Artisti in viaggio. Davide Savorani in Texas

Intervista con l’artista faentino, che insieme a Michelangelo Miccolis ha trascorso un anno alla Galveston Artist Residency. Performance e progetti site specific confluiti, fra l’altro, in un blog.

L’artista visivo e performer Davide Savorani (Faenza, 1977) ci racconta la sua esperienza alla Galveston Artist Residency in Texas, dove per un anno ha lavorato sviluppando performance e installazioni in collaborazione con compagno Michelangelo Miccolis. La fitta serie di azioni e opere site specific realizzate durante la residenza sono confluite nel vasto progetto (e blog) The Can’t Get Away Club, una piattaforma che documenta progetti in progress come Scenarios e nella pubblicazione-conversazione con l’artista Hannah Heilmann, Banana Days are Over.

Sei partito per il Texas, per la precisione per la Galveston Artist Residency: come si è sviluppata questa possibilità? Raccontami l’incontro e l’esperienza del luogo.
Dell’esistenza di Galveston e della residenza ho saputo solo dopo aver ricevuto la candidatura – a sorpresa – da parte di Bill Arning (direttore del Contemporary Art Museum di Houston). Considerata la situazione italiana, l’offerta texana si è rivelata particolarmente allettante: ai tre artisti selezionati GAR offre uno studio, un appartamento e uno stipendio mensile per dodici mesi.
Il confort della residenza ha attutito l’incontro con la provincia texana. La città di per sé non è molto dinamica, e in confronto Marfa è Los Angeles: è facile sentirsi isolati in quel contesto pittoresco e decadente. L’isola ha una storia davvero curiosa, anche se ora è difficile immaginare la fama e l’importanza che aveva alla fine dell’Ottocento. Ha una pellaccia dura, stratificata; se sul fondo vi è l’oro nero, poco più su ci sono ossa e suppellettili Karankawa, e poi quelli dei conquistadores, più su ancora troveremmo i pirati e poi ciò che resta delle migliaia di vittime causate dal Great Storm, l’uragano che ha raso al suolo Galveston nel 1900, portandole via per sempre lo scettro di regina della Third Coast.

Davide Savorani, Banana Days are Over, 2013

Davide Savorani, Banana Days are Over, 2013

Il palazzo déco dove vivevo è sopravvissuto anche a Ike e le targhette che segnano il livello dell’acqua durante le inondazioni sono le sue medaglie d’onore. Le vedi ovunque, fuori dalle case e dentro i locali. Non avevo mai vissuto in un luogo così esposto e picchiato così spesso da una calamità naturale, dove gli abitanti ti parlano spesso di attesa, fuga, perdita e ritorno. Perché ritornare? Dicono sia necessario avere una memoria breve e non legarsi troppo a ciò che si possiede.
Sai, tutto questo appartiene alla mitologia dell’isola e al suo potere incantatore, che a volte sta semplicemente nella mancanza di trasporti pubblici adeguati: se sei straniero e non possiedi una macchina, è complicato allontanarsi. E pensare che fino agli Anni Cinquanta c’era un treno che collegava Houston a Galveston (40 miglia) ogni ora del giorno e della notte; oggi non c’è nemmeno un bus.
La condizione di isolamento è diventata, fuori programma, il fulcro della mia – e poi della nostra – esperienza. Piuttosto che respingerla o ignorarla, ho voluto che incidesse sulla produzione… di noia, di movimento, di stallo, di moltissimo materiale che si è palesato nel mio studio per poi trasformarsi incessantemente, fino a smaterializzarsi in una gif che vive su wordpress.com. Gli scambi con l’esterno si sono intensificati al 220% attraverso il virtuale: lo schermo del mio laptop è diventato di fatto uno stargate.

