Franco Russoli e la grande Brera. In un libro

Intervista a Erica Bernardi, curatrice del volume dedicato agli scritti di Franco Russoli. Ovvero colui che contribuì a radicare, nell’immaginario collettivo, l’idea della “grande Brera”.

Per un giovane che si avvicini oggi allo studio della storia dell’arte, quello di Franco Russoli è solo uno dei tanti nomi della disciplina caduti nel dimenticatoio. Un fatto grave, soprattutto se il giovane è, mettiamo, uno studente di un’università o di un qualunque istituto milanese.
Nonostante fosse originario di Firenze, Russoli si stabilisce infatti a Milano nel 1950, e qui, fino alla morte, avvenuta nel ’77, è sempre al centro di tutte le più importanti operazioni di rilancio dei musei cittadini. In una Milano devastata dai bombardamenti della guerra, è al fianco di Fernanda Wittgens per la ricostruzione, “come era e dove era”, del Poldi Pezzoli, segue da vicino (e senza lesinare critiche) l’“orchestrazione romantica”, estremamente razionale, del nuovo allestimento del Museo del Castello Sforzesco, e dal 1957 è direttore della Pinacoteca di Brera. Grande capacità organizzativa, chiarezza e lucidità mentale: sono le armi con le quali si mostra capace di apportare innovative rivoluzioni nella concezione museografica dell’antico museo cittadino, sempre attento a non snaturarne l’identità.
Oggi la casa editrice Skira pubblica Senza utopia non si fa la realtà. Scritti sul museo (1952-1977) di Russoli, in cui si concentrano le riflessioni e i risultati di oltre vent’anni del suo lavoro. Ne abbiamo parlato con la curatrice del volume, Erica Bernardi, alla quale è stato affidato l’archivio dello studioso dalla figlia, Sandra, da poco scomparsa.

Questa raccolta di scritti, che davvero si può ritenere un’antologia se non un piccolo manuale di museografia del Novecento, era stata approntata dall’autore prima della scomparsa, e fu pubblicata una prima volta da Feltrinelli, nel 1981. Cosa cambia in questa nuova edizione rispetto alla precedente?
Russoli, nel corso degli Anni Settanta, per dare maggiore forza programmatica al suo progetto della “Grande Brera”, che faticava a portare a termine, decide di raccogliere i propri interventi a stampa sul museo scritti in più di vent’anni. Insieme a Fiorella Minervino, che era sua assistente in quegli anni, inizia a raccogliere i testi dal 1952 considerando come inizio della propria carriera all’interno dei musei l’attività milanese, seppure anche a Pisa si fosse occupato dell’apertura del Museo Nazionale di San Matteo e del riordino di Villa Guinigi a Lucca.

Franco Russoli con Giovanni Spadolini e Lamberto Vitali alla mostra Processo per il museo, 1977

Franco Russoli con Giovanni Spadolini e Lamberto Vitali alla mostra Processo per il museo, 1977

Cosa successe dopo?
Quando muore inaspettatamente all’età di cinquantaquattro anni il libro, che aveva già un testo della Minervino, uno dell’architetto Giancarlo Ortelli, autore del progetto per Palazzo Citterio, e un’introduzione di Cesare Gnudi, non viene realizzato. La vedova, infatti, scontenta di Einaudi, che non aveva in programma di pubblicare altre raccolte dei testi del marito, passa velocemente a Feltrinelli, che le garantisce altre edizioni, mai diventate realtà, e pubblica nel 1981 solo il volume Il museo nella società. Analisi, proposte, interventi 1952-1977. Nell’archivio di Russoli si conservano le bozze della versione per Einaudi, diversa dall’edizione Feltrinelli, che ha una brevissima nota introduttiva di Vittorio Fagone e suddivide i testi in modo arbitrario. Il volume in origine ne prediligeva una riproposizione cronologica che ho voluto rispettare.

È molto interessante il rapporto che emerge dal suo ricco saggio introduttivo tra Russoli e Fernanda Wittgens, che lo ha preceduto alla guida di Brera, e che sembra ispirare in qualche modo quell’idea di un museo come “centro di vita intellettuale o palestra di discussione” alla base del lavoro di Russoli fino alla fine. Ce ne può parlare?
Il rapporto con la Wittgens è uno degli aspetti più interessanti e analizzandolo si comprendono meglio e più a fondo le azioni di Russoli successive alla morte della direttrice. Era una donna molto forte e decisa e aveva tracciato un solco importante che andava nella direzione di un museo diviso tra didattica e ricerca, che Russoli persegue, ma non ottusamente. Se si guarda infatti nello specifico alle attività che metteva in pratica la Wittgens per rendere il “museo vivo”, si vedrà come, pur essendo iniziative originali, non hanno ancora quella portata di cambiamento che ha invece la proposta di Russoli. Ma è lei stessa a lanciare il museo verso la modernità, predisponendo la propria successione e scegliendo di mettere a capo di un museo nazionale un vivace trentaquattrenne; lo stesso a cui aveva deciso di fare curare catalogo e ordinamento dell’esposizione su Picasso tenutasi nel 1953 a Palazzo Reale.

Una scelta decisiva.
Fu proprio quella scelta a differenziare la mostra milanese rispetto all’edizione romana, curata dal vecchio Lionello Venturi. La forza di Russoli è raccogliere i suggerimenti, ma continuare ad aggiornare queste idee. Il punto di arrivo del ragionamento di Russoli, che vede nel museo un centro culturale, una kunsthalle, prende forma negli Anni Settanta e guarda al Centre Pompidou a Parigi, un quartiere delle arti che, con qualche aggiustamento, vorrebbe riproporre a Brera. È ormai un ragionamento europeo con radici ideologiche marxiste, e non più americane, come era invece stato per la Wittgens negli Anni Cinquanta.

