Young Italians. Dodici artisti italiani in mostra a New York

A mezzo secolo dall’omonima mostra curata da Alan Solomon, l’Istituto Italiano di Cultura di New York alza il sipario su “Young Italians”. Offrendo uno spaccato dell’arte nostrana contemporanea. Abbiamo intervistato i protagonisti.

Apre oggi, 25 settembre, a New York, in occasione del 50esimo anniversario dell’omonima mostra a cura di Alan Solomon, tenutasi nel 1968 all’Institute of Contemporary Art di Boston e al Jewish Museum di New York, Young Italians. La collettiva di dodici artisti italiani a cura di Ilaria Bernardi è prodotta da Magazzino Italian Art e Istituto Italiano di Cultura di New York. La selezione, tutta under quaranta, porta in mostra le opere di Davide Balliano, Danilo Correale, Irene Dionisio, Antonio Fiorentino, Silvia Giambrone, Domenico Antonio Mancini, Elena Mazzi, Luca Monterastelli, Ornaghi & Prestinari, Gian Maria Tosatti, Eugenia Vanni e Serena Vestrucci,
La mostra non ha la pretesa di essere esaustiva sullo stato dell’arte italiana e si concentra su una visione curatoriale che individua due linee guida, chiamate I(n)-Arte e I(n)-Realtà, e un denominatore comune, che è quello dell’ereditarietà intesa come “riappropriazione soggettiva del proprio orizzonte culturale”.
Il comunicato stampa chiarisce come “gli artisti in mostra analizzano e rispondono al critico clima sociale e politico italiano di oggi, ma si confrontano e mutuano anche il patrimonio culturale dell’Italia, vivendo infatti in un presente dove non c’è soluzione di continuità con il passato. Sono pertanto consapevoli della loro storia alla quale fanno riferimento per cercare di conferire un ulteriore senso al loro operare”.
Proprio a partire dalle considerazioni sul passato e sul presente dell’Italia, a ognuno degli artisti abbiamo posto le seguenti domande:

Qual è per te il concetto di “patria”? Che rapporto hai con gli Stati Uniti?

L’ereditarietà è la traccia che emerge con forza dal concept di questa mostra curata da Ilaria Bernardi in omaggio a quella di Alan Solomon. Pensi anche tu, come Telemaco, che dal “mare arrivi sempre qualcosa”?  Che rapporto hai con il passato?

Come l’opera che porti in mostra può considerarsi identitaria rispetto all’Italia? E come il concetto di identità si concilia con l’alterità?

DAVIDE BALLIANO

Davide Balliano, Senza titolo_0080, 2018. Olnick Spanu Collection, New York. Photo Dario Lasagni. Courtesy Olnick Spanu Collection, New York

Davide Balliano, Senza titolo_0080, 2018. Olnick Spanu Collection, New York. Photo Dario Lasagni. Courtesy Olnick Spanu Collection, New York

Non ho particolare affetto per il concetto di patria. Lo trovo un termine che, nella storia e oggi nuovamente, si è generalmente accompagnato a nazionalismi, divisioni e conseguenti violenze. Sento più vicina l’idea di terra. Una terra da cui provenire, non a cui appartenere né tantomeno possedere. Un luogo da condividere e in cui accogliere, mettendo radici se e quando al lavoro corrispondono i frutti. Con gli Stati Uniti ho un rapporto complesso, quanto controversa e contrastata è la loro storia e identità. È un luogo che ha contribuito e continua a contribuire enormemente alla causa umana, ma che ha anche pesanti responsabilità nei lati più bui della storia mondiale moderna. La mia relazione romantica comunque è sempre stata e rimane con New York, più che con gli Stati Uniti.

Penso assolutamente che dal mare arrivi sempre qualcosa; generalmente arriva il futuro, il cambiamento. Il passato mi affascina enormemente, soprattutto perché, a differenza del futuro, offre certezze, esperienza, storie e insegnamenti. Sono una persona generalmente ottimista e il futuro per me significa evoluzione, comprensione e progresso. Del futuro amo il mistero e la speranza, ma del passato apprezzo la solidità e la costante disponibilità al dialogo.