All’interno di questa residenza come viene disciplinato il lavoro? Quali sono i vincoli? Quanto è indipendente il lavoro e la relazione con il curatore?
GAR è una residenza giovane, ma dall’impianto abbastanza “old school”. Offre all’artista spazio, tempo e denaro per potersi dedicare al proprio lavoro, e allo stesso tempo lo allontana dalla mondanità e dalla routine del sistema dell’arte a cui siamo abituati. Sullo sfondo di questo spettacolo solitario vi è la Third Coast texana, una sorta di Igea Marina gonfiata con ormoni, ostriche e margaritas. Le gallerie non mancano, si possono trovare molteplici variazioni di pellicani e palme dipinti su tela o costose sculture fatte con driftwood. La serata degli open studios, programmata a gennaio, ha portato alla residenza moltissimi visitatori, di questi l’80% erano B.O.I. (born on the island) e ti assicuro che è stato davvero spassoso. Nessuno aveva freni, anzi erano proprio sfrenati e il Banana Wall, ad esempio, invitava alle reazioni più disparate.

Davide Savorani, Self-portrait / Michelangelo at “the cottages” between 28th and Winnie, Galveston, TX

Davide Savorani, Self-portrait / Michelangelo at “the cottages” between 28th and Winnie, Galveston, TX

La residenza non controlla l’artista e non pone dei vincoli sulla produzione. Tutto ciò che viene prodotto ed esibito durante la mostra ritorna all’artista. Il grosso supporto economico – il board è molto generoso e ha sostenuto diverse mie richieste fuori programma – sembra bilanciare la mancanza di dialogo. Non c’è un curatore che segue gli sviluppi del lavoro dei tre artisti, nemmeno incontri settimanali o programmi di alcun genere, a parte una vacanza-premio a Marfa e sporadici studio visit.
Ho notato segni di implosione, anche negli altri residenti. All’inizio, per sfuggirne, ho comprato un pesce betta che ho chiamato Dio. Poi è arrivato Michelangelo a fare da contrappeso e ad aprile ho invitato un’amica, l’artista danese Hannah Heilmann, con la quale ho collaborato per la produzione e pubblicazione di Banana Days Are Over, elemento complementare all’intero progetto.
Credo che la residenza rispecchi la storia del suo direttore: un giovane artista di successo che fugge dalla mondanità, dalla competitività e dallo stress della scena artistica newyorchese per isolarsi sulla costa texana: un approccio che oggi mi sembra un po’ outdated, a meno che non stai con i Gelitin su Boring Island. Un po’ di “Residency Critique” non farebbe male.

Cosa può significare una banana quando si è lontanissimi da casa, dal proprio contesto?
Il tipo “Cavedish” è global, si trova nei supermercati e nelle tavole di quasi tutto il mondo. Nonostante non sia la razza di banana più gustosa, è l’unica al momento in grado di sopportare lunghi viaggi, resistere agli urti e soprattutto al Tropical Race Four. La banana è uno snack energetico, è economica, è gialla, è storta, è sexy, è funny: banana è e banana rimane, ovunque.
Giocando con la sua etimologia, diventa il surrogato di una musa: prima a Copenhagen e poi in Texas, sono entrato nello studio con il mio laptop e una banana. All’inizio non prendi sul serio una buccia di banana, è un soggetto talmente familiare, comune, da sembrare ridicolo. Ed è proprio questa apparente “chiusura” del caso che permette al frutto di tramutarsi in un buco nero: prendilo come soggetto e darai inizio a interminabili conversazioni metafisiche. Credimi, abbiamo partecipato a dialoghi davvero stimolanti e abbiamo imparato moltissimo. Durante uno studio visit una nota curatrice, che inizialmente aveva snobbato la presenza delle bucce, ha poi dato sfogo a una riflessione intricatissima che l’ha portata infine a proiettarsi in una banana.

