Cultura e politiche di finanza pubblica nazionale

Stefano Monti riflette sul ruolo assegnato alla cultura nel panorama politico attuale. A partire dal Documento di Economia e Finanza 2018.

Il 19 giugno è stato pubblicato il Documento di Economia e Finanza 2018. Era un documento molto “atteso”, nel quale gli operatori avrebbero, forse, voluto meglio comprendere quali fossero gli indirizzi di un governo di cui, per molti aspetti, è ancora difficile intuire tanto il perimetro quanto le intenzioni.
Chi si aspettava, dunque, di comprendere, al di là degli slogan e delle boutade mediatiche, quali fossero le intenzioni del nuovo apparato dirigente non ha trovato molti elementi per soddisfare la propria curiosità: in modo saggio (o furbo, a seconda della prospettiva dalla quale si guarda l’attuale esecutivo), il DEF ha sostanzialmente confermato le politiche in corso, demandando quindi tutto alla legge di stabilità.
Nessuna novità, quindi, anche per chi attendeva il documento per comprendere, dal punto di vista finanziario, quali potessero essere gli indirizzi strategici (o quantomeno le intenzioni) relative al settore culturale e creativo del nostro Paese.
O, almeno, nessuna novità affermativa. Perché “al negativo”, vale a dire leggendo gli “spazi vuoti”, il documento offre comunque qualche spunto di riflessione.
Ma procediamo con ordine: se una novità è presente nel documento, tale novità è sicuramente espressa dall’inserimento all’interno dello stesso degli indicatori relativi al cosiddetto Benessere Equo e Sostenibile.
Tali indicatori, sorti sulla scia di un dibattito pubblico sempre più forte a livello internazionale, intendono superare la misurazione delle performance di una nazione esclusivamente mediante l’analisi del Prodotto Interno Lordo.
Dibattito pubblico che ha più che una motivazione d’essere: nel documento di Analisi n.12 (cui il DEF fa riferimento), è infatti mostrato come gli indicatori di “felicità percepita” del nostro Paese mostrino una condizione di “insoddisfazione generale” degli italiani rispetto alla propria vita, con un divario piuttosto interessante rispetto ad altre economie affermate (Francia, UK, Paesi Bassi).

Se l’obiettivo del Paese è quello di migliorare “gli indicatori” di benessere dei propri cittadini (e la cultura è esclusa), è dunque legittimo chiedersi che ruolo giochi, secondo la nostra classe dirigente, la cultura per il nostro Paese”.

Come indicato dallo stesso documento di analisi, nel World Happiness Report del 2017, l’Italia “risultava al 48° posto su 155 Paesi considerati (subito dietro l’Uzbekistan e l’Ecuador), molto più indietro di tutti i principali Paesi europei e appena davanti all’Algeria”.
Quanto esplicitato, dunque, parrebbe sufficiente a inserire all’interno degli indicatori econometrici di misurazione della nostra nazione anche elementi meno strutturali e legati alla percezione.
Ed è proprio nel BES che, per chi si occupa di cultura, emerge un dato piuttosto interessante: la dimensione culturale non è affatto presa in considerazione nella definizione del Benessere Equo e Solidale o, per essere più specifici, l’unica dimensione più “prettamente culturale” degli indicatori è “l’indice di abusivismo edilizio” che, come specificato nel DEF “monitora il dominio “paesaggio e patrimonio culturale” del benessere e fornisce una misura diretta del deterioramento del paesaggio, rappresentando anche una proxy del rispetto della legge nell’utilizzazione del territorio e costituendo un’accettabile approssimazione del fenomeno del consumo di suolo.
Nessun riferimento, dunque, alle altre dimensioni “culturali” del Benessere, così come indicate da ISTAT e che variano dalla “spesa corrente dei comuni per la gestione del patrimonio culturale alla densità e rilevanza del patrimonio museale”, così come nessun riferimento alle relazioni tra consumi culturali e benessere che sono state più volte avanzate dalla letteratura scientifica.
Questo elemento è cruciale: se l’obiettivo del Paese è quello di migliorare “gli indicatori” di benessere dei propri cittadini (e la cultura è esclusa), è dunque legittimo chiedersi che ruolo giochi, secondo la nostra classe dirigente, la cultura per il nostro Paese.
Non è una fonte di benessere, non è (più) una caratteristica essenziale dei flussi turistici e non è una leva economica (l’assenza di una disciplina organica relativa alle Industrie Culturali e Creative lo testimonia).