Il mio lavoro non è altro che un tentativo di capire più a fondo me stesso, penso sia quindi impossibile separarne le radici da quelle che sono le mie. L’architettura e la natura del luogo in cui sono cresciuto rimangono le fondamenta della mia ricerca; un senso discreto di austera eleganza che mi piace immaginare sia parte dell’identità sabauda da cui provengo.
L’armonia tra la bellezza della precisione formale e la violenza del tempo sono una parte fondamentale del mio lavoro, e penso siano centrali alla natura stessa del nostro Paese.
Identità e alterità non sono che due lati della stessa medaglia. Non c’è identità senza differenza. La nostra identità ci viene data dagli altri, non ce la inventiamo noi.
Siamo esseri affamati di confronto e socialità e un’identità ben definita, che garantisca solide fondamenta a una vita, passa sempre per il rispetto delle altre identità, nel riconoscimento delle loro differenze.

DANILO CORREALE

Danilo Correale, La superficie del mio occhio è più profonda dell’oceano), 2011, still da film. Courtesy l’artista. Photo courtesy l’artista

Danilo Correale, La superficie del mio occhio è più profonda dell’oceano), 2011, still da film. Courtesy l’artista. Photo courtesy l’artista

Un’astrazione che andrebbe riscritta, perché troppo spesso associata con il rapporto “privilegiato” che si instaura con essa. Ci ha provato a decostruirla e riscriverla l’anarchico Ulisse Barbieri quando affermava: “Ma non capite, o branco di cretini, che i veri patrioti sono gli abissini?”. È il paese in cui ho deciso di vivere, una nazione nella quale, nonostante tutto, percepisco ancora la presenza di una certa porosità culturale in grado di generare un dialogo inter-generazionale.

Credo il mare (così come la terra) non siano solo zone di vita ma soprattutto zone di transito, un elemento del quale nessuno si può appropriare né materialmente né idealmente. Allo stesso modo il passato ha bisogno ora più che mai di contro-narrazioni, insomma viviamo in un tempo nel quale il passato contamina ancora il presente e il futuro fatica a farsi strada.

In qualche modo The surface of my eye is deeper than the ocean è legata all’immaginario italiano, se non altro nella sua forma. Non la limito però a un’unica categorizzazione, l’opera parla di felicità e desideri sintetici, di status e speculazione. Tutto questo viene declinato attraverso uno sguardo il più possibile teso a raccontare la moltitudine, facendolo per mezzo di una narrazione proiettata sull’individuo.

IRENE DIONISIO

Irene Dionisio, NÜI I SÚMMA QUI, dalla serie Piccola Patria, 2016. Galleria Moitre, Torino

Irene Dionisio, NÜI I SÚMMA QUI, dalla serie Piccola Patria, 2016. Galleria Moitre, Torino

Come cittadina di un mondo iperglobalizzato non sono legata a un concetto di patria inteso come culto o sentimento glorioso, così come la mostra Young Italians non è legata assolutamente al concetto di patria e di esaltazione nazionale, ma vuole piuttosto sottolineare le peculiarità e le conseguenze dell’attuale complessa e critica situazione socio-politica e culturale italiana sulle nuove generazioni e quanto gli artisti si facciano carico di tutto ciò per cercare possibili alternative. L’opera che porto in mostra, Piccola Patria, lo racconta a mio avviso nel migliore dei modi. La necessità di un sentimento di appartenenza oscilla tra l’esigenza umana e comunitaria e la paura di ciò che arriva da fuori. Nell’opera, che racconta come il frazionismo politico sia rispecchiato dalle infinite declinazioni del linguaggio, il collocarsi diviene un atto politico. Come scrive Pacuvio, citato da Cicerone (Tusc. 5, 37, 108), “patria est ubicumque est bene”. Un collocarsi egoistico, ma a volte il solo che ci viene concesso in un mondo in perenne cambiamento.
Ho avuto la fortuna di incontrare il pubblico americano nel giugno 2017. Con la mia opera prima cinematografica, Pawn Streets, ho partecipato durante Open Roads all’American Lincoln Center alla kermesse sulla migliore produzione cinematografica della scorsa stagione. Un meraviglioso incontro con il pubblico di New York. Young Italians è la mia prima mostra negli Stati Uniti.

