Emigrazioni violente. Intervista a Filippo Vagnoni, da Caracas

Prosegue il nostro reportage dal Venezuela e stavolta l’attenzione si sposta su uno degli argomenti più caldi del presente. Si calcola che gli italo-venezuelani siano quasi mezzo milione, su una popolazione complessiva che supera di poco i 23 milioni. Una comunità enorme, che ha influenzato profondamente la vita economica, sociale e culturale del Paese. Abbiamo intervistato uno degli emigrati dall’Italia, ora imprenditore e scrittore: Filippo Vagnoni.

Che cosa significa emigrare a quattordici anni?
Quando i miei genitori emigrarono in Venezuela mi lasciarono a Poggio del Brenta, una frazione di Ascoli Piceno. Avevo nove anni e mi trovai a dover vivere in un collegio che funzionava anche come orfanotrofio. Naturalmente i ragazzi hanno una capacità impressionante di adattamento, e riuscii a sopravvivere al trauma. Dopo cinque anni, nel 1960, i miei mi dissero di raggiungerli in Venezuela. Così li ritrovai, a quattordici anni. La lontananza me li aveva resi quasi estranei, ed ero anche maturato più in fretta, avevo dovuto imparare a convivere con gli estranei. Sono tutte conseguenze di quella che io definisco l’emigrazione violenta.

Cosa intende?
L’emigrazione non è mai del tutto pacifica, implica sempre una rottura. Chi dice di essere emigrato felicemente sta mentendo, c’è sempre all’origine una decisione forzata, sia che dipenda dalla povertà o dalla guerra: resta comunque un senso di amarezza che ti porti dietro per tutta la vita. Certo, poi ci si rende conto anche degli aspetti positivi, dell’apertura di nuovi orizzonti, di nuove opportunità che non avresti avuto se fossi rimasto nel tuo Paese.

Questo è dunque il materiale dei suoi romanzi.
Nella scrittura c’è sempre molto di autobiografico. La lacerazione che avverte l’emigrante ritorna così nel mio libro di racconti Momenti di nostalgia. Vi ho racchiuso le mie esperienze o quelle che ho rubato ad altri emigranti, così simili alle mie. È ovvio che vi sia poi una gran parte di invenzione, che però non è mai del tutto tale, deriva sempre dalla realtà. Insomma, per me l’importante non è il vero ma il verosimile, raccontare ciò che magari non è mai accaduto ma sarebbe potuto accadere.

Filippo Vagnoni, a sinistra

Filippo Vagnoni, a sinistra

Lei però non ha mai interrotto i rapporti con l’Italia, né nel campo culturale né in quello economico: oggi produce eccellente vino marchigiano, con la sua cantina Vagnoni Molina.
L’emigrante può nutrire un sentimento di antipatia nei confronti del suo Paese, che gli ha rifiutato le opportunità che ha trovato invece all’estero. Poi però questa idea di un inferno abbandonato può trasformarsi negli anni in paradiso perduto, soprattutto se l’emigrante ha raggiunto una posizione economica e professionale di successo e ha dunque perso molte ragioni di rivalsa. Ci si trova a sognare quello che si sarebbe potuto fare e non si è fatto. È un processo nostalgico basato sulle possibilità mancate. Quando si è piccoli si sogna di fare il pompiere o di sposare la compagna di banco alle elementari: sono sogni legati al territorio, ma quando qualcun altro ha preso al posto tuo la decisione di portarti via da lì, quelle possibilità di futuro si interrompono e resta solo la nostalgia, che ti perseguita per tutta la vita e che ti fa rimanere legato alle origini, anche se poi ogni volta che torni a casa hai la sensazione di non riconoscerla, perché mentre tu eri fuori è cambiata.

Da questa nostalgia nascono iniziative come l’associazione dei Marchigiani del Venezuela?
Sì, perché ci si ritrova inevitabilmente con amici che vengono dalla tua stessa regione e si finisce sempre per parlare di quello che si è lasciato. Ne deriva l’impulso a costituire determinate strutture, le associazioni, i centri sociali. Si cerca di evitare l’idea del ghetto, ma d’altro canto si avverte la necessità di non essere soli quando ci si inserisce in una nuova società. La nostalgia allora può trasformarsi in uno stimolo positivo: sei riuscito a guadagnare qualcosa? Invece di investirlo a Panama o in Australia, perché non farlo proprio nella regione dalla quale sei partito? Si cancella il rancore e lo si trasforma in opportunità, anche se non si può negare, onestamente, che vi sia anche un senso di rivincita. È il momento nel quale si dice: mi avete obbligato a scappare ed eccomi qui, torno vincitore.

Narda Zapata

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #34

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