Uscire dagli schemi. Intervista con Adam Szymczyk, curatore di documenta

Parola al curatore della contestatissima documenta 14, che racconta le difficoltà, anche politiche, legate all’organizzazione di una delle rassegne d’arte contemporanea più attese di sempre.

In occasione della settimana inaugurale della nuova sede della galleria pubblica PLATO a Ostrava (Repubblica Ceca), abbiamo intervistato il curatore polacco Adam Szymczyk.
Gli abbiamo chiesto del suo lavoro a documenta 14, della sua esperienza a Kassel e ad Atene, della sua visione dell´arte, ma anche del rapporto che ha con l´Italia.

Com’è stata la sua esperienza a Kassel?
Sicuramente è stata un’esperienza che mi ha cambiato. Dal ’97 ho cominciato a venire a Kassel per ogni edizione di documenta, perciò per me avere la possibilità di curare documenta 14 è stata anche un’occasione per conoscere un po’ meglio questa città, cercare di capire come funzionava e provare a trovarvi un mio percorso. Alcune persone del luogo mi hanno aiutato e ho potuto iniziare a venirci regolarmente, malgrado i giornali di Kassel avessero dei dubbi circa l’assiduità della mia presenza lì o meno. Comunque, anche se probabilmente non conoscevo Kassel così bene, sapevo qualcosa di documenta e, cercando di imparare sempre di più, sono arrivato a sapere cose che spesso le persone del posto, o quelle persone che dichiarano di rappresentare la loro voce, non sanno. Ho acquisito conoscenza specifica della storia di questa mostra, della storia del suo fondatore Arnold Bode, del lavoro di tutti i curatori delle precedenti edizioni. Tutto questo insieme fa parte della storia della città, sia del prima che del dopoguerra. Bode faceva mostre già prima della Seconda Guerra Mondiale, era parte di un comitato che organizzava esposizioni della Secessione di Kassel. Poi con l’ascesa dei nazisti perse tutto, non poteva più occuparsi d´arte. È stato obbligato ad arruolarsi nella Wehrmacht e mandato in Francia. Quando è tornato ha provato di nuovo a fare qualcosa e da questo nuovo inizio, successivamente, è nata documenta. È stato così interessante che ho voluto includerlo come artista per rappresentare una sorta di punto centrale dell’arte progressista di Kassel di quegli anni.

Da quali spunti ha preso le mosse documenta 14?
Kassel è una città multietnica con una forte presenza di diverse minoranze e tante opere di questa edizione riflettevano proprio questo aspetto, come ad esempio il lavoro di Ahlam Shibli, oppure il tanto discusso obelisco di Olu Oguibe.
Con questo vorrei dire che per cominciare abbiamo dovuto fissare dei punti tra cui creare collegamenti. Uno dei punti, per fare un esempio, è stata la visita di Goethe a Kassel alla fine del diciottesimo secolo al suo ritorno dalla campagna di Francia, quando gli fu rifiutato un posto nella locanda perché scambiato per straniero. Chissà, parlava francese, magari aveva delle idee radicali! Quindi si rivolse all’oste in tedesco e l’alloggio gli fu concesso immediatamente. Questo episodio, apparentemente banale, poteva creare una specie di scena anche per altri eventi che portano fino a oggi. Incluso il fatto che documenta 14 coincideva con la discussione in Germania sull’arrivo dei nuovi rifugiati, la famosa frase della Merkel, il passaggio da una specie di accettazione e benvenuto alla posizione di parziale accettazione e benvenuto. Sono entrati in gioco i partiti populisti come l’AfD, mentre si riconfigurava il parlamento tedesco. Si è creata un’atmosfera molto densa ed emozionale. Tutti questi piccoli frammenti della storia politica della Germania li abbiamo vissuti e penso siano impressi anche nella mostra.