Assolutamente fortissimo sia per gli studi pregressi in filosofia della storia sia per Il mio percorso di ricerca artistico. I miei lavori si muovono sempre da ricerche storiche e d’archivio per poi riflettere su idiosincrasie e ambiguità storico-politiche. La Storia come luogo di incubazione del presente è un enorme serbatoio di storie e interrogativi da cui attingere. Il lavoro Piccola Patria ha proprio preso vita durante una residenza d’artista in Alta Valle Cervo, in Piemonte, a cura di Arteco, in cui mi sono confrontata con il materiale d’archivio legato alle valli e all’emigrazione che le ha caratterizzate. Le dinamiche migratorie legate alla rappresentazione del territorio sono state fondamentali per comprendere al meglio quando e perché la Valle è divenuta attraverso il linguaggio e l’arte un locus amenus in cui ritornare e da esaltare in maniera nostalgica. Le ragioni della nascita dell’appellativo “Piccola Patria”, che veniva utilizzato per evocare la Valle, risiedono proprio nell’evoluzione della rappresentazione che gli emigrati stessi ne facevano con le mappe e poi in secondo luogo con il linguaggio.

L’opera lavora proprio sull’ambiguità identitaria tipica del frazionismo politico che ha sempre avuto terreno fertile nel nostro Paese e in questo modo tenta di incarnarne lo spirito dei tempi, così come si propone di fare la mostra. È un’opera dalla lettura aperta, i cui confini sono al contempo angusti e illimitati. In questo tenta di raccontare una spinta paradossale – tra identità e alterità ‒ che attraversa il Paese, in una sorta di cul-de-sac epistemologico, ma anche visivo.

ANTONIO FIORENTINO

Antonio Fiorentino, Dominium Melancholiae, 2013-18. Cassina Projects, New York. Photo courtesy Cassina Projects, New York

Antonio Fiorentino, Dominium Melancholiae, 2013-18. Cassina Projects, New York. Photo courtesy Cassina Projects, New York

Non posso rilasciare interviste perché non ne ho mai rilasciate, per scelta e principio.

SILVIA GIAMBRONE

Silvia Giambrone, Testiere, 2015. Courtesy l’artista e Studio Stefania Miscetti, Roma. Photo courtesy l’artista e Studio Stefania Miscetti, Roma

Silvia Giambrone, Testiere, 2015. Courtesy l’artista e Studio Stefania Miscetti, Roma. Photo courtesy l’artista e Studio Stefania Miscetti, Roma

La questione della patria è una questione irrisolta e storicamente spinosa. Difficile esprimersi in merito senza richiamarsi a una etica della patria stessa, perché la Storia ci insegna a diffidare di tutto ciò che offre derive di compiuta e collettiva alienazione. 
Per la mia esperienza personale, che è anche l’esperienza di una generazione che ha lecitamente disertato i doveri nei confronti della patria, posso dire che, in questo lussuoso arbitrio contemporaneo, la patria ti sceglie, ti chiama a una vita comunitaria, a difendere spontaneamente i costumi, gli stili di vita, le contraddizioni e le virtù di una geografia che offre identificazioni dinamiche che possono diventare anche occasioni di condivisione e orizzonti collettivi. Il desiderio, di epoca in epoca, di geografia in geografia, cambia, e quando ci si ritrova a condividerne gli spazi si diventa ognuno la patria dell’altro, secondo principi condivisi di lealtà e tradimento. In questo senso una delle mie patrie dilette è senza dubbio il Mediterraneo.
L’esperienza di residenza che ho fatto a New York per sei mesi è stata di certo decisiva per il mio lavoro e mi ha offerto una crescita irredimibile anche dal punto di vista relazionale. Gli Stati Uniti ti mettono davanti alla possibilità concreta della tanto sospirata libertà, delle fatiche della democrazia, per mostrartene indistintamente i benefici, i sogni, gli orrori, le inaspettate metafisiche consumiste. Un aforisma ormai popolare dice che bisogna stare molto attenti a ciò che si desidera perché si potrebbe alfine ottenerlo, credo che gli Stati Uniti ti mettano bruscamente e concretamente davanti a questo azzardo.

