Dall’Archivio Viafarini. Intervista con Giada Carnevale

Terzo appuntamento con le conversazioni tra Progetto /77 e alcuni degli artisti incontrati nell’ambito del progetto "Portfolio Review Re-enactment", in collaborazione con Viafarini. Ora è il turno di Giada Carnevale e del suo “A good mourning place”.

Dopo Mati Jhurry e Isabella Benshimol, la parola va a Giada Carnevale (Vigevano, 1986), la cui ricerca si basa soprattutto su un interesse antropologico e sociologico. L’artista molto spesso crea un dialogo a senso unico con alcune microcomunità delle quali, poi, cerca di restituire la propria visione. Giada sviluppa una sorta di affettività nei confronti della sua materia d’indagine; questa affezione a volte assume i contorni di una piccola ossessione, anche se del tutto innocua, che diventa matrice generativa del lavoro. L’artista tenta di creare un’idea di “comunità”, di “concatenamento” tra le persone che le gravitano attorno, con le quali spesso e volentieri collabora per realizzare le proprie opere – dallo scultore all’artigiano, ecc. La serie di lavori ispirati alla figura di Pangi, cane, amico ma soprattutto alleato, racchiude l’approccio adottato dall’artista. Carnevale racconta un lavoro estrapolato proprio da questa serie e intitolato A good mourning place, dove un performer tatuava ai partecipanti la scritta “PANGI 4EVER”.

Giada Carnevale, Goodbye Rose, still da video, 2015

Giada Carnevale, Goodbye Rose, still da video, 2015

A good mourning place è una performance che hai ripetuto più volte in contesti diversi e con persone diverse. Si tratta di un lavoro ongoing e che quindi tautologicamente ritorna sempre su sé stesso, come la paura di far sfuggire il ricordo di un caro e fidato compagno. Come ti relazioni con la performance in questo caso? Come scegli il performer e i partecipanti?
Prima di tutto devo ancora capire se questa sia una performance o un’azione.
Mourning places sono quei posti (in genere case con grandi sale eleganti) che si affittano per fare i funerali, specialmente negli U.S.A. Alla morte del mio grande amico Pangi (pastore tedesco di 11 anni) un good mourning place mi sembrava la pelle della gente. È un evento intimo e sincero, il performer è Arcangelo Costanzo, artista mio amico e collega (membro di BB5000, il collettivo di cui faccio parte), persona di una sensibilità disarmante.
Per me è molto importante che il performer in questo caso sia una persona visibilmente sensibile e che la sua emotività possa trasparire. È il nome di un amore incondizionato che sta tatuando e lui lo sa. Momenti di ilarità tipici delle feste, dell’incoscienza dell’adolescenza (che l’indelebilità di un tatuaggio si porta dietro) si intrecciano con la malinconia, la dolcezza e la tristezza della perdita di una vita che qui e ora diventa invece 4EVER. Pangi, 4ever.

Esiste, all’interno del tuo portfolio, un altro lavoro con peculiarità simili, Mi casa es tu casa, dove in un contesto di “house warming” davi la possibilità agli invitati di farsi tatuare da un performer il disegnino di stampo infantile di una casa; come si relaziona A good mourning place con quest’altro lavoro? Lo pensi come un prosieguo o come due azioni distinte?
Sono due azioni distinte che chiaramente hanno connessioni fra loro. Sicuramente sono artefice o fondatrice in qualche modo di nuove “microcomunità”, al contrario di quando mi incuriosisco di quelle già esistenti. Il tatuaggio è per me un momento di forte cambiamento, lo paragono all’esperienza della morte che ci mostra la fotografia (l’esempio della fotografia l’ha detto Barthes, mica io): quello che eri prima non lo sei più, è morto, in un momento molto breve, la frazione di secondo in cui ago e inchiostro sono penetrati nella pelle. Tutto d’un tratto sei qualcuno di nuovo, qualcuno che è stato in un posto, qualcuno che ha una brutta casetta sul braccio.

Giada Carnevale, Cani, 2015

Giada Carnevale, Cani, 2015

È evidente che anche l’empatia sia in qualche modo importante nel tuo processo. Vuoi dirci qualcosa in più in merito? Come si lega questo aspetto a A good mourning place?
L’empatia. Mi ritrovo a mettermi nei panni altrui talmente tanto da dimenticare il mio punto di vista come mio e tutto e tutti entrano in una visione appiattita della realtà dove a volte troppi sentimenti diventano nessuno e altre volte diventano unicorni.
Con il mio lavoro metto sicuramente (da parte mia, di più non posso sapere) in atto questo processo. Se nella vita personale non ho controllo, nella pratica artistica, invece, lo utilizzo anche quando la scelta va nella direzione di una totale perdita del controllo stesso. A good mourning place me lo permette. Mi fa letteralmente entrare nella pelle degli altri e non sono più io che divento l’altro ma l’altro che, in qualche modo, diventa me.

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/77 è un collettivo di artisti composto da Giulia Ratti, Alessandro Moroni, Nicole Colombo e Luca Loreti. L'intento del collettivo è di realizzare collaborazioni e progetti che coinvolgano giovani artisti, senza esperienze espositive importanti alle spalle. Il nostro interesse principale…

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