Messico. Intervista dalla capitale, a due mesi dal terribile sisma

Diverse scosse di varia intensità hanno messo in ginocchio alcune regioni del centro sud del Messico, le più forti con magnitudine di 8.2 ed epicentro in Chiapas il 7 settembre, e di 7.1 a Puebla il 19 settembre, causando solo nella capitale Città del Messico più di trecento morti e distruggendo interi edifici. Juan Villoro, voce autorevole e intellettuale messicano, ne ha parlato con noi.

A inizio novembre in tutto il Messico si celebra la Festività dei Defunti. Le case si riempiono di ofrendas: altari per accogliere i cari scomparsi, con i loro oggetti più amati; i cibi preferiti; bibite e acqua per placare la sete dell’anima dopo il cammino dell’aldilà; sale per purificarsi; fiori di cempasuchil per non perdere la strada all’andata e candele per illuminare quella del ritorno. È una festa antica e molto sentita. Già nella cultura preispanica la vita e la morte erano inseparabili. La dea Coaltlicue e la Calavera Catrina si trasformano in una compagnia quotidiana per i messicani fin dalle loro origini. La chiamano la Pelona (la capellona), la Huesuda (tutta ossa), la Igualadora (colei che rende tutti uguali) e con tanti altri soprannomi a volte un poco buffi, dati con affetto come si fa tra intimi, con chi si conosce bene. Sanno che può arrivare in qualunque momento e cercano di fare bella figura invitandola a una festa in suo onore.

CHI È JUAN VILLORO

Quella di saper trovare il carnevale in mezzo all’Apocalisse è una delle maggiori virtù dei messicani, dice Juan Villoro (Città del Messico, 1956). E per Apocalisse non intende solo gli ultimi disastri naturali occorsi, ma anche le piaghe che affliggono il Paese: violenza, narcotraffico, repressione, corruzione, fosse comuni e desaparecidos.
Una vita costellata da terremoti, libri e passioni, Villoro è oggi una delle voci più autorevoli del Messico. Dopo il sisma del 19 settembre è sceso in strada ad aiutare e, dovendo consegnare l’articolo che ogni settimana pubblica per la rivista con cui collabora il giovedì, ha scritto d’istinto e con urgenza una poesia che in pochi giorni ha fatto il giro del mondo, sintetizzando in un gesto la natura più umana del popolo messicano, capace di solidarizzare nei momenti più difficili, Il pugno in alto.
Sei tu quello che dice “città” per dire tu ed io / E Pedro e Marta e Francisco e Guadalupe. / Quello che da più di due giorni è senza luce o acqua. / Quello che ancora respira. / Quello che ha sollevato un pugno per chiedere silenzio. / E quelli che hanno prestato attenzione. / Quelli che hanno sollevato i pugni. / Quelli che hanno sollevato i pugni per sentire se qualcuno era ancora vivo. / Quelli che hanno sollevato i pugni per sentire se qualcuno era ancora vivo e hanno sentito un sussurro. / Quelli che non smettono di ascoltare.
Questi sono alcuni dei versi scritti da Villoro in quelle ore calde in cui i soccorritori continuavano a scavare e a sollevare il pugno per richiedere il silenzio nella speranza di ascoltare il mormorio della vita sotto le macerie.
Di fronte ai disastri, naturali o storici che siano, gli uomini hanno sempre risposto con atti e opere. L’azione e l’arte sono la nostra risposta all’universalità del male e del dolore”, aveva commentato Octavio Paz, tra i più influenti scrittori del XX secolo, Premio Nobel per la Letteratura, all’indomani del terremoto del 1985, accaduto uno stesso 19 settembre di trentadue anni prima con un bilancio ancora più tragico.
Anche Juan Villoro ci ha abituato al potere evocativo della parola nel suo essere espressa con ironia, empatia, linguaggio diretto, non avendo timore di testimoniare l’orrore quando lo si trova davanti ai propri occhi, rispondendo con l’arte e con l’azione. Proprio qualche settimana fa ha presentato a Umbria Libri il suo romanzo più noto: El testigo, Il testimone (premio Heralde, edito in Italia da Gran Via, tradotto da Maria Cristina Secci, premio AISI come migliore traduzione 2017) e ha discusso con noi di terremoti, letteratura, arte e memoria.

