In principio era Warhol: il videoclip tra le arti visive

È in uscita per l’editore Meltemi un volume monumentale. Lo firma Bruno Di Marino e si intitola “Segni sogni suoni. Quarant’anni di videoclip da David Bowie a Lady Gaga”. Qui trovate un estratto dalle oltre cinquecento pagine.

Ho visto su MTV un bel video dei Models, è ambientato negli anni Sessanta ed è come i film underground. C’è uno che interpreta Edie e un altro, me. Quello che fa la mia parte è così carino, indossa una camicia a righe, è grandioso. Non conosco il titolo della canzone” [1]. Così annotava Andy Warhol nei suoi diari il 7 novembre 1986. Il celebre artista, insieme a Dan Munroe, due anni prima aveva realizzato il clip dei Cars Hello Again (1984) e l’anno seguente girerà il video Misfit (1987) per i Curiosity Killed The Kat. A rivederlo oggi, Hello Again sembra piuttosto banale, soprattutto perché ci si aspetterebbe qualcosa di realmente avanguardistico da uno dei padri della Pop Art. Il clip – dove compare lo stesso Warhol nei panni del barman e altri personaggi del mondo della moda e della trasgressione – fa un largo uso del chroma-key, con piccoli interventi di animazione e di lettering. Una sequenza in uno sgranato bianco e nero di due che si baciano non può non ricordare il suo film muto del 1963 Kiss. Eppure Warhol si riteneva soddisfatto del lavoro. Sempre nei diari, nello stesso periodo, annotava: “L’hanno ritrasmesso ed è ancora buono. Non riesco a credere che sia stato fatto proprio da noi. Mi è difficile accettare che dopo questo mai nessuno ci abbia più chiesto di fare video” [2].
La risposta a questa domanda è in fondo semplice: che bisogno c’era di chiamare Warhol a girare un video, dovendolo pagare a caro prezzo, quando il suo stile non solo era ed è facilmente emulabile e replicabile all’infinito, ma è di fatto strettamente connaturato alla musica da vedere? Il clip è del resto un tipico prodotto della cultura pop, proprio perché, come ha notato Sibilla, è un valido esempio di bricolage, di “ricomposizione di materiali eterogenei e frammentari” [3]; si basa cioè sull’estetica del “prelievo”, tipica della Pop Art statunitense. Era dunque logico che Warhol fosse un estimatore di MTV e partecipasse con eccitazione agli MTV Awards, dove poteva incontrare numerose star, così come alle serate della Fox a Brooklyn negli anni Sessanta. L’aspetto effimero e mondano dello star system musicale da una parte, il facile consumo dei video dall’altra, rappresentavano il giusto contesto per l’artista nella New York anni ’80. Tra le sue frequentazioni più assidue troviamo Debbie Harry, una delle videostar di quel decennio. Il video della cantante dei Blondie, Sweet & Low (1989), è un esplicito omaggio all’estetica warholiana: la sagoma della Harry, in figura intera o in primo piano, è evidenziata da una scia di colore fosforescente e si staglia su un fondo di colori molto accesi che cambia continuamente, fino a quando il suo volto non si trasforma in una serigrafia di Warhol. Una scritta in sovrimpressione recita “Thanks Andy” e compaiono – cosa piuttosto rara per l’epoca – anche le firme degli autori: Steven Meisel e Stephen Sprouse.