Cécile Hummel, Senza titolo, 2006-10. Installation view at Strange Comfort (Afforded by the Profession), Istituto Svizzero di Roma 2010. Photo Ela Bialkowska

Cécile Hummel, Senza titolo, 2006-10. Installation view at Strange Comfort (Afforded by the Profession), Istituto Svizzero di Roma 2010. Photo Ela Bialkowska

Non posso non chiederle, anche per quello che è successo nel post-documenta: che cosa ha imparato lei da Atene?
Da quest’esperienza ho imparato che se decidi con tenacia di seguire la tua visione, che tende a fuoriuscire da uno schema, in qualche modo prestabilito, probabilmente andrai verso certe problematiche che non sono esclusivamente legate all’arte o alle opinioni – e come queste opinioni vengono negoziate in pubblico tramite la stampa e altro –, ma sono altresì legate ai reali problemi politici e a come i politici reagiscono allo sviluppo interno di un’impresa culturale di questo tipo. A Kassel c’è stato il cambio del sindaco e quello nuovo aveva un’idea diversa sulla funzione della cultura contemporanea, su come dovrebbe essere sostenuta, rispetto al sindaco precedente, e di conseguenza la direzione è cambiata. Il modo di parlare di documenta 14, da parte della municipalità, è cambiato totalmente da luglio, quando l’esposizione era già in corso. Tutto è stato progettato con il sostegno, a volte critico, del sindaco precedente, ma il sindaco nuovo aveva deciso di guardare di più il lato economico e il resto l’ha lasciato ai media e ai politici populisti, i quali hanno poi deciso di procedere contro di me, contro il CEO e contro entrambi i sindaci. Quando i politici sono politicamente passivi e si interessano solo dei numeri, queste cose succedono. È difficile stare calmi quando assisti a una simile distruzione controllata di quello che è stata questa mostra e vedere come il contenuto che hai prodotto è ignorato, i temi che volevi offrire sono completamente rifiutati o raggirati ma, penso, prevalentemente ignorati del tutto.

Ha parlato del fatto di uscire da uno schema prestabilito. Esiste davvero uno schema del genere nel contesto dell’arte?
Questo è un momento storico che dimostra che la produzione culturale è diventata parte di un ordine neoliberale ultra regolato in cui, se non giochi secondo le sue regole, allora corri dei rischi – direi rischi politici – che hanno a che fare con le reazioni dei politici a quello che immaginano si aspettino da loro gli elettori. Di conseguenza l’arte per loro diventa un problema politico. Non solo per la direzione dov’è indirizzata la rassegna o per cosa dicono gli artisti con le loro opere, ma il problema è la posizione stessa della mostra in questo determinato momento, in questa società, in questo contesto eccetera. Al di là del contenuto artistico. È difficile da spiegare come si crea un tipo di manifestazione come documenta, perché in principio non c’è niente di prestabilito. È un lavoro di quattro anni e, anche volendo, non si può riuscire a prevedere tutto. Inizialmente non sai niente, hai un’idea e cerchi di svilupparla. E, prima che si realizzi, non puoi sapere come sarà, perché non esiste uno strumento prefabbricato per realizzare qualsiasi tipo di visione. Se non quando decidi di fare semplicemente una mostra la cui ambizione si limiti soltanto a esporre delle opere. Ma se per documenta vuoi organizzare un parlamento, se vuoi pubblicare riviste e fare televisione, radio e tante altre cose, allora esci dallo schema. Quindi sì, c’è una specie di schema invisibile da qualche parte di cui realizzi l’esistenza reale.

Qual è la sua visione dell’arte che propone alle istituzioni?
Penso che le istituzioni dovrebbero, in maniera seria, accettare la necessità di una ridefinizione dei propri parametri e non semplicemente cercare di mantenere la loro esistenza. Tutto l’apparato istituzionale è in grado di porsi delle domande. Prendiamo come esempio questo posto chiamato PLATO: è come una specie di meta-istituzione che dimostra la possibilità di fare le cose diversamente. Non sappiamo esattamente dove ci troviamo; siamo qui, camminiamo in mezzo all’arte, incontriamo persone, qualcuno parla, c’è il caffè…, è un posto dove le persone possono comunicare in un modo informale, conviviale, rispetto a un centro d’arte o a una conferenza. È un po’ di questo e un po’ di quello, ma è anche qualcos’altro.