Quello che fa lo Stato Italiano è, insomma, molto simile a quanto fanno moltissime delle nostre imprese: modificano i loro piani di investimento per rispondere a specifiche opportunità di finanziamento comunitario piuttosto che individuare delle linee di finanziamento che siano coerenti con quanto previsto dalla loro visione strategica”.

Una potenziale risposta a questa domanda può essere rintracciata in due documenti ufficiali: il Programma Nazionale di Riforma (2017) allegato al Documento di Economia e Finanza dell’anno scorso, e la Nota Tecnico Illustrativa alla Legge di Bilancio 2018-2020.
Nel primo dei due documenti, oltre al ruolo fondamentale di leva per il turismo (ruolo che tuttavia viene notevolmente indebolito nell’ipotesi del passaggio del turismo dal Mibac(t) all’agricoltura), la cultura ha una forte correlazione con l’istruzione (e appare ormai necessario ribadire che le due dimensioni non necessariamente coincidono) e con il “bonus” rivolto ai giovani (e anche in questo senso, il nuovo esecutivo sembra avere idee differenti).
Ovviamente, tale impostazione è rispecchiata nella già citata nota alla legge di bilancio, dove compaiono, tra gli effetti finanziari della manovra, le “misure per l’università” e la “card diciottenni”, ma dove compare anche un’altra possibile spesa che potrebbe fornire delle informazioni in più su come la nostra Italia interpreta “in modo concreto” il ruolo della Cultura: il Fondo Sviluppo e Coesione. In tale fondo, infatti, rientrano anche i fondi strutturali attraverso i quali l’Unione Europea finanzia interventi statali legati ad aspetti prioritari di crescita (intelligente, sostenibile e inclusiva). Ed è attraverso tale fondo che viene finanziato il Programma Operativo Nazionale (PON) Cultura attraverso due assi di intervento (più uno di assistenza tecnica): rafforzamento delle dotazioni culturali (risorse finanziare totali € 360.227.224 di cui € 90.056.806 nazionali) e attivazione dei potenziali territori di sviluppo legati alla cultura (risorse finanziarie totali € 114.014.376 di cui € 28.503.594 nazionali).
Tirando le somme verrebbe dunque da suggerire che, al momento, l’Italia, più che una linea di intervento “propria” sembri “adattare delle esigenze specifiche” a visioni di tipo comunitario. E in questo senso sembrerebbe andare lo stesso PON Cultura, che risponde (come inserito nello stesso documento) a quattro obiettivi specifici che, a loro volta, declinano due obiettivi tematici principali:
promuovere la competitività delle piccole e medie imprese, del settore agricolo (per il FEASR) e del settore della pesca e dell’acquacoltura (per il FEAMP);
preservare e tutelare l’ambiente e promuovere l’uso efficiente delle risorse.
Quello che fa lo Stato Italiano è, insomma, molto simile a quanto fanno moltissime delle nostre imprese: modificano i loro piani di investimento per rispondere a specifiche opportunità di finanziamento comunitario piuttosto che individuare delle linee di finanziamento che siano coerenti con quanto previsto dalla loro visione strategica.
Nella maggior parte dei casi, tuttavia, questa strategia si è già rilevata inefficace nel settore privato. Qualcuno lo dica anche ai nostri decisori politici. Grazie.

Stefano Monti

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati

Stefano Monti

Stefano Monti

Stefano Monti, partner Monti&Taft, è attivo in Italia e all’estero nelle attività di management, advisoring, sviluppo e posizionamento strategico, creazione di business model, consulenza economica e finanziaria, analisi di impatti economici e creazione di network di investimento. Da più di…

Scopri di più