Il passato è fatto di ere geologiche ma anche culturali ed emotive. Le stratificazioni sulle quali ci muoviamo, quelle che contribuiamo a edificare con il nostro movimento, sono la nostra forza ma anche il nostro epicentro. Il passato per me è archeologia che ci racconta, ci rivela, ci cattura. È una forza con cui rinegoziamo continuamente le possibilità del presente, è istanza inconscia in noi che è sempre anche epifania e occasione di cambiamento.

L’opera Testiere, una corrosione su zinco che mostra testiere di letti come fossero fantasmi che abitano la memoria, racconta di un tipo di rapporto con gli oggetti che è significativo della cultura italiana. Non che i fantasmi abbiano un passaporto, ma quelli italiani si distinguono perché sanno bene da quali ambiguità siano abitati gli oggetti domestici, quali proiezioni, eredità, missioni familiari, estetiche essi suggeriscano. Credo fermamente che il personale sia politico, ma che in Italia, malgrado tutto, il politico sia ancora anche estetico. L’identità è alterità.

DOMENICO ANTONIO MANCINI

Domenico Antonio Mancini, Per una nuova teologia della liberazione 04, 2018. Galleria Lia Rumma, Milano-Napoli. Photo Matteo Cremonesi. Courtesy Galleria Lia Rumma, Milano-Napoli

Domenico Antonio Mancini, Per una nuova teologia della liberazione 04, 2018. Galleria Lia Rumma, Milano-Napoli. Photo Matteo Cremonesi. Courtesy Galleria Lia Rumma, Milano-Napoli

C’è un concetto che preferisco a quello di Patria, è il concetto di Comunità. Entrambi si fondano sulla condivisione, sia essa della lingua, della tradizione, degli intenti. Ma la parola comunità ha d’interessante che al plurale rimane uguale e in un gioco linguistico è come se lasciasse aperta la porta alla condivisione di una pluralità di lingue, di tradizioni e d’intenti: esattamente come immagino debba essere strutturata una Patria. In questo senso gli Stati Uniti sono di certo un esempio di un luogo che si è costruito, e continua a ricostruirsi, sulla diversità.

Da italiano, e da napoletano in particolare, so bene come la mia cultura, la mia tradizione, si sia formata con l’incontro e a volte lo scontro duro con quello che “arrivava dal mare”. Il mio “passato” ha preso le mosse proprio dall’arrivo dei conterranei di Telemaco, gli Eubei di Calcide, che dopo aver fondato Cuma si spostarono più a est per fondare una nuova città, una Nea-Polis.

La mia opera in mostra si costituisce attorno a un oggetto che è simbolo della nostra identità nazionale: il dizionario della lingua italiana. Ma proprio il dizionario è il luogo della dinamicità della lingua: l’inserimento di parole nuove, l’eliminazione di quelle desuete rende il senso di come anche questa si adatti ai continui cambiamenti della comunità dovuti a nuove necessità, alle condizioni sociali mutate e spesso proprio all’incontro con l’altro.

ELENA MAZZI

Elena Mazzi, Colori alla fine del mondo, 2011. Courtesy l’artista e galleria Ex Elettrofonica, Roma. Photo courtesy l’artista e galleria Ex Elettrofonica, Roma

Elena Mazzi, Colori alla fine del mondo, 2011. Courtesy l’artista e galleria Ex Elettrofonica, Roma. Photo courtesy l’artista e galleria Ex Elettrofonica, Roma

Trovo che questa domanda porti con sé complessità difficili da articolare in poche righe, per cui preferisco rispondere con una bellissima citazione di Giorgio Gaber: “Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono“.
Sono stata negli Stati Uniti solamente per tre mesi, fra il 2012 e il 2015. Non li trovo politicamente interessanti, ma mi piacerebbe tornare, per vivere più a fondo New York e per esplorare gli immensi paesaggi.

Il passato è ciò che ci permette di capire il presente e, di conseguenza, di migliorare le nostre aspettative per il futuro. Dal mare arriva sempre qualcosa, certo.