È questa specie di fluidità che apprezza? 
Sì, l’apprezzo ma al contempo ammetto che non mi piace quando una cosa alla fine diventa completamente nebulosa oppure del tutto dissolta, dal punto di vista categoriale. Credo, però, che spesso avere dei parametri, e dover sottostare a questi parametri, sia molto limitante. Si può vedere certa produzione artistica diventata una formula, una specie di pattern del fare, ripetuto dall’artista, che dopo un po’ smette di essere attuale o valido. Perciò ritornando alla domanda sulla mia visione dell’arte, risponderei che si tratta dell’arte che da un lato indaga la condizione della sua stessa produzione, dall’altro lato cerca di reinventare il modo di parlare del mondo. Penso all’arte come a una forma di realismo che tenta di rispondere alle circostanze senza avere un’idea prefissata di come dovrebbe essere.

Questo è un momento storico che dimostra che la produzione culturale è diventata parte di un ordine neoliberale ultra regolato in cui, se non giochi secondo le sue regole, allora corri dei rischi – direi rischi politici – che hanno a che fare con le reazioni dei politici a quello che immaginano si aspettino da loro gli elettori“.

Come sarebbe la situazione ideale nel lavoro con le istituzioni?
Penso che, ad esempio, nel fare documenta non sei obbligato a seguire alcun copione, anzi, devi inventarlo e nessuno ti impone come dovrebbe essere. La committenza di una mostra su un dato argomento è spesso molto meno interessante. Le situazioni aperte mi interessano di più. Non quelle dove puoi lavorare solo su questo o quel soggetto, quel tipo di artisti o con gli artisti di quel Paese. Un progetto aperto è il migliore.

Alla Kunsthalle Basel era così?
Abbastanza direi, anche se lì era diverso, perché il focus principale era sulle mostre personali. Ma devo dire che la posizione del direttore artistico e curatore di Kunsthalle Basel non è stata una posizione limitativa. Non c’è stata pressione da parte del comitato direttivo, ma piuttosto l’incoraggiamento a tentare strade nuove. Niente aspettative di rappresentare certi artisti e certi no.

Questa pressione sui curatori circa le loro scelte esiste davvero? L’ha sperimentata?
Personalmente cerco di non lavorare in questi contesti, ma c’è ed è forte. I curatori si dimettono o vengono dimessi, perché falliscono le aspettative dei consigli direttivi, come è successo varie volte negli ultimi tempi in diversi Paesi. Quindi certo, ci sono certe forze dietro alle istituzioni che cercano di controllarle e plasmarne la direzione. Si comincia dalla scelta del curatore e direttore e si prosegue attraverso le valutazioni della programmazione e tante altre cose fino a portare tutto sul piano economico, perché questa è la strada più facile per portare le cose alla “normalità”. Qualunque cosa significhi.

Come curatore viene apprezzato per il suo approccio sperimentale e creativo. È questo il suo metodo?
Cerco sempre di lavorare il più possibile a stretto contatto con gli artisti, tentando di capire come lavorano piuttosto che imporre la mia idea su come dovrebbero lavorare. Non puoi mai esaurire il tuo soggetto, devi cercare di entrarci dentro, sempre più in profondità e, nel caso migliore, più riesci a entrare più diventa interessante. Ogni tanto penso che la cosa migliore sarebbe ripetere sempre la stessa mostra. Farla ancora e ancora. Perché è un pochino come nel jazz quando hai un tema e lo suoni – e ogni persona lo suona a modo suo. Non si deve per forza sempre inventare tutto dal bozzetto, ma, piuttosto, si può sviluppare un tema al quale reagire. Quindi non saprei se il mio metodo sia davvero sperimentale o creativo. Penso di credere in una certa stabilità ontologica di una mostra. Non importa quanto la gente abbia criticato l’apparente opacità di documenta. Credo fosse tutto molto chiaro nelle sue parti e anche nelle relazioni tra esse. Non è stato un monolito, non è stata la medesima esperienza già sperimentata tante volte. È stato forse difficile da afferrare e cose difficili da afferrare possono provocare una reazione protettiva del tipo: “No, non voglio averci niente a che fare, non è come dovrebbe essere”. Io non so come dovrebbe essere.

