In mostra a New York le opere realizzate dai detenuti di Guantánamo. E forse nascerà un archivio

È in corso a New York una mostra di 36 opere realizzate dai detenuti del campo di prigionia di Guantánamo. La scelta delle forze militari statunitensi di chiudere anzitempo la mostra e distruggere i lavori “galeotti”, ha suscitato un polverone mediatico tale da spingere il Pentagono a valutare l’idea di creare un archivio per conservare i manufatti dei prigionieri

Se molte mostre fanno parlare di sé per la fama degli artisti coinvolti, la bellezza delle location in cui sono ospitate o per i dibattiti innescati da critici e curatori, capita a volte che alcune esposizioni si discostino da quelle a cui siamo usualmente abituati per tipologia di artisti e ragioni che hanno portato alla loro realizzazione. È il caso di Ode to the Sea: Art from Guantánamo Bay, mostra in corso al John Jay College of Criminal Justice di New York che presenta al pubblico una selezione di lavori artistici realizzati da ex e attuali detenuti del campo di prigionia statunitense della baia di Guantánamo, nell’isola di Cuba. Iniziativa, questa, che ha suscitato accese polemiche a livello mediatico e anche politico, coinvolgendo non solo il pubblico ma anche le alte sfere militari. Il motivo? La presunta decisione, presa dal Dipartimento della Difesa, di chiudere in anticipo la mostra e di incenerire le opere realizzate dai detenuti durante il periodo di prigionia.

GUANTÁNAMO BAY, LA “NOTA DOLENS” DEGLI STATI UNITI

Aperto nel 2002, all’indomani dell’11 settembre, sotto la presidenza di George W. Bush per la reclusione dei terroristi – o presunti tali –, il famigerato campo di prigionia statunitense situato a Cuba da quindici anni è al centro di accesi dibattiti internazionali per le dure condizioni di detenzione a cui vengono sottoposti i prigionieri. Barack Obama, durante la sua amministrazione, aveva promesso la chiusura del carcere, trovando però l’opposizione del Congresso. Ma sotto la sua presidenza, all’interno di Guantánamo sono state attivate lezioni d’arte per i prigionieri, con un “programma artistico che fornisce stimoli intellettuali per i detenuti e consente loro di esprimere la propria creatività”.

IL VALORE DELL’ARTE A GUANTÁNAMO

Inaugurata lo scorso 2 ottobre, Ode to the Sea presenta 36 dipinti e sculture realizzati da detenuti che sono stati o si trovano ancora a Guantánamo. La docente d’arte criminale Erin Thompson, che ha curato la mostra con Paige Laino e Charles Shields, ha dichiarato al The Guardian che l’esposizione di prefigge l’obiettivo di aiutare gli spettatori a riflettere sul modo in cui vengono visti i detenuti di Guantánamo. “Nell’era di Trump, che sta dicendo di voler espandere Guantánamo, la mostra ha ora uno scopo più attivista”, spiega Erin Thompson, “e sta dimostrando che la detenzione illimitata danneggia i detenuti e le persone che lavorano nella prigione”. La maggior parte delle opere in mostra rappresentano l’oceano e soprattutto il significato che esso assume nell’immaginario dei detenuti.

LA MOSTRA E LE POLEMICHE

Tutte le opere in mostra, prima della loro esposizione, sono state esaminate dai militari per “scovare” eventuali messaggi criptati nascosti. Molti lavori, infatti, recano il timbro “approved by US forces”. Allora perché il Dipartimento della Difesa avrebbe deciso di chiudere la mostra e distruggere i lavori realizzati dai detenuti? Sul sito web di Ode to the Sea è indicato un indirizzo e-mail rivolto a tutti coloro che sono “interessati all’acquisto di opere d’arte realizzate a Guantánamo da artisti che sono stati successivamente rilasciati”, azione “commerciale” che le forze militari statunitensi non hanno affatto gradito. I funzionari del Dipartimento della Difesa hanno dichiarato di non essere “a conoscenza del fatto che le opere d’arte dei detenuti venissero vendute a terzi”, specificando che i lavori realizzati all’interno del carcere sono di proprietà del governo degli Stati Uniti. La nuova posizione assunta dal Pentagono, ma soprattutto la prospettiva di distruggere i lavori artistici realizzati a Guantánamo, ha suscitato accese polemiche sui media e i social, culminate in una petizione online in cui viene asserito che dare a fuoco l’arte è un’azione propria dei “regimi fascisti e terroristici”, ma non “del popolo americano”. In attesa di una decisione definitiva, ma soprattutto per evitare ulteriori cicloni mediatici, le forze armate statunitensi starebbero prendendo in considerazione l’idea di archiviare e catalogare i manufatti realizzati dai prigionieri di Guantánamo, anziché destinarli agli inceneritori.

– Desirée Maida

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Desirée Maida

Desirée Maida

Desirée Maida (Palermo, 1985) ha studiato presso l’Università degli Studi di Palermo, dove nel 2012 ha conseguito la laurea specialistica in Storia dell’Arte. Palermitana doc, appassionata di alchimia e cultura giapponese, approda al mondo dell’arte contemporanea dopo aver condotto studi…

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