Slow-art” anche perché si tratta di artisti un po’ orsi, non particolarmente aggressivi in termini di promozione?
Non è esattamente così, gli artisti che ho scelto per la mostra di Caserta tengono molto a presentare il loro lavoro! Ma le occasioni all’altezza della serietà di ciò che fanno sono poche. Vedi, è molto facile presentare un’opera sensazionalista, o un “gioco”, o un Jeff Koons.

In effetti il sistema dell’arte contemporanea dovrebbe fare autocritica per il fatto di aver sopravvalutato la figura dell’artista-manager.
Bisogna sempre tenere a mente che Vermeer è stato dimenticato per tre secoli. Magari qualcuno degli artisti presentati a Caserta è destinato a cadere in un tipo di buio come è successo a Vermeer…

Marcel Duchamp, Fountain, 1917 (replica 1964). Porcelain. Tate, London: Purchased with assistance from the Friends of the Tate Gallery 1999 Photo © Tate, London, 2016 / © Succession Marcel Duchamp/ADAGP, Paris and DACS, London 2016.

Marcel Duchamp,
Fountain, 1917 (replica 1964).
Porcelain. Tate, London: Purchased with assistance from the Friends of the Tate Gallery 1999 Photo © Tate, London, 2016 / © Succession Marcel Duchamp/ADAGP, Paris and DACS, London 2016.

C’è tanta confusione a proposito del termine “postmodernismo”. Un po’ tutti lo denigrano, ma se chiedi di citarti un artista postmodernista i più ti rispondono facendo riferimento a certa pittura degli Anni Ottanta: David Salle, Julian Schnabel o la Transavanguardia. Il che mi sembra un po’ poco per costruirci su un’avversione così sbandierata e sentita. Se invece consideriamo il postmodernismo in termini più ampi il discorso si fa più interessante. Per capirci: definiresti postmodernista un artista come Maurizio Cattelan?
Per Maurizio Cattelan vale quello che penso di Jeff Koons: non mi interessa, trovo quello che fa brutto, volgare e stupido; solo sensazionalismo. Non so se definirlo postmodernista. Schnabel è stato un ottimo regista di cinema, non capisco perché si sia messo a fare anche altro. Per quanto riguarda David Salle, la sua idea di prelevare frammenti del passato non mi comunica granché; riconosco le sue citazioni, possono essere un quadro di Géricault o altro, ma in definitiva le sue opere non mi “parlano”. Comunque io conosco l’origine della confusione di cui parli. La prima persona che ha parlato di postmoderno è stata Achille Bonito Oliva. Lui ha lanciato il discorso, facendo riferimento alla Transavanguardia come possibilità per gli artisti di attingere dalla storia dell’arte, prelevando e miscelando. Io considero la Transavanguardia un tipo di postmodernismo, ma non in termini formali, solo sul piano dei soggetti; ammiro alcuni artisti della Transavanguardia.

Peraltro tu difendi – in un saggio lo fai molto chiaramente – certa pittura degli Anni Ottanta [American painting: the Eighties, catalogo della mostra, New York, Grey Art Gallery, 1979, in Paradiso americano. Saggi sull’arte e l’anti-arte 1963-2008, Scheiwiller, 2008, pp. 576-602].
C’erano ottimi artisti. Come Larry Poons, che faceva cose incredibili. Molti protagonisti di quel periodo sono nella collezione di Lucio Amelio, Terrae Motus, ora alla Reggia di Caserta. Peccato che la collezione sia pressoché nascosta. Questo è un vero scandalo, perché è una collezione che meriterebbe un suo museo. E comunque, se la Reggia non è in grado di presentare queste opere con la dignità che meritano c’è bisogno di trovare un altro posto.

Nel 2008 parlavi di mercato manipolato, interessato solo allo scandalo e al kitsch. Sono passati dieci anni da allora, e c’è stata la crisi economica. Vedi segnali positivi oggi, a seguito di quella crisi?
È importante che tanti artisti abbiano continuato a lavorare. Magari hanno dovuto fare altri lavori per sostenere le loro famiglie, ma hanno continuato a dipingere. Il problema più grande per me è rappresentato dai galleristi. Mancano personalità come Gian Enzo Sperone, Lucio Amelio, Leo Castelli. Di galleristi validi in Italia oggi ce ne sono cinque o sei. Uno molto bravo era Fumagalli. Un altro problema è che le grosse case d’asta stanno altrove, a New York o a Londra. Questo crea problemi agli artisti italiani, perché non permette che i ricchi di qui speculino. Per questo devono andare dove ci sono le grandi fiere, tipo Basilea. Dove si vedono molti artisti italiani morti e pochi vivi. Senza parlare della quantità di falsi Fontana.

Maurizio Cattelan, Made in Catteland, photo courtesy by Pierpaolo Ferrari

Maurizio Cattelan, Made in Catteland, photo courtesy by Pierpaolo Ferrari

E la critica? Siamo nell’era della recensione eppure molte riviste d’arte non pubblicano più recensioni, non è un po’ comico?
Ricordo quando nacque Artforum, rivista che io ho aiutato a partire. L’editore e proprietario, Charles Cowles, decise di dare ai critici libertà totale: non gli interessava per niente la pubblicità. Oggi invece alle riviste interessa solo fare soldi. Sono piene di pubblicità, non c’è altro.