È altresì importante come documenta 14 sarà guardata a distanza del tempo. Come ben sa, le opinioni cambiano.
E io non vedo l’ora. Tante opinioni, tanti giudizi potranno persino essere riformulati, ma è estremamente difficile anticipare il tempo. Non posso anticipare questa specie di storicità. Personalmente, per me è dura, non sono un pensatore futurista. Sono più interessato all’impatto che una mostra può avere “ora”. Si tratta di un momento fantastico e al contempo potenzialmente molto distruttivo. Si è completamente esposti e si ha a che fare con le conseguenze delle proprie azioni.

Danh Vo, Tombstone for Nguyen Thi Ty, 2009. Courtesy l’artista e Galerie Isabella Bortolozzi, Berlino. Installation view at Strange Comfort (Afforded by the Profession), Istituto Svizzero di Roma, 2010. Photo Ela Bialkowska

Danh Vo, Tombstone for Nguyen Thi Ty, 2009. Courtesy l’artista e Galerie Isabella Bortolozzi, Berlino. Installation view at Strange Comfort (Afforded by the Profession), Istituto Svizzero di Roma, 2010. Photo Ela Bialkowska

Dove sta l’utilità e l’inutilità della critica?
Non saprei. Ci sono sempre persone che fanno cose solo perché è il loro lavoro, anche se hanno perso la vera motivazione tanto tempo fa. Ci sono curatori che lavorano così, artisti che lavorano così e tante altre persone che lavorano così. Questo non è interessante. Uno dovrebbe almeno provare a soffermarsi un momento per avere una più complessa comprensione delle cose senza dire soltanto: “Ah, mi aspettavo un’altra cosa e quindi non sono soddisfatto”. Quando la critica è questa diventa molto deludente. Documenta parlava dell’arte e l’arte non è una cosa morta, anzi, è qualcosa di completamente opposto.

Anche per quanto riguarda documenta è partito dagli artisti?
Sì e no. Con documenta è stato diverso, perché per me è stato prima di tutto un grande processo di apprendimento sul mondo di oggi e sulla sua complessità fatta di politica, di storia e anche di certi comportamenti umani. Tutto ciò è stato una specie di flusso del mondo esterno il quale, invece di venirti incontro, ti passava attraverso. È stata l’esperienza di essere completamente esposti a questa sorta di storia in divenire o al presente. E il presente, sfortunatamente, si è rivelato complicato, molto crudele, per tante persone deludente e senza speranza. Quindi non è stato piacevole, ma è stato comunque diverso che lavorare all’interno di un palazzo, di un’istituzione. Documenta esigeva di ri-focalizzare la mia attenzione e cominciare a pensare in modo differente, tale da permettere alle altre persone del team di esprimersi al meglio. Quindi per me non è stato un processo egoistico. Non sentivo il bisogno di imporre il mio ego. Sono sempre stato contro l’idea della supremazia curatoriale, devo dire. E in questo preciso caso non solo non è stata necessaria, ma non sarebbe proprio stata possibile. Abbiamo cercato di lavorare insieme per raggiungere una sorta di immagine del presente. Sentivo che queste persone erano estremamente competenti, concentrate e appassionate nelle cose particolari: sonorità, immagini in movimento, documentari… Questo tipo di cose. Non si può solo collezionare tutte le informazioni e presentarle. Si deve cercare di instaurare un vero coinvolgimento. Avere tra i colleghi, curatori e artisti una posizione intellettualmente appassionata. E andare avanti. Nonostante in questo modo non si possa ottenere sempre un’architettura perfetta.

Si percepisce quanto forte sia stato l’impatto che questa esperienza ha avuto su di lei.
Sì, un impatto enorme. È stata come una tempesta, bella grossa.