Bruno Di Marino – Segni sogni suoni (Meltemi, 2018)

Bruno Di Marino – Segni sogni suoni (Meltemi, 2018)

È naturalmente impossibile dare conto dei video che fanno riferimento all’immaginario della Pop Art: da What You Need (1986) degli INXS a Confide in Me (1994) di Kilye Minogue, che riprende la pubblicità televisiva delle hot-line, con la cantante che appare in una serie di riquadri, concatenati tra loro, fino ai clip dei giapponesi Pizzicato Five o di altri gruppi che si ispirano già nella musica al genere beat e che dunque riprendono anche visivamente suggestioni anni ’60.
Warhol non è stato il solo antesignano in questo campo. Tra gli artisti visivi che solitamente non utilizzano immagini in movimento nel loro lavoro ma che hanno accettato di dirigere video musicali, troviamo una delle figure più quotate del sistema dell’arte, l’inglese Damien Hirst, autore del video Country House (1998) per i Blur, i fratelli Jack e Dinos Chapman, che hanno firmato You Lie You Cheat (2008) per gli Spiritualized e Black Hearted Love (2009) per PJ Harvey, il pittore John Currin autore di Help the Aged (1997) per i Pulp. Singolare è il caso dell’italiano Luigi Ontani, che ha realizzato una decina di videoclip, secondo il suo stile sgargiante, colorato, al limite del kitsch, per la popstar balinese Bogam.
Antje Krause-Wahl conclude un suo saggio sull’argomento, dove si concentra in particolare sui videoclip di Hirst e Sam Taylor Wood (I Want Love e Uberlin) con queste parole: “I videoclip realizzati da artisti visivi vanno visti da una duplice prospettiva: possono essere sperimentali, ma al tempo stesso trailer, non solo per gli album dei musicisti ma anche per gli stessi artisti” [4]. Evidenzia insomma come la doppia natura sperimentale-promozionale sia un vantaggio per entrambe le categorie: i musicisti guadagnano in qualità estetica, gli artisti in visibilità.
È ovvio che un video non necessita della firma di un artista riconosciuto per essere nobilitato. In questi ultimissimi anni, poi, dallo scambio tra il mondo dell’arte contemporanea e quello del music video è scaturita una vera e propria moda: i giovani artisti si nutrono di MTV, ispirandosi per i loro lavori agli stilemi della musica da vedere. Se da un lato questo serve a eliminare i pregiudizi che gravano intorno al music video – giudicato ancora oggi un prodotto esclusivamente commerciale che non ha alcuna valenza artistica – dall’altro crea un’omologazione di stili che non giova certo all’arte.
Lo scambio tra mondo dell’arte e videomusica si esplicita mediante tre diverse modalità:
a) artisti che hanno diretto videoclip (per es. Damien Hirst) o che hanno contribuito alla loro realizzazione magari in veste di art-director (lo stesso Hirst o Vanessa Beecroft);
b) artisti che hanno influenzatolo stile videomusicale di alcuni registi attraverso il loro immaginario (James Turrell nel clip Hotline Bling) o le cui opere sono state direttamente inglobate all’interno di videoclip (è il caso delle One-Minute sculptures di Erwin Wurm nel video Can’t Stop);
c) musicisti che sono anche artisti visivi e, in qualche occasione, sono stati registi dei loro videoclip (Laurie Anderson, David Byrne, Brian Eno, Christian Rainer).
Una quarta possibile categoria che potremmo aggiungere è quella dei registi di videoclip che sono stati arruolati nel mondo dell’arte. Non molti per la verità. Per esempio Michel Gondry – che pure resta uno dei più creativi autori di videomusica della storia – non ha per esempio ancora ricevuto un imprimatur ufficiale, nonostante abbia realizzato alcune mostre e sia noto e stimato tra i curatori di arte contemporanea.