Juan Villoro. Photo Tamara Williams

Juan Villoro. Photo Tamara Williams

L’INTERVISTA

Ti sei più volte interessato alla Storia come lettura del presente che interviene sul passato per rivendicarlo e spiegarlo, nel tentativo di comprendere e modificare la realtà. Inoltre, la tua vita è stata costellata da terremoti di diversa entità. Cosa, secondo la tua esperienza, è stato possibile rivendicare oggi del terribile sisma che nel 1985 sconvolse il Messico? Alla luce di quest’ultimo del 2017, il tuo Paese cosa ha appreso e cosa deve ancora imparare?
Dal punto di vista della sopravvivenza, sono molte le cose che sono state apprese. Abbiamo un allarme sismico, sappiamo che ci sono zone di rischio e che è necessario cercare un “triangolo della vita” dove ripararsi durante il crollo, abbiamo bravissimi soccorritori specializzati. Però in Messico c’è anche molta corruzione e si continua a costruire edifici – e la cosa drammatica è che molti di questi sono scuole – secondo le logiche di speculazione edilizia presenti nel nostro Paese. Purtroppo la lezione a volte si apprende troppo tardi. Un terremoto è come un ispettore dell’onestà architettonica: compie la revisione che il governo non farà mai.

I lati positivi?
Siamo uno dei Paesi con la più alta densità di azioni di solidarietà compiute in caso di emergenza; allo stesso tempo, siamo uno dei Paesi con la minore organizzazione per fare in modo che questo istinto alla solidarietà possa durare. La nostra reazione civica funziona molto bene come impulso momentaneo e molto male sul lungo tempo.
Ampliando l’argomento in questione, mi sembra un peccato che la società che ha preso le redini della resistenza dopo il terremoto non sia capace di costruire una piattaforma cittadina che agisca politicamente alla stessa maniera. Questo dovremmo imparare. La vera sfida sarebbe costruire una specie di “partito del terremoto”, una opzione che incida permanentemente sulla vita pubblica.

Teatro zapatista. Photo Paula Mónaco Felipe

Teatro zapatista. Photo Paula Mónaco Felipe

Molti si sono riconosciuti nella tua poesia, facendosi forza e continuando a lottare per la vita nelle ore calde del disastro. Il pugno in alto dei terremotati di oggi, come quello dei rivoluzionari zapatisti degli Anni Novanta, come quello degli atleti delle Olimpiadi del ’68 e delle rivolte studentesche di quegli stessi anni – tutti eventi di cui sei stato testimone – hanno rappresentato gesti di grande coraggio per il Messico, e non solo. Cosa succederà adesso dopo questa catastrofe? Si genererà un vero cambio, come successe per gli eventi costellati dagli altri “pugni alzati”?
Sono un giornalista e consegno il mio articolo ogni giovedì. Il terremoto ci ha scosso tutti ed era difficile pensare ad altro due giorni dopo. Come molti, ero ossessionato dalle scosse e dalle loro conseguenze. Una delle cose da cui sono rimasto più colpito è stato il gesto compiuto dai soccorritori durante il salvataggio, il momento in cui i volontari delle brigate alzavano il pugno e tutti rispettavano il silenzio per cercare di ascoltare qualunque rumore che potesse far credere che lì ci fosse qualcuno ancora vivo. Questo gesto convertiva la vittima nell’autentica protagonista del momento. Quello di cui avremmo bisogno adesso sarebbe ampliare questo gesto a tutte le istanze della vita: ascoltare l’altro, quello che ha più bisogno, quello che ancora può avere qualcosa da dire ma viene ignorato per mancanza di visibilità e voce. Per un vero cambio di coscienza: è questo quello che l’intero Messico deve ricordare.