Una tempesta alla quale è sopravvissuto o è ancora in corso?
Ne stiamo parlando come se fossi già sopravvissuto, ma la tempesta c’è ancora, soltanto un po’ più tranquilla. Con il termine tempesta cerco di descrivere tutto il processo, perché è stato molto conflittuale. Questa esperienza viene descritta così non solo dai precedenti direttori artistici di documenta, ma anche dal pubblico di Kassel che vive una specie di depressione inter-documenta. Credo sia un fenomeno descritto da uno storico che si occupa di documenta: una città normalmente non vive al ritmo di cinque anni, perché la vita ha una sua continuità, ma qui si ha una specie di cosa pulsante che accade ogni cinque anni. Forse non è paragonabile all’evento meteorologico ma più a qualcosa di astronomico.

Dopo questi cinque anni sente un senso di vuoto?
Sento che documenta mi ha dato molto, non in termini economici. Possibilità di organizzare un lavoro del genere, possibilità di parlare con così tante persone e farlo non tramite i social che sono una specie di pseudo rete, ma relazionarsi davvero e lavorare insieme è stato fantastico. Ci siamo uniti per realizzare qualcosa di significativo, senza avere uno scopo meramente pratico o finanziario. È una cosa che non dimenticherò mai. Per cui dipende dai giorni, in alcuni sento un po’ di vuoto, altri sono più tranquilli e più contemplativi. Sarebbe un buon momento per poter cominciare a guardare indietro, ma sento che per me è ancora troppo presto per farlo completamente. Sono curioso di vedere quanto anche la mia percezione del progetto cambierà con gli anni.

Olu Oguibe, Monument for strangers and refugees, 2017. Königsplatz, Kassel, documenta 14. Photo Michael Nast

Olu Oguibe, Monument for strangers and refugees, 2017. Königsplatz, Kassel, documenta 14. Photo Michael Nast

Spostandoci su un altro argomento: che rapporto ha con l’Italia? Uno dei suoi curatori di documenta era italiano…
Sì, il mio rapporto con l’Italia si è instaurato tramite queste amicizie professionali e altre amicizie che sono successivamente nate direttamente lì. Nel 2010 ho fatto un progetto con Salvatore Lacagnina all’Istituto Svizzero a Roma basato su un breve racconto di Malcolm Lawry dove descrive una visita dello scrittore Sigbjørn Wilderness alla casa di Keats e Shelley in Piazza di Spagna. Abbiamo usato questo racconto come se fosse una pratica curatoriale che stava nel mettere degli oggetti in una configurazione significativa. In questo caso lo scrittore cammina nel museo e osservando vari oggetti – una maschera mortuaria, una lettera o qualche altro memorabilia che apparteneva a questi due illustri scrittori inglesi – comincia a viaggiare nella mente ricordando la sua visita alla casa di Edgar Allan Poe a Richmond, Virginia e così via. È una specie di riflessione promessa dalla visita in un museo. Abbiamo preso questo tema e ne abbiamo fatto una mostra che si è svolta in vari luoghi attorno a Piazza di Spagna, come alla chiesa di Sant’Isidoro per arrivare, a un certo punto, al cimitero acattolico dove Keats è sepolto. Questa mostra è stata ripetuta alla Kunsthalle di Basel, ma non è stata una vera ripetizione meccanica, era più una ripresa del progetto, una reiterazione. Anche per il semplice fatto che, ovviamente, non si svolgeva più a Roma e questo progetto incarnava specificatamente la presenza in Italia di certi stranieri nella storia culturale del XIX secolo. Di conseguenza quando abbiamo portato la mostra a Basel, aveva una resa completamente diversa. La mostra si chiamava Strange Comfort (Afforded by the Profession) come l’eponimo racconto di Malcolm Lawry.