Ora più che mai credo che l’opera proposta, realizzata nel 2011, si possa considerare identitaria (o anti-identitaria), nella sua critica tuttora così attuale. Il poster, realizzato all’epoca per un progetto nel territorio trevigiano (Neoespheria, interventi urbani all’interno di una vetrina per locandine cinematografiche), fa riferimento a una legge presentata dal partito della Lega Nord che aveva come obiettivo quello di vietare ai gestori di attività commerciali l’uso di caratteri che non fossero latini nelle scritte delle insegne pubblicitarie, evidente sintomo di una xenofobia crescente nell’area in questione. Le traduzioni, in arabo, cinese, macedone, serbo, ucraino, bangladese, hindi, tamil, greco e russo, rispecchiano le diverse nazionalità degli esercenti commerciali stranieri che in quegli anni operavano attivamente nella città di Treviso. Il titolo del lavoro, Colors at the end of the world, fa riferimento a un film/documentario del regista Ale Corte che narra gli abusi e i soprusi compiuti dall’internazionale casa di moda di origini trevigiane Benetton nei confronti del popolo Mapuche, in Argentina (tuttora in corso). Il poster intende offrire una prospettiva differente sulla dubbia apertura culturale e sociale che l’azienda tenta di far trasparire attraverso le sue operazioni mediatiche. A livello sociale, ora come non mai, questi temi sono ancora più dibattuti, confusi in un pressappochismo generale che non permette di andare a fondo nella conoscenza dell’altro, generando paura e terrore, e contribuendo a misinterpretare il concetto di identità.

LUCA MONTERASTELLI

Luca Monterastelli, Vero amore), 2017. Galleria Lia Rumma, Milano Napoli. Photo © Luca Monterastelli. Edith Ballabio, Courtesy Galleria Lia Rumma, Milano Napoli

Luca Monterastelli, Vero amore), 2017. Galleria Lia Rumma, Milano Napoli. Photo © Luca Monterastelli. Edith Ballabio, Courtesy Galleria Lia Rumma, Milano Napoli

Il senso di appartenenza che un artista può esprimere attraverso la partecipazione a una mostra collettiva non credo si espliciti in un sentimento patriottico, quanto piuttosto nel senso di simpatia che lui o lei possono sentire nei confronti del lavoro degli altri artisti presenti. È il caso di questa mostra, che mi pare sia stata costruita su delle possibilità di linguaggio che alcuni artisti della mia generazione stanno esprimendo. Credo in quello che gli individui hanno da dire e nella possibilità di dirlo a volte individualmente a volte a livello collettivo. Altre forme di appartenenza nazionalistica, sia in passato che ora, non hanno prodotto qualità artistica ma le derive che la storia ci ha mostrato.

La gestione del passato può diventare uno strumento pericoloso. Ogni elemento simbolico, nel momento del passaggio generazionale, deve essere ripesato e ricollocato nel presente, in modo da creare una sorta di redenzione rispetto all’uso propagandistico cui era destinato. Telemaco è una metafora interessante, a patto che si escluda la celebrazione dei padri, di una certa condizione contemporanea. Si deve provare non solo a resistere, a mio avviso, ma a rifondare sulla desolazione del presente.

Non credo che, come ho già detto, una sola opera possa racchiudere un concetto così scivoloso. Se si vuole vedere una costante bisogna estendere lo sguardo all’intero corpo delle opere. È comunque una domanda che richiederebbe uno spazio, per essere esaudita, infinitamente più grande rispetto quello che abbiamo qui a disposizione.
Per quanto riguarda l’identità, o almeno l’uso che se ne fa nel discorso pubblico, diventa spesso utilizzata come modo per discriminare e allontanare tutto ciò che è altro. Combattere questa propaganda autoritaria deve essere una priorità di chiunque si occupi di cultura al momento.

ORNAGHI & PRESTINARI

Ornaghi&Prestinari, Salvia, 2017. Courtesy Galleria Continua, San Gimignano-Beijing-Les Moulins-Habana. Photo courtesy gli artisti & Galleria Continua, San Gimignano-Beijing-Les Moulins-Habana

Ornaghi&Prestinari, Salvia, 2017. Courtesy Galleria Continua, San Gimignano-Beijing-Les Moulins-Habana. Photo courtesy gli artisti & Galleria Continua, San Gimignano-Beijing-Les Moulins-Habana

Per noi il concetto di patria è legato all’identità e alla gratitudine verso quanti, con il loro sacrificio, hanno conquistato le libertà di cui oggi godiamo. Poi la parola in sé non la useremmo ‒ così come non viene usata e non appartiene al concept della mostra, che indaga invece l’Italia non come patria ma come complesso e molteplice contesto culturale ‒, perché purtroppo risuona ancora dell’uso retorico che se ne è fatto.
Negli Stati Uniti siamo stati diverse volte da quando abbiamo fatto, nel 2016, la mostra con Magazzino Italian art.