Diverso è il caso di Chris Cunningham, il quale – pur avendo al suo attivo una piccola quantità di videoclip realizzati – ha avuto l’onore di essere “sdoganato” dal sistema dell’arte: ciò è avvenuto quando il curatore della 49. Biennale di Venezia, Harald Szeemann, lo ha invitato a esporre nel 2001. In quell’occasione Cunningham – che ha poi proiettato i suoi lavori anche in un altro importante museo, il PS1 di New York – ripropose il clip di All is full of Love e le due installazioni commissionategli l’anno precedente dal prestigioso gallerista londinese Anthony D’Offay: Monkey Drummer e Flex. Quest’ultimo è un film sperimentale fortemente erotico-onirico (con sconfinamenti nel pornografico) che si avvale della musica di Aphex Twin. Richard James, insomma, ha avuto la possibilità di ricambiare il favore all’amico videomaker che aveva diretto due suoi video musicali. In Flex un uomo e una donna “lottano e scopano”, come scrive sul catalogo della Biennale Sarah Kent, la quale riporta una dichiarazione dell’artista: “Volevo fare qualcosa di simile a un quadro astratto usando delle figure, ma in sala di montaggio ho cominciato a creare una sequenza che sembra un racconto. Uno dei miei maggiori obiettivi è raggiungere una reazione fisica, quindi sono stato il più possibile viscerale” [5].
Ma ciò che va sottolineato è la scelta (a parte Flex) di esporre – forse per la prima volta in un importante contesto legato alle arti visive – un videoclip, la cui protagonista è Björk, raffinata popstar che (per inciso) in quel periodo è legata sentimentalmente all’artista Matthew Barney.
Dalla fine della relazione con Barney nasce nel 2015 l’album di Björk Vulnicura, da cui è tratto Black Lake, un lavoro dalla doppia natura commissionatole dal MoMA di New York, in occasione della personale che questo importante museo ha dedicato nello stesso anno alla musicista islandese e che conferma una volta di più il ruolo che Björk riveste nell’iconografia contemporanea. Il piccolo film di 10 minuti, concepito da Björk e realizzato da Thomas Andrew Huang, pensato per due schermi in formato ultrascope, è principalmente un’installazione, trasformata poi nel videoclip monocanale dell’omonimo brano incluso nell’album. Il video riprende i soliti elementi naturali cari a Björk. Nella prima parte notturna, la popstar danza in grotte e anfratti (le coreografie sono di Erna Ómarsdóttir), mentre, nella seconda parte diurna, si muove nelle vallate islandesi. Ma è nella parte centrale che, con l’aiuto degli effetti digitali 3D di David Benjamin, Huang ci propone le sequenze più suggestive: eruzioni vulcaniche di lava blu elettrico. In alcuni momenti le immagini sui due schermi sono coincidenti, in altre ci mostrano piani diversi, ma, comunque, la rockstar è sempre al centro di ogni inquadratura, in un rapporto simbiotico e ancestrale con la dimensione organica e materica della Madre Terra che – come recitano le note di accompagnamento a Black Lake – “riflette il concetto di dolore, perdono e rinascita”.

Bruno Di Marino

[1] Andy Warhol, in Pat Hackett (a cura di), I diari di Andy Warhol, De Agostini, Novara 1989, p. 567.
[2] Ivi, p. 572. Non dimentichiamo che in quegli stessi anni l’artista conduce lo show Andy Warhol’s T.V..
[3] Gianni Sibilla, Musica da vedere. Il videoclip nella televisione italiana, RAI-ERI, Torino 1999, p. 20.
[4] Antje Krause-Wahl, “Why Artists Make Clips?. Contemporary Connections Between Art and Pop, in Henry Keazor, Thorsten Wubbena (ed. by), Rewind Play Fast Forward. The Past, Present and Future of the Music Video, Transcript, Verlag, Bielefeld 2010, p. 221.
[5] In Platea dell’umanità, La Biennale di Venezia – 49a Esposizione Internazionale d’Arte, Electa, Milano 2001, p. 262.

Bruno Di Marino – Segni sogni suoni
Meltemi, Milano 2018
Pagg. 506, € 25
ISBN 9788883538728
www.meltemieditore.it

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati

Bruno Di Marino

Bruno Di Marino

Bruno Di Marino (Salerno 1966), docente di mass media all’accademia di belle arti di Frosinone, curatore, storico dell’immagine in movimento, dal 1989 si occupa di sperimentazione audiovisiva. Tra i volumi da lui scritti o curati ricordiamo: Studio Azzurro - Tracce,…

Scopri di più