Come sono nati i suoi rapporti di amicizia italiani?
Salvatore lo conoscevo da prima, perché abbiamo lavorato insieme alla Biennale di Berlino nel 2007. È stato lui a farmi conoscere alcuni posti in Italia. Abbiamo viaggiato da Roma al sud, passando per Napoli e poi giù fino a Ortigia dove al tempo dirigeva la Galleria Civica Montevergini di Siracusa. Abbiamo collaborato ad alcuni progetti artistici per la Biennale e anche a Ortigia.
E poi la Sardegna… C’ero già stato ma più come visitatore che per qualche interesse curatoriale e sono stato davvero colpito dalla visita alla mostra di Maria Lai che si è svolta in tre sedi diverse in Sardegna nel 2014. Abbiamo cominciato a Nuoro, poi siamo scesi a visitare Ulassai, dove c’è la fondazione di Maria Lai, per infine arrivare all’ultima parte della mostra a Cagliari, distante parecchie ore di macchina. È stato molto interessante. Anche quell’idea di “spargere” la mostra in posti diversi. In qualche strano modo entrambi gli eventi – il progetto romano e la visita in Sardegna – includevano l´aspetto della disgiunzione tra le due esperienze. Nel caso di Maria Lai erano semplicemente diverse porzioni del suo lavoro in tre differenti sedi. Ma ciò significava tre tipi di paesaggio: città piccola, città più grande, in mezzo alla natura dove risiede la fondazione. Per quanto riguarda il progetto a Roma, lì il concetto è stato di reiterare un’idea in maniera diversa e in un luogo diverso.

Documenta parlava dell’arte e l’arte non è una cosa morta, anzi, è qualcosa di completamente opposto“.

La differenza tra la sua esperienza con documenta e le sue esperienze in Italia è che mentre racconta di quelle italiane sta sorridendo. È solo un’osservazione… 
[ride, N.d.R.] È vero, ma non vorrei sembrasse che documenta sia stata deprimente! Penso solo che i ricordi del mio lavoro a Roma e la visita in Sardegna siano davvero forti. Rappresentano la modalità in cui si fa una mostra in modo che rimbalzi meno sul piano di enormi responsabilità diverse da quelle artistiche. Negli ultimi anni spesso mi si fanno domande sullo stato del mondo di oggi, ma chi sono io per sapere com’è lo stato del mondo di oggi? Sembra come se fossi diventato una specie di profeta, invece di essere semplicemente un curatore. Documenta ti da questo tipo di posizione, ci sono un sacco di proiezioni su di te: buone e cattive. Ma costanti. È molto diverso che lavorare a un progetto in un piccolo museo di Keats-Shelley. Un modello curatoriale totalmente diverso.

Era preparato a tutto questo?
Penso non si possa essere preparati a documenta. Quando credi di essere preparato, ti fai molto male. Questo è un piccolo appunto per il prossimo direttore, perché tutti quelli precedenti lo sanno molto bene. Vieni colpito sia tu che la tua vita, direi. Normalmente un progetto dura un anno, due, massimo tre ma a questo ci lavori più di quattro anni e dopo ci sono tante ripercussioni che ti tengono occupato per un altro anno o due. Di conseguenza una bella fetta della tua vita è dedicata a questa mostra e prima e dopo non c’è niente, perché non c’è un immediato passaggio a qualche altra attività.

Deve essere difficile anche questa esposizione enorme, ci si imbatte nell’intero mondo dell’arte.
Sì, sei servito su un piatto.

Vero, ma non solo in un ristorante, ma in tutti i ristoranti del mondo contemporaneamente!
Esattamente! Vieni distribuito in tutti i possibili posti di ristoro!

Cosa succederà adesso? 
Sto pensando a una piccola mostra, forse in Germania, ma preferirei non parlarne ancora. Credo ci sia qualcosa di veramente interessante nel fatto che il termine entstellte Kunst – l’arte distorta – che si rifà a entartete Kunst – arte degenerata (termine usato dal regime nazista) – è stato di nuovo utilizzato nel contesto di documenta 14 da parte del partito AfD circa la produzione artistica contemporanea. E credo sia qualcosa che esiga una risposta. Non solo politica, ma anche artistica. Perciò forse lavoreremo un po’ su questo argomento. Al di là di quello sono coinvolto in un paio di altri progetti, ma non sono ancora pronti al punto di poterne parlare apertamente. Poi terrò qualche lezione, farò qualche discorso qua e là, mi guarderò attorno e in qualche modo cercherò di atterrare su questo pianeta.

Marie Honzíková

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Marie Honzíková

Marie Honzíková

Nata a Praga, laureata all’Accademia Ligustica di Belle Arti. Attualmente vive e lavora tra Italia e Repubblica Ceca, dedicandosi alla ricerca in storia e teoria dell’arte contemporanea.

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