I giudizi critici possono anche cambiare col tempo: chi con gli anni hai ridimensionato?
Rothko. Oggi lo stimo meno di un tempo. Non conosceva la tecnica, infatti i suoi quadri sono in stato di disintegrazione.

Un artista che invece ti ha colpito ultimamente?
Mark Bradford, l’artista presentato nel padiglione statunitense all’ultima Biennale di Venezia. È un grandissimo pittore afro-americano. Sono stata molto contenta del padiglione questa volta.

Una volta hai scritto che andare verso la fotografia significa “sacrificare […] tutti quegli aspetti metafisici e metaforici dell’immaginario che solo la pittura è in grado di offrire” [idem]. Pensi ancora che la pittura sia l’“arte maggiore”?
Assolutamente sì.

Oggi si parla tanto di storytelling, sembra che gli artisti vogliano recuperare la dimensione della narrazione. In quest’ottica ha senso riattivare la relazione compositiva figura-sfondo nella pratica pittorica?
Assolutamente no. Non si può più. Certe cose sono diventate accademiche; ormai il rapporto figura-sfondo è accademismo. Dico questo anche se è difficile portare avanti un discorso avanguardista oggi. Perché non c’è più una borghesia! Vedi, l’avanguardia era nata per scandalizzare la borghesia. Oggi non c’è niente che sia proibito, quindi niente può fare scandalo. Cosa c’è di più scandaloso del presidente americano? Quale scandalo è più grande?

Mark Bradford, Tomorrow Is Another Day, La Biennale di Venezia, U.S. Pavilion, 2017. Photo Joshua White, Courtesy the artist and Hauser & Wirth

Mark Bradford, Tomorrow Is Another Day, La Biennale di Venezia, U.S. Pavilion, 2017. Photo Joshua White, Courtesy the artist and Hauser & Wirth

Quale dunque la spazialità per la pittura oggi? Una spazialità che si rifà al canone dell’all over forse?
No, nemmeno l’all over va più bene. Oggi un po’ tutti dipingono in modalità all over, perché è qualcosa che è stato assorbito per la pittura. Anche gli artisti che propongo a Caserta, in un certo senso, lo fanno, e va bene. Però per me questi artisti propongono un tipo di spazio differente: che va in avanti, verso lo spettatore, non indietro.

Come vedi per i musei – lo fa in Italia la Galleria Nazionale – la possibilità di affiancare l’una all’altra opere lontane anche di secoli, invece di allestire le sale secondo criteri storicistico-manualistici? Questo rivitalizza l’arte, oppure la offende?
È una negazione della storia dell’arte e basta. Non lo trovo interessante.

Parlami dell’allestimento della mostra di Caserta. Non deve essere stato semplice affrontare spazi così connotati.
Io e l’architetto Giovanni Francesco Frascino abbiamo lavorato come pazzi per questo allestimento difficilissimo. Difficilissimo perché ho scelto soltanto quadri enormi, che hanno le proporzioni dei Tiziano, dei Veronese, dei Tintoretto. Volevo vedere se la pittura, in un contesto importante, fosse ancora in grado di lasciare il segno.

Come sei intervenuta nel concreto?
Ho lavorato direttamente con Frascino, incaricato dell’allestimento. Lui ha concepito l’incarico come una sfida; c’era anzitutto da capire se si potesse fare. È arrivato a inventare un sistema assolutamente unico, nuovo, per presentare le opere d’arte. Ha creato strutture invisibili in acciaio, e un sistema di luci con cui le opere appaiono isolate nello spazio. A illuminarsi è soltanto il quadro, non la struttura e non la decorazione del Settecento, che poteva essere competitiva con l’opera d’arte. Sono curiosa di sapere cosa ne penseranno i visitatori.

Una volta hai scritto che l’arte veramente rivoluzionaria è espressione della soggettività, della visione privata. La pensi ancora così?
Assolutamente sì. L’arte è rivoluzionaria quando si crea un’espressione individuale, unica. Questo vale per gli artisti di questa mostra: sono molto personali, molto originali.

Cosa consiglieresti a un critico oggi?
Di vedere le opere dal vero e di frequentare gli studi degli artisti. La riproduzione non può presentare la realtà di un’opera unica e originale. C’è da leggere Walter Benjamin, che parla dell’aura dell’opera non riprodotta, originale. Lui ha pensato che quest’aura fosse sparita. Io non la penso così. Secondo me tutti i quadri della mostra di Caserta hanno quell’aura, che si perde con la riproduzione. Il postmodernismo è basato sulla riproduzione. Compito dell’artista oggi è ridare all’opera la sua aura. Per questo adesso è tanto apprezzato Jasper Johns: perché è un vero pittore. Ce n’è pochi francamente adesso. Alcuni sono vecchi. Ma ora sta fiorendo un’altra generazione. Io ho visto delle cose molto interessanti, in Italia, Spagna, Portogallo e stranamente adesso in America. Nel Paese della “zombie abstraction” nasce una nuova pittura dopo il postmodernismo.

Pericle Guaglianone

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati

Pericle Guaglianone

Pericle Guaglianone

Pericle Guaglianone è nato a Roma negli anni ’70. Da bambino riusciva a riconoscere tutte le automobili dalla forma dei fanali accesi la notte. Gli piacevano tanto anche gli atlanti, li studiava ore e ore. Le bandiere erano un’altra sua…

Scopri di più