Display, metodo, struttura. Intervista a Josef Dabernig

In occasione della conferenza “The Utopian Display: Props & Tools,” svoltasi presso FM Centro per l’Arte Contemporanea di Milano il 29 novembre, abbiamo intervistato Josef Dabernig. L’artista visivo, che si muove tra display, architettura e film, ci ha spiegato i punti salienti della sua pratica.

Mercoledì 29 novembre, nella sala Carroponte di FM, Centro per l’arte contemporanea, si è svolta la conferenza The Utopian Display: Props & Tools, a cura di Marco Scotini. Gli artisti Can Altay, Céline Condorelli, Josef Dabernig, Liu Ding, Petra Feriancova, Luca Frei, Falke Pisano, Marko Tadić sono stati invitati a dialogare attorno al display come pratica creativa e teorica. Per l’occasione, abbiamo incontrato Josef Dabernig (Kötschach-Mauthen, 1956).

Durante il tuo intervento hai usato la parola “flessibilità” diverse volte. Il progetto espositivo Individual Systems, curato da Igor Zabel e proposto alla 50esima Biennale di Venezia del 2003, è stato poi re-inscenato a cura di Charles Esche e Maria Hlavajova come Once is Nothing alla prima Biennale di Brussels del 2008. Si può intravedere questa flessibilità nella possibilità di costruzione e ricostruzione delle tue strutture, sia nel senso architettonico che ideologico?
Di solito nella mia pratica artistica mi riferisco a metodi di struttura e di forma. Alla Biennale di Venezia sono stato chiamato a lavorare come artista-architetto. Per me la flessibilità è soprattutto un approccio sistematico: dal mio punto di vista è importante che il sistema, e dunque l’architettura, includa la flessibilità. La struttura di per sé non deve essere flessibile, ma quando acquista questa qualità si ottiene un vantaggio. In questo modo infatti risulterà aperta a nuove proposte e, azzardo a dire, a differenti contenuti.

La flessibilità consente una maggiore libertà anche agli artisti che usano la struttura come display di proprie opere?
Sì. La flessibilità permette di percorrere un processo di rottura qualora questa rappresenti un’esigenza specifica dell’artista. In Individual Systems c’erano due artisti che hanno messo in discussione la struttura architettonica pensata. Questa, però, era abbastanza flessibile da poter essere modificata così soddisfare le loro necessità.

Josef Dabernig

Josef Dabernig

Credo che alcune architetture possano essere considerate context-specific. Lavorando in un luogo, istituzionale o meno, spesso si studia e si approfondisce il contesto fisico ma anche socio-politico che ospiterà il lavoro. Durante il tuo discorso hai parlato di “riconoscere” la realtà nella quale le persone vivono, quindi il contesto, nelle strutture e nei sistemi architettonici proposti in mostra. Ci puoi spiegare come e perché avviene questo processo?
Il mio lavoro può essere letto metaforicamente. Credo che la disposizione e l’approccio strutturale possano essere spiegati a quelle persone che non riescono a leggere i sistemi e la qualità metaforica che li accompagna. Noi siamo umani e siamo influenzati dalle strutture: abbiamo il giorno e la notte, le quattro stagioni, che regolano, ad esempio, la nostra vita ‒ anche da un punto di vista emozionale. Queste sono due strutture senza le quali la vita umana non esisterebbe. Di certo possiamo adottare un metodo strutturale e scientifico per comprenderle.

In quale momento avviene dunque il processo di riconoscimento?
Quando le opere d’arte ‒ e penso a quadri, sculture o disegni, ma anche a display creati da artisti o architetti ‒ penetrano nella struttura, intersecandola profondamente, per me il fruitore percepisce quel valore che ho chiamato “riconoscimento”. Chi guarda sente qualcosa di essenziale, magari in modo inconscio, e questo accade perché percepisce la propria struttura rispecchiata nell’opera.

Potremmo allora dire che il progetto è permeato da quelle strutture che le persone portano dentro di sé?
Sì, certo. Le strutture sono moduli per – in un certo senso ‒ comprendere il mondo.

Once is Nothing. Exhibition view at Brussels Biennial 1, 2008. Photo Josef Dabernig

Once is Nothing. Exhibition view at Brussels Biennial 1, 2008. Photo Josef Dabernig

Hai raccontato di aver creato un linguaggio e un vocabolario specifico per la tua arte. Potresti spiegarci meglio da dove nasce questa necessità?
Il mio linguaggio e il mio vocabolario descrivono più che altro il percorso di astrazione che ho effettuato, dall’inizio della mia pratica a oggi, riguardo alle mie forme. Le componenti del mio vocabolario descrivono cosa significhi e da dove provenga questa astrazione: sia che tragga origine nella natura, sia in teoremi e in formulazioni scientifiche.

Nelle tue opere si può intravedere un’eredità modernista declinata in nuove architetture congruenti con la tua pratica artistica. Ci chiediamo se, in parte, tu abbia creato nuovi lemmi per trattare ciò che hai assorbito dal modernismo.
Il mio vocabolario non è fondato molto su fatti storici. Per dare una definizione storica, il lemma modernismo esprime una realtà culturale. Nel mio lavoro non penso troppo alle implicazioni storiche del modernismo inteso come teoria o approccio. Per questo, la vicinanza che può essere intravista tra la mia arte e questo movimento artistico è più da attribuire alla mia disposizione, alla mia storia personale e al quotidiano desiderio di comprendere il mondo.

Carolina Mancini

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Carolina Mancini

Carolina Mancini

Carolina Mancini ha 22 anni e vive a Milano. Fa fatica a definirsi. Si è laureata in Letteratura Musica e Spettacolo a La Sapienza di Roma con una tesi in teoria e critica della letteratura, scrivendo una tesi su Tommaso…

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