Brain drain. Parola a Silvia Filippini Fantoni

Un Erasmus le ha permesso di aprire gli orizzonti e focalizzare la sua ricerca: come portare pubblico nei musei attraverso le nuove tecnologie, ascoltando i loro bisogni. Da Bergamo a Indianapolis, ecco il racconto di Silvia Filippini Fantoni.

Silvia Filippini Fantoni, classe 1974, ha messo a segno molte esperienze di audience developement e ora guida il dipartimento di Interpretation, Media and Evaluation dell’Indianapolis Museum of Art. Essere manager culturali comporta un certo tasso di concretezza…

Come sei arrivata negli Usa?
Diplomata al liceo linguistico, non ho mai smesso di amare le lingue. Mi sono iscritta a Storia Contemporanea alla Statale di Milano e ho cercato quasi subito l’Erasmus. Sono andata in Olanda, dove mi sono fermata per fare la tesi. Per caso a una festa mi hanno parlato di un bando di ricerca all’Università di Maastricht al McLuhan Institute riguardo il rapporto fra cultura e nuove tecnologie. Con qualche esame di museologia, archivistica e biblioteconomia sul cv, mi sono lanciata per sei mesi, focalizzando così il mio ambito di interesse: portare pubblico nei musei, personalizzando le esperienze di fruizione attraverso le nuove tecnologie. Ho fatto uno stage al Louvre per sviluppare il sito (nel 2011-12) e poi seguito un Master in estetica e Scienze dell’Arte in Sorbona e infine un dottorato. Da lì ho lavorato per diverse istituzioni internazionali come il Pompidou, la Città della della Scienza di Parigi, il Getty di Los Angeles e infine il British Museum. L’ultimo ingaggio è stato presso Cogapp di Brighton, una digital media agency che lavora per musei di tutto il mondo.

Come hai cominciato il tuo lavoro all’Indianapolis Museum of Art?
Mentre lavoravo in Cogapp, è arrivata la proposta dell’IMA, con il quale avevo contatti fin dai tempi del mio lavoro al Getty, a seguito di un convegno. Ormai sono quattro anni che lavoro a Indianapolis. Sebbene mi piacesse lavorare per un’agenzia privata, tornare al museo mi interessava per gli aspetti applicativi e gli immediati riscontri sul pubblico. Ora dirigo il dipartimento di Interpretation, Media and Evaluation. Siamo in 14 persone che si occupano di mediazione culturale, analogica e digitale, ricerca sui pubblici, sperimentazione e implementazione di nuovi applicativi tecnologici, nonché coordinamento della sezione di fotografia e multimedia. Le nostre principali domande: chi sono i fruitori e i non fruitori dei musei, quali sono i loro bisogni, i loro gusti. L’esito delle nostre ricerche si traduce in consulenza per la programmazione strategica dei nostri programmi.

Indianapolis Museum of Art

Indianapolis Museum of Art

Quali metodi applicate?
Il punto di partenza è il pubblico, che deve rimanere al centro dello sviluppo e della programmazione delle nostre attività espositive. Questionari qualitativi e quantitativi sono la base del nostro ascolto. Il pubblico è anche coinvolto in attività di testing dei nuovi applicativi. Ogni tre mesi apriamo il Test-it Lab, dove in forma di evento coinvolgiamo i fruitori nell’usare i prototipi ma anche per darci il loro feedback su tanti aspetti. Osserviamo direttamente le loro reazioni. Infine dedichiamo degli spazi nel museo per fare dei focus group. Una volta introdotta la nuova applicazione, la monitoriamo assicurandoci che abbia raggiunto gli obiettivi di supporto alla comprensione delle mostre e della fruizione. Infine scriviamo degli studi sommativi che presentiamo internamente, condividendoli con i responsabili dei dipartimenti principali del museo, oltre che con il direttore. Gli esiti non sono solo numerici, ma anche sociologici. Questo implica aver anche programmato a monte un set di indicatori per intercettare e validare le nostre ipotesi. Verifichiamo così le tendenze, i bisogni del pubblico.