Un altro intellettuale messicano, Ignacio Padilla, purtroppo prematuramente scomparso, autore del saggio Arte y olvido del terremoto (2010), denunciò l’assenza di grandi romanzi e film che avessero come protagonisti il dolore e l’orrore del terremoto dell’85, evidenziando invece la stretta relazione con le arti visive. Nel suo saggio Padilla analizza la capacità critica per esempio nel lavoro di Gabriel Orozco, Mauricio Maillé, Sergio Toledano, Rubén Ortiz, Ulf Rollof, Eloy Tarcisio, Antonio Luquín, Germán Venegas, Enrique Metinides o collettivi come la Compañía de Luz y Fuerza o Semefo. Secondo te che responsabilità ha l’arte rispetto alla memoria e alla coscienza collettiva?
È molto difficile reagire immediatamente davanti a una tragedia. A partire da un testo di Sebald, Padilla fece un paragone tra la mancanza di narrativa messicana sul terremoto dell’85 e la difficoltà dei tedeschi di elaborare il proprio dolore dopo la Seconda guerra mondiale. La sua idea che i film e i testi sul terremoto siano stati pochi, in termini generali, è corretta, anche se in realtà, almeno per quanto riguarda la letteratura, ce ne sono stati alcuni notevoli: Temblores di Mario Huacuja, il racconto Oficio de temblor di Fabio Morábito, l’opera teatrale Las costureras di Estela Leñero, tra gli altri. Non posso giudicare la qualità di un mio testo, però l’argomento compare anche nel mio romanzo Materia dispuesta.
Il paragone di Padilla con il dopoguerra tedesco è interessante, però ha senso solo a metà, perché la Germania era zavorrata dal senso di colpa che, invece, non era quello che aveva potuto trattenere gli scrittori messicani. Per noi, forse più semplicemente, fu il timore di pensare di approfittare di una tragedia di cui nessuno era responsabile e davanti a cui tutti siamo rimasti sconvolti.

Hai fatto anche tu il medesimo ragionamento?
Nel 1985 ho concluso il mio libro Tiempo transcurrido, che racconta diverse storie accadute in Messico in un arco di tempo di diciotto anni: comincia con i movimenti studenteschi del ’68 e finisce alla vigilia del terremoto dell’85. Il libro finisce giusto lì. Mi sembrò davvero opportunistico parlare di quell’argomento in quel momento, perciò nel prologo ho scritto: “Diffido di coloro i quali nei momenti di pericolo hanno più opinioni che paura“. C’è bisogno di un coraggio speciale per affrontare la paura. Solo molti anni dopo, in Cile, nel 2010, quando sono sopravvissuto a uno dei peggiori terremoti della storia della Terra, sono riuscito a tornare sull’argomento, scrivendo il libro 8.8: el miedo en el espejo.
Durante l’ultimo terremoto, lo scorso mese a Città del Messico, come la maggior parte dei capitalini ho cercato di aiutare come ho potuto la gente che ne aveva bisogno: amici che hanno perso la loro casa sono venuti a vivere da me, ho partecipato a diverse riunioni per mettere insieme viveri e fare donazioni. Durante una pausa ho scritto il testo Il pugno in alto, come un appunto semplice dato dalle circostanze. Non avevo tempo per altro.
Tutto questo per dire che l’arte ha una grande responsabilità nei confronti della storia ma la memoria non si forma immediatamente e non procede in linea retta, avanza come il cavallo degli scacchi, saltando pezzi.

C’è qualche artista o opera che secondo te, citando il titolo di un tuo libro, sono “specchio retrovisore” del Messico? Che lo rappresentano o lo spiegano?
Parli di “specchio retrovisore” e questo mi riporta a un’idea: non si può andare avanti senza guardare indietro, il futuro dipende dalle origini. L’opera più interessante che ho visto ultimamente è un’opera “azione” teatrale delle comunità indigene zapatiste. Non è un’opera di “rappresentazione” ma la messa in scena delle loro necessità, richieste e desideri più concreti. Anche questa è arte messicana che però, normalmente, non si vede.
Sono stato alcuni giorni a Oventic, nella Sierra del Chiapas, e ho potuto assistere a questa messa in scena nella nebbia. Alcuni villaggi si sono espressi rappresentando se stessi. Sono intervenute solo le donne, il che è una grande novità in un Paese machista come il nostro. Una delle azioni è stata quella di fare apparire delle parole, sciolte, su cartelli sostenuti da donne diverse che, in una labirintica coreografia, si susseguivano fino a comporre un’unica frase che era un messaggio di appoggio a Marichuy Patricio, indigena che lotta come candidata indipendente alla presidenza del Paese.
L’idea d’insieme, almeno per me, era quella di rappresentare l’enorme sforzo collettivo che ci vuole per arrivare ad uno slogan, un obiettivo, una visione comune. Questa speranza, sorta da chi meno possiede, è una lezione per l’intero Paese.

– Mercedes Auteri

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Mercedes Auteri

Mercedes Auteri

Mercedes Auteri (Catania, 1977) ha conseguito un Dottorato di ricerca in Storia dell'Uomo, delle Società e del Territorio, con tesi storico-artistica, e un Master in Turismo Culturale Sostenibile e Comunità Locale, con tesi in Museologia. Ha frequentato la Scuola Interuniversitaria…

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