Dall’Archivio Viafarini. Intervista con Marina Cavadini

Quarto appuntamento con le conversazioni tra Progetto /77 e gli artisti incontrati nell’ambito del progetto "Portfolio Review Re-enactment", in collaborazione con Viafarini. Stavolta tocca a Marina Cavadini, autrice della performance Kelsey.

    Marina Cavadini, Kelsey, 2015 - performanceMarina Cavadini, Kelsey, 2015 – performance

Dopo Mati JhurryIsabella Benshimol e Giada Carnevale, è Marina Cavadini (Milano, 1988; vive a Milano e Chicago) a prendere la parola. Così come dichiara nel suo statement, l’artista “esplora sia le convenzioni che sostengono le dinamiche di una mostra-evento sia la natura di ogni produzione estetica. La dimensione temporale, la relazione dell’opera con il contesto e il ruolo del pubblico diventano i soggetti della sua ricerca. L’interesse di Marina per la botanica e le scienze naturali si manifesta in tutta la sua produzione che verte sul concetto di fioritura. L’artista indaga il fenomeno nelle sue varie accezioni tra cui lo schiudersi del bocciolo del fiore, l’atto di abbellire, ornare, ma anche l’apparizione, la comparsa di elementi vari su una superficie”.
A partire proprio da questo ultimo aspetto, la Cavadini ha dato vita a Kelsey, una performance critique-based realizzata durante il primo anno di permanenza alla School of the Art Institute di Chicago. La performance è consistita nel nascondere, prima dell’evento, una serie di piccole sfere argentate fatte di zucchero in un “luogo” inaspettato – nello specifico, dietro le orecchie di una ragazza presente tra il pubblico –, coinvolgendo quest’ultimo in un dibattito riguardante le dinamiche connesse al ruolo dello spettatore e la relazione tra opera e contesto.

Kelsey è stata realizzata nel tuo studio, mentre eri a Chicago. Il pubblico, in questo caso, era composto da addetti ai lavori e non da fruitori casuali. Che aspettative avevi nei confronti delle reazioni di questi ultimi? E quali sono state poi le reazioni dei presenti?
Ho svuotato completamente il mio studio. Gli unici elementi presenti nello spazio sarebbero stati il pubblico e le palline di zucchero, che però erano nascoste dietro le orecchie di Kelsey. Ero abbastanza certa che le avrebbero trovate, solo non sapevo quanto tempo sarebbe servito e come avrei gestito l’attesa. A rompere il silenzio è stata la domanda “Dov’è il lavoro?”. Alla quale ho risposto “Dove ti aspetti che sia?”. Sapevo di rivolgermi, più nello specifico, a un pubblico di soli artisti. Tuttavia, come sempre nel mio lavoro, ho solo risposto alla situazione che mi è capitata. Trovo molto problematica la distinzione tra un tipo di pubblico e un altro. Le logiche dettate da un white cube hanno lo stesso potere su chiunque.
Costringere gli spettatori a guardare dietro le orecchie di qualcuno era una cosa premeditata. Il pubblico che vede se stesso fare esperienza di un’opera d’arte acquista una nuova consapevolezza del suo stesso “guardare”. Il lavoro ha generato suspense, seguita da una risata e poi ancora da una discussione sull’arte, sulle istituzioni, sulla definizione di coreografia, sulla moda, su Kelsey.

Kelsey è anche il nome della persona sulla quale hai installato il lavoro e in qualche modo lascia intendere che la scelta della ragazza, perché forse non sarebbe corretto parlare di performer in questo caso, non fosse casuale. Che tipo di rapporto avevi o hai con Kelsey? Questo lavoro può esistere unicamente in sua presenza?
Kelsey è una donna, un’artista, un nome, una performer, una performance. Ci siamo conosciute a Chicago e siamo entrambe artiste della SAIC. Kelsey era la persona giusta per quel momento e luogo specifici. Facevamo parte dello stesso seminario ed è per questo che il titolo di performer non le si addice del tutto. Ho scelto Kelsey perché era perfetta per quel ruolo. Per il taglio di capelli che permette di scorgere gli zuccherini, ma soprattutto per la sua personalità. Cercavo qualcuno che si sentisse a suo agio in una situazione del genere. Quando ho chiesto a Kelsey: “Would you like to…” e non ho nemmeno finito la frase che già mi ero guadagnata uno “Yes”, ho capito che era quella giusta.
Mi piace molto pensare che questa performance possa continuare a esistere sotto forma di aneddoto. Ripetere la performance tale e quale sarebbe molto difficile e non avrebbe molto senso. Per me è più importante che il lavoro abbia generato un discorso sull’arte e capire come, la prossima volta che il mio lavoro incontrerà il pubblico, mantenere lo stesso grado di intensità che sono riuscita a ottenere con Kelsey.

L’interesse che hai verso la botanica e le scienze naturali si legge in tutta la tua produzione. In questo caso, esiste una relazione con tali scienze?
Qualcuno ha letto la performance come una forma di mutualismo, ossia quando il simbionte (l’agglomerato di zuccherini argentati) vive sulla superficie corporea dell’ospite (Kelsey). O di parassitismo. Il mio riferimento visivo è l’immagine dei sori che, nelle felci, sono raggruppamenti di spore localizzate nella pagina inferiore delle loro foglie. Quello che mi interessa di più non è la restituzione di un fenomeno o di una definizione scientifica attraverso una produzione estetica. Le scienze naturali sono più che altro una fonte di ispirazione che informa, spesso inconsciamente, la mia pratica. Il punto sta nel fatto che, per notare queste spore, ti devi inchinare perché sono nascoste sotto. In altre parole, serve un incontro, come nell’arte.

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marinaviolacavadini.com
www.viafarini.org

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/77 è un collettivo di artisti composto da Giulia Ratti, Alessandro Moroni, Nicole Colombo e Luca Loreti. L'intento del collettivo è di realizzare collaborazioni e progetti che coinvolgano giovani artisti, senza esperienze espositive importanti alle spalle. Il nostro interesse principale…

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