Davide Savorani, from the Can't Get-Away Club, temporary desk on March 27th 2013

Davide Savorani, from the Can’t Get-Away Club, temporary desk on March 27th 2013

Oltre a questo è accaduto qualcosa di bizzarro, che non vi aspettavate?
Le nuvole si spostano in modo bizzarro, il gracchio è un volatile alquanto bizzarro. Abbiamo avuto incontri bizzarri, con persone dalle biografie esagerate, nelle quali ci siamo imbattuti casualmente durante i nostri pellegrinaggi – specialmente notturni – quando la città si trasforma in quella che potrebbe sembrare la location perfetta di The Walking Dead. Una notte Michelangelo ha incontrato un ragazzo gravemente ustionato, coperto da una maschera trasparente. Al pari di una visione lynchiana, gli ha dichiarato di essere a conoscenza di un segreto riguardante la città, così terribile da non poter essere rivelato.
Capita di incontrare personaggi che sembrano incarnare tutte le contraddizioni americane e la morbidezza del loro pensiero; si presentano senza essere annunciati per travolgerti con la loro storia e la loro presenza. Sono abili oratori, a volte profeti confusi, dotati di quella particolare enfasi che pare essere impressa nel DNA del popolo americano. Ma forse tutto questo è semplicemente frutto della mia dipendenza dalle tante tv series, che consumo avidamente ormai da otto anni.

Nel vostro lavoro la parte performativa è da sempre strutturale: come si è evoluta e come si sta evolvendo negli anni?
Michelangelo Miccolis: L’elemento performativo è sicuramente il punto di unione della nostra collaborazione, o forse è meglio dire della mia incursione nella pratica di Davide. Nel 2008, quando entrambi lavoravamo come attori per la Socìetas Raffaello Sanzio, Davide presentò a Brown Project Space Gallisterna, un lavoro decisivo nel suo percorso, in cui il tempo e le modalità d’azione combaciavano perfettamente con il volume dello spazio espositivo. Sapevo che Davide aveva lavorato come attore per quasi un decennio. Questo si è tradotto nella sua pratica, dove l’esperienza della messa in scena teatrale si confronta con le modalità espositive che caratterizzano i luoghi istituzionali e non delle arti visive.
In quel periodo stavo lavorando anche con Tino Sehgal e l’approccio di Davide l’ho sentito immediatamente in sintonia con la mia formazione interdisciplinare e il mio interesse per la live art. Se già in precedenza le partiture performative dei lavori si basavano sull’esecuzione di compiti ben precisi, per cui sia il gesto che il movimento vengono dettati da una funzionalità piuttosto che da un’interpretazione, il passaggio successivo è stato quello di relazionarsi attivamente allo spazio e dilatare nel tempo ogni singolo intervento in modo da aprire l’esperienza a nuove possibilità.

Davide Savorani, from the Can't Get-Away Club, temporary desk on March 28th 2013

Davide Savorani, from the Can’t Get-Away Club, temporary desk on March 28th 2013

In Green Room (Careof, 2011) il mio ruolo è mutato più propriamente in quello di second agent, colui a cui viene delegata l’esecuzione del lavoro. In questo caso l’allestimento prevedeva una continua riconfigurazione da parte mia delle opere esposte, durante tutto il periodo di apertura della mostra. Il modo in cui Davide trasmette le partiture è di tipo aperto; come un esercizio in cui è necessario toccare determinati punti, ma sta all’esecutore scegliere come raggiungerli e capire come portare un gesto.
Rispetto alle precedenti esperienze, la residenza a Galveston ha sicuramente fatto saltare alcune delle nostre coordinate: abbiamo capito fin da subito che non avremmo potuto lavorare con le stesse modalità messe in atto in precedenza. Così abbiamo colto la possibilità di espandere, ma anche disperdere, la produzione in molte direzioni e distribuirla su diversi livelli. Molteplici sono stati gli interventi performativi, tutti “unannouced” e di forma privata, ma per il lavoro presentato in mostra la possibilità di azione è stata passata allo spettatore. In Scenarios -The Can’t Get-Away Club, lo studio di Davide è diventato un insolito spazio di meditazione pensato per il visitatore o possibile membro del chimerico club.

