Un’estate no. L’editoriale di Marco Senaldi

L’inverno è alle porte e noi pubblichiamo un ricordo d’estate di Marco Senaldi. Due uomini in due case diverse, dirimpettaie. Due vite che non si incontrano e una miriade di domande destinate a restare senza risposta. Forse.

Ogni volta che finisce, senti che un pezzo di vita se n’è andato. Eppure, è così. Tra tutte le stagioni, questa è l’unica che ci ricordiamo distintamente, che nel catalogo degli eventi si associa sempre a qualcosa di indimenticabile. Difficile sentir dire: “Ti ricordi quell’autunno che rimanemmo senza benzina in autostrada….?”. Invece per l’estate è regolarmente così: ciascuna si collega mentalmente a un evento, un ricordo, un dramma – o una comica: “L’estate in cui abbiamo dipinto casa”, “L’estate quando siamo andati in Perù”, “L’estate quando ci siamo ammalati tutti”, “L’estate del 2003…”.
Sarà l’età, sarà uno scherzo di prospettiva, ma estati come una volta non ne fanno più. Questa, poi, non è stata esattamente un idillio: se ieri era paradossale vedere la gente stare spensierata sulle stesse spiagge che per altri erano l’ultimo lembo di terra dove sopravvivere (o tante volte per morire), stavolta, gli stessi che si divertivano sono anche quelli che magari sono finiti schiacciati da un TIR assassino o sotto macerie corrotte.
Io, per questioni di scrittura, quest’estate me la sono passata tutta davanti al computer, nella stessa stanza, per dieci ore al giorno, quasi senza alzarmi, senza nessuno intorno (famiglia spedita dalla suocera, come nelle migliori tradizioni), nella città letteralmente abbandonata. “Così non mi distraggo”, avevo proclamato.

Ma non avevo calcolato lui. Chi sia veramente, non lo so. Perché sia confinato nell’appartamento dirimpetto, nessuno può dirlo. Ma basta chiedere in giro e, sentendo parlare di “misure alternative alla detenzione”, si capisce subito che uno che resta per mesi filati blindato in un bilocale non lo fa certo per divertimento. E lui non esce. Mai.
Dall’angolo di finestra che vedo, anzi, pare messo peggio di me. Nel senso che è perennemente davanti a quello che presumo sia uno schermo (tv niente, radio nemmeno; mai l’eco di uno stupido jingle, mai il conforto di una musica). Silenzio. Ma un silenzio non bello, greve anzi, carico di rabbia repressa e senza possibilità di sfogo. A meno che “lui” non sia impegnato in conversazioni di carattere indefinibile, o in scoppi d’ira che non si capisce siano rivolti a un invisibile nemico oppure verso un interlocutore reale (si muove nelle due stanzette, ma da quello che posso scorgere, non capisco mai se ha l’auricolare oppure per disperazione parla da solo). Dico “parla”, ma è un’ipotesi: l’idioma in cui si esprime non è che ha poco della lingua italiana, ha poco della lingua umana in generale: è una specie di phoné genericamente campana, ma abbrutita da un susseguirsi di stupri acustici che non la fanno assomigliare più a niente, e tantomeno a quella che i miei amici napoletani chiamano, a ben giusto titolo, “la lingua”.

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Di questo borbottio incomprensibile, che a tratti diventa esplosione, furia, fino a farsi minaccia, imprecazione, insulto, non si distingue niente, se non lacerti incompleti, e sempre scossi da recriminazioni intimidatorie: “Ijo, Ijo…. A mme, m’avete abbbandonato, a mme…”.
Mai, non dico una risata, ma un tono meno aggressivo; mai, non dico una parola serena, ma almeno un tono normale; ogni tanto penso che dentro quei trenta metri quadri circoli una tale densità di rancore, di odio, di voglia di vendetta, che da sola farebbe stramazzare un cavallo.
Che dire. “A sapertelo spiegare, che filosofo sarei” (Baustelle). Se fossi un artista, non ci penserei un secondo: impossibile non farci un video, 24 hours psycho, direi, da mandare in loop: peccato che il titolo sia già preso. (E forse pure l’idea: anche se invece che di “Rear” si tratta di una “Front” Window).
Ma è una fantasia che mi passa subito. E non perché non me la senta: è che la cosa evidenzia proprio il classico “tocco di Re Mida” dell’arte, capace di farti vedere qualunque cosa, ma necessariamente trasfigurandola, appunto, in arte – esponendola e, quindi, inevitabilmente, tradendola. “Exposer”, diceva Duchamp assomiglia a “épouser”: non il massimo, per un “celibe”.
Niente. Ci rinuncio. Continuo a lavorare, dal mattino a notte fonda. E lui lì, uguale. Esistenzialmente, ma anche, esteticamente, intraducibile – di fronte a un monitor girato di cui non saprò mai nulla.
Finché una sera non gli sfugge un’esclamazione un po’ meno brutale: “Ma che, tenevi colore, e non me l’hai detto?”.
Mah. Benedetto poker online.

Marco Senaldi

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #33

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Marco Senaldi

Marco Senaldi

Marco Senaldi, PhD, filosofo, curatore e teorico d’arte contemporanea, ha insegnato in varie istituzioni accademiche tra cui Università di Milano Bicocca, IULM di Milano, FMAV di Modena. È docente di Teoria e metodo dei Media presso Accademia di Brera, Milano…

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