Franco Russoli, Senza utopia non si fa la realtà (Skira, 2017)

Franco Russoli, Senza utopia non si fa la realtà (Skira, 2017)

È stato Russoli, per primo, a parlare di una “grande Brera”, una formula oggi quanto mai abusata. Cosa voleva dire per lui e cosa vuole dire oggi?
La “Grande Brera” di Russoli ha origine nella primissima riapertura, nel 1946, del museo che Ettore Modigliani chiama “piccola Brera”; negli Anni Settanta, quando il direttore di Brera è alla ricerca di uno slogan che renda più attraente la sua proposta durante un convegno parla per la prima volta di “una grande Brera, chiamiamola così”, e da quel momento utilizza questa espressione credo più che altro perché si accorge che faceva molta presa, non a caso la si usa ancora oggi, per lo più a sproposito. Per lui “Grande Brera” significava un museo aperto, che si confrontava con la realtà coinvolgendo il pubblico di fasce sociali e interessi culturali diversi.

Quali furono le evoluzioni successive?
Con l’acquisto di Palazzo Citterio da parte dello Stato nel 1972, Russoli può finalmente immaginare concretamente il museo che vuole realizzare e decide di creare uno spazio che consenta alla Pinacoteca di crescere rappresentando anche l’arte del Novecento. Nel nuovo edificio, che non è mai stato completato, Russoli voleva esporre le collezioni Jucker, Jesi e Mattioli, di cui si era garantito i legati, e le fondazioni Lucio Fontana, Marino Marini, Renato Guttuso e altre che avrebbero reso il museo vivo, non solo perché partecipato, ma anche, dal punto di vista della produzione artistica, trasformandolo in un luogo che veniva visto non solo come luogo di conservazione, ma un centro di sperimentazione dell’arte contemporanea.

Russoli aveva capito benissimo che “conservare” vuole dire “interpretare”. Che la modalità con cui un’opera è custodita ed esposta in un museo ne offre agli spettatori una chiave interpretativa. Aveva sotto gli occhi recenti allestimenti su cui ragionare, come quello della Pietà Rondanini al Castello Sforzesco, per lui inadatto alla libera fruizione e a una comprensione piena di quest’ultimo lavoro di Michelangelo. E non perdeva mai di vista le novità che giungevano dai musei stranieri, americani e francesi soprattutto, con la piena consapevolezza della responsabilità, civile e morale, che un direttore e un curatore di museo si devono caricare sulle spalle. Un esempio virtuoso che è bene ricordare.
Fin da subito Russoli non aveva condiviso la quinta frammentaria che lo studio BBPR aveva realizzato per la Pietà Rondanini e in uno dei testi dedicati alla riapertura del Castello Sforzesco nel 1956 dice esplicitamente che avrebbe preferito uno spazio molto più simile a quello in cui si trova oggi esposta la scultura di Michelangelo. Anche lo scultore Henry Moore, amico di Russoli e coinvolto, insieme ad altri artisti, nella mostra Processo per il Museo, per la quale aveva realizzato dei d’après tratti dalla Pietà di Giovanni Bellini, la pensava come lui e lo dice in un’intervista degli Anni Settanta. Questo mette in luce un punto delicato del pensiero di Russoli che non amava nei musei gli interventi troppo egocentrici di certi architetti che preferivano mettere in primo piano se stessi piuttosto che le opere d’arte. Bisognava, secondo lui, trovare un equilibrio tra il desiderio di colpire lo spettatore e quello di istruirlo.

A partire dai temi trattati, come quello della Pietà Rondanini per esempio, oggi liberata, dopo mille polemiche, dalla gabbia creatale intorno dagli architetti BBPR, alla “grande Brera”, alle riflessioni su come fare dialogare edifici espositivi centenari con opere contemporanee, lontane dalla loro storia, ai richiami sullo stato di abbandono delle ricchezze artistiche del nostro Paese, gli scritti di Russoli appaiono di sconcertante attualità. Forse per questo si è sentita la necessità, a quarant’anni dalla sua morte, di rieditare questo libro.
Si, è esattamente questo il motivo. Stavo facendo la mia tesi di dottorato su Russoli, misconosciuto ai più persino a Milano, quando a Brera è arrivato James Bradburne. Dopo tutte le polemiche che ci sono state sulle nomine degli stranieri alla direzione di alcuni dei più importanti musei nazionali bisogna riconoscere allo “straniero” di essere l’unico direttore che ha compreso la portata rivoluzionaria del progetto. A distanza di quarant’anni dalla morte di Russoli finalmente è arrivato un direttore che sembra determinato a portare a termine il progetto della “Grande Brera”, con la previsione di inaugurare Palazzo Citterio nel 2018 essendosi garantito per almeno due anni il deposito della collezione Mattioli che abbiamo rischiato di perdere e che è una collezione d’arte moderna tra le più importanti in Italia. Bisogna però dire che i testi sono di grande attualità sia per merito di Russoli, che era un visionario coraggioso e fattivo, sia perché, stranamente, Milano è rimasta da questo punto di vista quasi congelata per quarant’anni. È anche per un nostro demerito quindi che le sue parole fanno ancora oggi tutta questa presa sulla realtà.

Stefano Bruzzese

Erica Bernardi (a cura di) – Franco Russoli, Senza utopia non si fa la realtà. Scritti sul museo (1952-1977)
Skira, Milano 2017
Pagg. 280, € 38
ISBN 885723537
www.skira.net

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