Agostino Ferrari – Nuove dimensioni del segno

Informazioni Evento

Luogo
C+N CANEPANERI
Foro Buonaparte 48 20121, Milano, Italia
Date
Dal al

lunedì – venerdì: 11-12.30 – 15.00/18.30

sabato su appuntamento

Vernissage
27/09/2016

ore 18

Artisti
Agostino Ferrari
Generi
arte contemporanea, personale
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La galleria C+N Canepaneri è lieta di presentare la mostra personale di Agostino Ferrari Nuove dimensione del segno.

Comunicato stampa

Un’antica favola walser narra di una buona fata che, pregata da due bambini di concedere l’acqua pura al loro povero villaggio, compie un gesto interessante: con la sua bacchetta magica (o da rabdomante) traccia un segno per terra e facendosi seguire dall’acqua che ne riprende punto per punto il percorso, ad un certo punto percuote con forza il terreno e ne fa scaturire una copiosa sorgente che infrange la virtualità della linea e precipita nel reale.
Il segno dunque, che l’impostazione narrativa vuole dotato di potere magico, qui non segue ma invece determina il flusso dell’acqua, docile come un obbediente cagnolino che segue il suo immateriale padrone.
Non troppo diversa, in fondo, l’idea elaborata nei decenni da Agostino Ferrari attraverso un segno, non magico ma evidentemente artistico, identificato da moltissimo tempo come protagonista di una ricerca e di una relazione il cui altro termine è lo spazio.
Prendiamo, per esempio, la lunga esperienza intitolata Interno-Esterno, i cui risultati più recenti sono presentati adesso in questa mostra. Si tratta di una stagione che si protrae da molti anni e che sintetizza l’intera riflessione creativa dell’artista articolata intorno a un segno plastico e dinamico, vigoroso e consistente grazie alla sabbia che lo riveste e lo rende in qualche modo “materiale”.

Questo segno, elaborato sempre a partire da fragili ed eleganti maquettes tridimensionali, si dispone attraverso la superficie pittorica determinando lo spazio intorno a sé ed al suo corso flessuoso, invertendo così i termini di una relazione secolare che, nel contesto dell’arte occidentale da Giotto in avanti, ha sempre anteposto lo spazio alle forme, lo spazio alla storia. Qui invece lo spazio, obbediente ed elastico come il misterioso flusso d’acqua della favola walser, prende forma, profondità e leggibilità intorno alle volute nelle ombre e nei tuffi del segno, si divide in un “qui” e un “lì”, un vicino e un lontano, un interno e un esterno. Attributi, questi, che sono rimasti per molto tempo limitati alla superficie pittorica e alle connotazioni della rappresentazione benché, grazie al sapiente uso dell’ombra e della sabbia vulcanica, Agostino Ferrari abbia conseguito un risultato quasi iperrealista; tuttavia anche questo antico, anzi atavico limite caratteristico, in ultima analisi, dello stesso linguaggio della pittura, gli è diventato progressivamente più stretto, tanto da suscitare un’incursione, che ormai è diventata una specie di habitus, nei territori dello spazio reale. I recenti rilievi in lastre metalliche colorate costituiscono esattamente il superamento della condizione rappresentativa a favore della sua realizzazione nei termini della nostra esperienza, del nostro spazio. Ma, anche in questo caso, è ancora e sempre il segno l’artefice delle forme, delle dimensioni e persino dell’aspetto e del colore di queste quinte, squarci, irregolarità e incursioni nell’al-di-qua o nell’al-di-là del velo della superficie.
Il segno - attore dell’opera implica un tempo interno, una specie di esperienza, un percorso, un prima e un dopo, vale a dire una provenienza e un destino, che sia là, in quello squarcio oscuro che tante volte Agostino Ferrari ha descritto come metafora dell’ignoto, del possibile, dell’inespresso inteso non come minaccia ma piuttosto promessa, oppure qua, in questa luce diffusa, diurna e prevedibile che costituisce il nostro hic et nunc, il termine visibile del nostro esserci.
C’è, talvolta, persino un’attitudine didattica da parte di Agostino Ferrari, un bisogno di ordinare i lemmi di questo suo linguaggio attribuendo al segno, di volta in volta, una connotazione fisica (il metallo, in questo caso, fuoriesce dalla superficie come la sorgente dalla roccia percossa dalla fata), oppure simbolica (il segno è qui solo delineato con la sabbia sulla superficie) oppure ancora di segno-memoria (quando è intagliato nella superficie). Si tratta dunque, articolando ancora queste parole scelte da Ferrari, di realtà, di rappresentazione e nuovamente di realtà ma questa volta connotata sentimentalmente, dal ricordo; oppure, se si preferisce, di positivo, di neutro e di negativo, oppure ancora di presente (il segno aggettante), di possibile (il segno delineato) e di passato (il segno scavato, l’impronta).

Anche questo, in fondo, è un recupero del momento denominato Teatro del segno e riferito ormai a quasi mezzo secolo fa; un momento dalla forte marcatura concettuale in cui l’artista, protagonista di quella Milano dove si susseguivano a ritmo incalzante le elaborazioni di Fontana, di Manzoni, di Castellani e altri, aveva deciso di discendere all’alfabeto minimo della sua ricerca compromettendone, temporaneamente, anche la valenza pittorica. Qui, adesso, la conoscenza del segno, conseguita in quella fase, riaffiora come un lessico di certezze da associare alla recente libertà, alla felicità di questo prendere forma dello spazio e delle sue implicazioni che investono il futuro del segno stesso ma anche dello sguardo.
Prendendo le mosse, come giovane artista, dal superamento della superficie che Lucio Fontana aveva ottenuto con i “tagli”, Agostino Ferrari decide invece di assegnare al segno la parte di protagonista di una ricerca che, senza rinunziare alla pittura, la mette però nelle condizioni di raccogliere le continue sfide proposte dal lavoro di tutta l’arte programmata, cinetica e analitica a lui contemporanea, senza perdere un soffio della sua vitalità naturale; arrivando, alla fine, a invertire il problema, ricostruendo lo spazio reale non oltre, cioè dalla destituzione della superficie pittorica a favore dell’oggetto-quadro, ma qui, dallo sgretolamento della valenza a-prioristica di quella stessa superficie attraverso i percorsi o, se me lo si consente, “l’esperienza” del segno, sempre provvisoria e aperta. Come la vita, come il presente

Martina Corgnati