Condividiamo il pensiero di Bruno Munari, da cosa nasce cosa. Il passato è un enorme patrimonio di esperienze da cui è possibile attingere.

L’opera che portiamo in mostra è nata a Faenza mentre preparavano una mostra a Santa Croce sull’Arno e contiene in sé una serie di stimoli che provengono da queste due realtà, oltre che dei riferimenti alla storia dell’arte italiana. L’identità è per noi il presupposto per lo scambio di crescita con l’altro. Solo portando ciascuno specificità e differenze è possibile crescere. Altrimenti il confronto diviene uno specchio, la rassicurante conferma di quanto già sappiamo. E ci sembra che la mostra sia in linea con il nostro pensiero.

GIAN MARIA TOSATTI

Gian Maria Tosatti, 5_I fondamenti della luce - archeologia (maschera da scherma e intonaco), 2015-16. Galleria Lia Rumma, Milano-Napoli. Photo © Gian Maria Tosatti. Courtesy Galleria Lia Rumma, Milano-Napoli

Gian Maria Tosatti, 5_I fondamenti della luce – archeologia (maschera da scherma e intonaco), 2015-16. Galleria Lia Rumma, Milano-Napoli. Photo © Gian Maria Tosatti. Courtesy Galleria Lia Rumma, Milano-Napoli

Ho scritto recentemente che l’Italia è un’espressione culturale. Vivo nel presente. Non posso non riconoscere con ferma lucidità che il concetto di Stato Nazione non ha più alcun senso e anzi, dovremmo affrettarci a sostituirlo con qualcosa di più preciso che non un semplice sentimento collettivo di reciproca appartenenza internazionale, che è comunque lo slancio più alto che sia reperibile in questo momento storico. 
Tuttavia l’Italia è qualcosa di profondo che attiene a una radice che non è presente, ma che è perpetua, come il Rinascimento, la cultura giuridica romana, la filosofia greca. A quell’espressione culturale non smetterò mai di appartenere. Ma essa è accessibile anche a chi è nato a New York da genitori irlandesi o a Ouagadougou, come tanti miei amici e collaboratori. Non posso però neppure tacere che il profondo clima di intolleranza e di ignoranza indotta nel mio Paese natale è quanto di più lontano da quella storia culturale e mi fa sentire oggi in grande disagio sul profilo umano e politico.
Ho vissuto negli Stati Uniti per dieci anni. Ho avuto molto da questo Paese, ma non dal Paese in sé, quanto dalle persone di tutto il mondo, americani compresi, che a New York hanno costituito una comunità che è la quintessenza di quell’internazionalismo che è oggi l’unica politica perseguibile ovunque. Ho lavorato molto e conosciuto persone straordinarie. Non ho amato il resto del Paese, che sta a New York come l’Italia sta a Napoli. Queste città sono isole nelle loro stesse nazioni, cento anni avanti a tutto il resto e forse anche di più. In questi posti mi sento a casa. E così è stato per New York e la sua dolcezza. Ho vissuto per dieci anni nella stessa strada, cambiando al massimo portone. Per due anni ho molti progetti europei e ci tornerò raramente. Mi mancherà, come mi è sempre mancata quando sono stato lontano per lavoro.

Dal mare arrivano i fratelli. Sempre. Come scriveva Pasolini. Dal mare arrivavano gli italiani che emigravano per costruire la parte migliore dell’America. Dal mare arrivano i figli dell’Europa che noi abbiamo voluto già secoli fa allargare fino in fondo ai limiti meridionali dell’Africa. Dal mare arriva sempre qualcuno che ha viaggiato più di noi e sa cose diverse da quelle che sappiamo noi. Con essi possiamo parlare delle altezze che abbiamo raggiunto e farci dare testimonianza di quelle raggiunte da loro. Il passato è questo, questo trasportare con noi un’eredità da condividere, di cui non essere gelosi.