The Can’t Get-Away Club è diventato il vostro blog, una sorta di diario per documentare il lavoro in progress. Una piattaforma come questa è nata dalla semplice esigenza di accorciare le distanze fra Texas e resto del mondo oppure sempre di più uno spazio virtuale sarà naturale per raccontare il vostro lavoro?
Più che accorciarsi, direi che le distanze diventano elastiche. L’illusione di diminuire la lontananza, rende quest’ultima ancora più evidente.
Nella dimensione virtuale avvengono già molti dialoghi relativi al lavoro e il blog è diventato un’estensione spontanea. Come ha già detto Michelangelo, in Texas il lavoro ha subìto un cambio di direzione rispetto a quella che mi ero immaginato. I teatranti con cui ho lavorato mi hanno insegnato a essere flessibile e disponibile, per questo le deviazioni – anche drastiche – non mi spaventano.
Ho sentito la necessità di smembrare il lavoro, di non chiuderlo in un unico formato e lasciarlo accadere anche altrove. Di non avere un solo punto di riferimento, ma una moltitudine, eterogenea, a volte anche discordante. Come può accadere alle finestre aperte sul nostro browser, spalancate ovunque, apparentemente senza una logica chiara.
La staticità dello studio, con quella sua bianca passività appena verniciata a cui non sono abituato, mi ha portato a immaginarlo come uno stage dove accade un costante cambio di scena. Ho volutamente lasciato molto spazio all’improvvisazione, un metodo che vedo da sempre con una certa diffidenza, ma che in questo caso mi sembrava assolutamente appropriato. Il blog si è presentato come un’altra possibile forma di archiviazione.
Detto questo, la conclusione della mia risposta diventa prevedibile: non ho idea del se e del come utilizzerò lo spazio virtuale in futuro.

Davide Savorani, from the Can't Get-Away Club, Banana Wall, 2013

Davide Savorani, from the Can’t Get-Away Club, Banana Wall, 2013

Il progetto realizzato in questa residenza è un episodio concluso o verrà replicato, ricostruito in altre sedi?
Sono pochi i lavori che considero conclusi, c’è sempre la possibilità di un nuovo episodio. Non parlerei però di ricostruzione, è troppo nostalgica. L’installazione che ho presentato a Galveston è il secondo episodio di Scenarios (il primo è stato a Copenhagen nel 2012); come altri progetti del passato, anche questo ha un legame con lo spazio dove si è formato ed esibito e troverei poco interessante replicarlo tale e quale da un’altra parte. Però si presta perfettamente a crescere e a collassare in un altro formato. Prima o poi alcuni degli elementi torneranno, forse in un’altra stagione, quando anche le banane Cavedish saranno estinte.

Nella geografia dell’arte contemporanea, tra residenze, fondazioni e altri progetti, c’è un altro luogo per voi appetibile nel futuro prossimo?
La fioritura incontrollata di residenze, fondazioni, spazi multi-disciplinari, zero-budget festival, eventi e premi ad-hoc provoca la crescita del mio scetticismo. La mappa è sempre più grande e capricciosa, ma alla fine ciò che conta è saper fare funzionare le cose e sono in pochi a saperlo fare. Starei lì dove ciò che fai è riconosciuto come una professione, non fancazzismo. Certo, da un po’ di tempo l’Italia non è molto appetibile; il sistema ha sempre puzzato, ma quello che mi fa incazzare è vedere come in un periodo di intensa crisi molti “direttori di scena” decidano di assecondare l’onda, per inerzia e apatia. Perché non remiamo tutti contro?
A oggi è difficile puntare il dito su un luogo preciso, viaggiare sembra facile e alla portata di tanti, finché non ci si scontra con visti e permessi di soggiorno.  Michelangelo è anche cittadino messicano e da qualche anno stiamo immaginando uno spostamento a Città del Messico, ma abbiamo viaggiato così tanto ultimamente che non si è ancora presentata l’occasione giusta. Città del Messico è magnetica e la scena artistica è dinamica, fortunatamente ancora inafferrabile, ma sappiamo che tale scelta è da ponderare con cura.
Sono certo che, se ora chiudessi gli occhi e puntassi il dito a caso, quasi sicuramente la scelta cadrebbe fuori dalla cartina geografica…

Riccardo Conti

www.davidesavorani.com
http://thecantgetawayclub.wordpress.com
http://galvestonartistresidency.org

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Riccardo Conti

Riccardo Conti

Riccardo Conti (Como, 1979; vive a Milano), critico d’arte e pubblicista, si occupa principalmente di cultura visiva e linguaggi come video e moda. Collabora con riviste come Vogue Italia, Domus, Mousse, Vice e i-D Italy, ha curato diverse mostre per…

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