Come nasce una mostra?
Ci sediamo insieme in cinque figure: curatore, mediatore culturale, designer della mostra, project manager e ricercatore sul pubblico. Si tratta di un processo condiviso nel quale, come vasi comunicanti, ciascuno di noi contribuisce alla scrittura della mostra. Le selezioni non sono unicamente un progetto intellettuale del curatore. L’esito di questi brain storming è una big idea, ovvero un documento per punti con gli outcome che ci aspettiamo dalla mostra. Non si tratta solo di contenuto, ma anche di impatti sociali sui pubblici. L’idea è di puntare sull’interazione e la socializzazione, e condurre al traguardo intellettuale il visitatore rispetto ai contenuti della mostra. Cerchiamo di accompagnarlo in ogni fase.

Capitalizzate le vostre ricerche e osservazioni?
Assolutamente sì. Dimostriamo le nostre ipotesi e divulghiamo gli esiti delle ricerche con la pubblicazione di articoli utili alla comunità dei musei. Cerchiamo poi di fare attività di influencing sui curatori, che sono spesso restii a pensare al coinvolgimento del pubblico nella produzione di mostre.

Indianapolis Museum of Art

Indianapolis Museum of Art

A quali modelli ti riferisci?
Negli Stati Uniti, i musei periferici sono i più attivi: Columbus Museum of Art, Detroit Institute of Arts, Oakland Museum of California, Denver Art Museum. Non potendo contare su un brand che da solo attrae pubblico, dobbiamo darci da fare. L’IMA è un museo provinciale dove la fidelizzazione compete con il settore dell’intrattenimento tout-court. Il museo è vissuto come uno strumento per la comunità più che un tempio inviolato per la cultura. Con un parco di oltre 150 acri, oltre a una collezione di 55mila oggetti, l’IMA ha costi importanti. Lavoriamo con un piano industriale dove il pubblico è parte integrante della raccolta di risorse del museo.

Ti confronti con colleghi in Europa e Italia?
Sì, ma con difficoltà. In Italia non vengo mai invitata a parlare. Insegno a Parigi in Sorbona a un MA. I francesi e gli inglesi sono più ricettivi sul tema dell’audience developement. Non come i tedeschi e gli italiani. In generale sussiste un atteggiamento accademico dove la priorità è data ai progetti curatoriali. Il sussidio pubblico ha reso i musei poco competitivi. L’attenzione verso i pubblici è un tema secondario, spesso associato alla didattica o al marketing, di serie B. Didascalie basse, caratteri minuscoli, linguaggio criptico dimostrano scarsa attenzione al pubblico. Le collezioni permanenti non si rinnovano. C’è resistenza nell’essere manageriali nella direzione dei musei. Si scambia la democratizzazione e l’accessibilità della cultura come svilimento dozzinale. Invece il pubblico va condotto gradualmente ai contenuti alti senza pretendere che faccia un salto immediato. Negli Usa dobbiamo confrontarci con il pubblico per sopravvivere. Il nostro project financing tiene conto di fundraising, income dai biglietti, marketing, inoltre ci affidiamo a qualche ritorno di investimento in fondi dedicati. Bisogna far quadrare i conti!

Cosa ti riporterebbe in Italia?
Al momento non ci sto proprio pensando, sebbene la mia famiglia viva in Italia. Dal punto di vista professionale non ho esaurito l’esperienza all’IMA. Per tornare dovrei avere autonomia, budget, un direttore manager che mi aiuta a sviluppare le strategie per l’ingaggio del pubblico. L’arte contemporanea dovrebbe aprirsi invece che essere autoreferenziale. I musei dovrebbero orientarsi a una gestione manageriale, con obiettivi a lungo termine, monitoraggi e accountability. Purtroppo, per il momento non vedo la volontà di un cambio di governance e un nuovo orientamento.

a cura di Neve Mazzoleni

www.imamuseum.org

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #30

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Neve Mazzoleni

Neve Mazzoleni

Neve Mazzoleni. Background di storica dell’arte e filosofa, perfezionata in management dell’arte e della cultura e anche in innovazione sociale, business sociale e project innovation. Per anni è stata curatrice ed exhibition manager della collezione corporate internazionale di UniCredit all’interno…

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