È un lavoro che ha a che fare con un mio viaggio personale non intellettuale nell’Italia del terrorismo, degli sbagli, delle passioni laceranti, della femminilità che strappava il sipario, di Mina, delle lacrime, tante, del morire lontano nel tempo, del restare nel ricordo di chi invecchia, della sensualità di persone amate oltre ogni ragionevolezza. Nel 2015 mi sono immerso fisicamente in quello che restava di quel mondo, di quello slancio ideale, violento e gentile al contempo. Nelle ceneri di chi allora compiva errori e di chi ne era testimone silenzioso, addolorato, pieno d’amore. È un groviglio inestricabile e luminoso, come la storia del nostro Paese. L’Italia la raffiguriamo come una ragazza che indossa una corona di torri. L’Italia è sempre stata quella ragazza. A volte ha indossato una maschera da scherma, a volte un casco, a volte il disonore.

EUGENIA VANNI

Eugenia Vanni, Ritratto di tela di lino preparata, 2017. Courtesy Galleria FuoriCampo, Siena. Photo courtesy l’artista e Galleria FuoriCampo, Siena

Eugenia Vanni, Ritratto di tela di lino preparata, 2017. Courtesy Galleria FuoriCampo, Siena. Photo courtesy l’artista e Galleria FuoriCampo, Siena

Trovandomi in questo momento in Spagna, rispondo con una frase tratta da Fiesta di Ernest Hemingway, che ho messo in valigia per rileggerlo in questi giorni: “Non mi importava cosa fosse il mondo. Volevo soltanto sapere come viverci. Forse, se scoprivi come viverci, imparavi anche che cos’era.”. Questo per dire che il rapporto che abbiamo con i luoghi è relativo soltanto alle nostre esperienze e alla nostra pratica quotidiana.

Anche in questo caso l’ereditarietà è sempre legata alla prassi. Il “come” è quello che influenza maggiormente l’immagine e in Italia abbiamo e abbiamo avuto tanti “come” grazie alla nostra storia e alla nostra geografia.  Dal mare arriva sempre qualcosa mi chiedi?  Sì, ma per motivazioni molto più semplici di quanto crediamo: se anche la cultura seguisse la rotazione terrestre? Mi chiedo. Mi piace pensarlo. Perché l’aliseo spinge sempre da Gibilterra verso il nuovo mondo. E solo in alcune stagioni. Quindi più che il mare è il vento che determina le cose.

Come spesso dico, ogni Artista possiede quelle che chiamo “sensibilità originarie” che gli appartengono in modo involontario e che lo spingono a vedere una cosa rispetto a un’altra; per cui, sì, l’opera che porto in mostra vuole essere rappresentativa del mio vissuto rispetto alla storia dell’arte. La vera “identità” si concilia sempre con l'”alterità”, proprio perché nasce spontanea e plurale. La tradizione deve farsi frontiera, in una sorta di artigianato dell’immagine.

SERENA VESTRUCCI

Serena Vestrucci, Trucco, 2018. Courtesy l’artista & Galleria FuoriCampo, Siena. Photo courtesy l’artista & Galleria FuoriCampo, Siena

Serena Vestrucci, Trucco, 2018. Courtesy l’artista & Galleria FuoriCampo, Siena. Photo courtesy l’artista & Galleria FuoriCampo, Siena

Patria è dove ci si riconosce.
Degli Stati Uniti conservo un bel ricordo che risale a uno scambio gemellare tra scuole superiori per il quale ho vissuto due settimane a casa di una famiglia a Philadelphia. Era molto tempo fa.

Ovviamente non possiamo sottrarci al fare i conti con la Storia. Ritengo però che il passato sia equipollente al futuro, e cerco di pensarli insieme.

“Ai posteri l’ardua sentenza”.

Katiuscia Pompili

New York // fino al 1° novembre 2018
Young Italians
ISTITUTO ITALIANO DI CULTURA
2700 Route 9 Cold Spring
https://iicnewyork.esteri.it/iic_newyork/it/

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Katiuscia Pompili

Katiuscia Pompili

Nata a Catania, ha studiato a Napoli Conservazione ai Beni Culturali all’Università Suor Orsola Benincasa laureandosi con una tesi in arte contemporanea su Nan Goldin. Fa parte del gruppo di curatori usciti dalla scuola salernitana dei critici Angelo Trimarco e…

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