Nove storie sulla tappezzeria. Gropius e van Doesburg

Luigi Prestinenza Puglisi inaugura un nuovo ciclo di approfondimenti, usando il concetto di “tappezzeria” come bussola, declinandolo secondo il linguaggio della pittura e dell’architettura. Si comincia con la storia di un legame professionale travagliato, quello tra Walter Gropius e Theo van Doesburg.

DALL’AMICIZIA ALLO SCONTRO
Chi leggerà queste nove storie sulla tappezzeria resterà deluso perché di tappezzeria non parlerò affatto. O meglio ne parlerò in un certo senso, innervosente e impreciso, attraverso storie del rapporto tra pittura e architettura.
La prima storia inizia il 20 dicembre 1920 a casa dell’architetto Bruno Taut, dove si incontrano Walter Gropius e Theo van Doesburg. I due sembrano piacersi, tanto che Gropius invita van Doesburg a raggiungerlo alla Bauhaus a Weimar dove si sta liberando un posto di insegnante.
Che Gropius si sia impegnato a dargli questo posto non lo sapremo mai. Fatto sta che con il tempo i due si dimostrano incompatibili e, in interventi successivi, Gropius affermerà che van Doesburg aveva interpretato un semplice invito a vedere la scuola con l’assegnazione di un incarico mentre van Doesburg sosterrà che Gropius ritirò la propria promessa nel momento in cui il primo cominciò a mettere in discussione l’approccio empirico ed espressionista della scuola. Certo è che van Doesburg si trasferì a Weimar e fomentò un’inimmaginabile fronda, tanto che fu vietato agli studenti del Bauhaus di andare al contro-corso da lui organizzato nello studio dell’amico Peter Röhl, furono scagliati sassi alle finestre dell’abitazione e addirittura volarono colpi d’arma da fuoco.

Theo van Doesburg & Cornelis van Eesteren, Maison particulière

Theo van Doesburg & Cornelis van Eesteren, Maison particulière

COLORE E ARCHITETTURA
Sarebbe a questo punto semplicistico affermare che lo scontro tra i due fosse causato da un problema di tappezzeria. Ma in un certo senso fu così. Gropius, per il teorico di De Stijl, si lasciava suggestionare da Johannes Itten ed era conseguentemente permissivo nei riguardi dell’espressionismo, dilagante nei corsi della scuola (del resto, come nuovo professore, alla fine Gropius aveva scelto Wassily Kandisnky). Cioè di una visione del mondo che ancora concepiva il quadro come una finestra virtuale verso una realtà interna o esterna. Oppure, e questa era una colpa non minore, Gropius vedeva il colore come integrato e quindi subordinato all’architettura, uno strumento passivo per mettere in evidenza una parete, un pilastro, una scala. Lo vedeva cioè in termini funzionali.
Per van Doesburg il colore era altro, aveva vita autonoma. O forse non proprio autonoma: esattamente, non lo sapeva neanche lui. Infatti, se leggiamo i suoi scritti, una volta afferma una cosa, una volta l’altra. Ma sempre girando attorno a un punto: come dare un senso al colore dopo la morte del quadro, senza farlo perdere nel mare magnum dello spazio architettonico. Ecco in che senso – e mi rendo conto di quanto la parola sia pericolosa per tutte le sue connotazioni – parlo di tappezzeria.
Occorre una precisazione. Pensando a van Doesburg, pensiamo a De Stijl; un De Stijl giocato sulle diagonali invece che sulle orizzontali e verticali, come per Mondrian. O forse neanche quello, pensiamo a dei quadrati tra loro perpendicolari o alle sedie e alle case di Gerrit Rietveld.
E difatti il De Stijl che Gropius farà entrare al Bauhaus, dopo lo scontro con van Doesburg, sarà di questo tipo: basta vedere l’organizzazione dell’arredamento del suo ufficio o la planimetria del nuovo edificio della Bauhaus realizzato tra il 1925 e il 1926 a Dessau. Indizi che permettono ad alcuni storici di sostenere che se Gropius cacciò il nemico, poi, alla fine, si lasciò convincere dalle sue istanze di ordine e razionalità tanto da assimilarne la poetica (magari attraverso le mediazioni a studio del suo collaboratore Adolf Meyer, che di van Doesburg era un estimatore, e a scuola dal suo nuovo braccio destro, Moholy Nagy, costruttivista ma influenzato dal neoplasticismo).
Sarebbe però un errore. L’idea che van Doesburg aveva del rapporto tra colore e architettura era molto meno tranquillizzante, diversa, confusa, ma diversa. E qui entra in gioco la sua anima Dada.

Theo van Doesburg & Cornelis van Eesteren, Maison d'artiste

Theo van Doesburg & Cornelis van Eesteren, Maison d’artiste

L’ELEMENTO DADA
Una delle informazioni più rimosse a proposito del personaggio van Doesburg riguarda il suo credo. Eppure egli partecipa al movimento Dada con scritti firmati con lo pseudonimo Bonset, inventa e dirige la rivista Dada Mécano, gira con Kurt Schwitters e la moglie in una tournée Dada per tutta l’Olanda. Ed è lui colpevole di aver invitato tutto il movimento Dada all’incontro dei costruttivisti a Weimar nell’autunno del 1922, un incontro organizzato con lo scopo dichiarato di mostrare a Gropius chi fosse culturalmente più forte. Per fargli capire, insomma, cosa lui avesse perso nell’avergli negato la strada della Bauhaus.
Ricorda Moholy Nagy a proposito della presenza Dada: “Provocò una ribellione contro l’ospite, Doesburg, perché in quel tempo vedevamo nel dadaismo una forza distruttiva e obsoleta in confronto con la nuova visone dei costruttivisti. Van Doesburg, una forte personalità, calmò la tempesta e gli ospiti furono accettati tra la costernazione dei membri più giovani, puristi, che lentamente si ritirarono e lasciarono che il congresso si trasformasse in una performance dadaista”.
Adesso – mi domando – è possibile pensare, come suggeriscono gli storici che non riescono a conciliare le due anime, che da un lato ci sia van Doesburg–De Stijl che dipinge come Mondrian, solo che a sua differenza compone in diagonale, e dall’altro ci sia un van Doesburg–Dada che a tempo perso proclama la fine dell’arte e la contraddittorietà del cosmo? Certo che no. Ve ne è un solo e l’idea che egli ebbe dei rapporti tra architettura e colore doveva sintetizzare in qualche modo questa sintesi De Stijl–Dada.

Cornelius van Eestern e Theo van Doesburg

Cornelius van Eestern e Theo van Doesburg

LA MOSTRA
Torniamo ai fatti. Trasferitosi da Weimar a Parigi, van Doesburg è furioso: vuole dare una ulteriore lezione a Gropius, mostrandogli quale fosse il giusto modo di intendere architettura e pittura. L’occasione gliela fornisce l’amico Rosenberg: lo invita a organizzare una mostra di architettura De Stijl presso la sua galleria L’Effort Moderne, che si svolgerà dal 15 ottobre al 15 novembre 1923.
L’anno 1923 segnerà per van Doesburg – per capire quanto tenesse a questa mostra – la data di discrimine dell’architettura moderna.
Frenetico come è, l’olandese invita però a esporre troppi amici e qualche nemico. Che c’entra per esempio Mies van der Rohe con il gruppo De Stijl? E perché invita Jacobus Johannes Oud con il quale sta in polemica e che ha un’idea dei rapporti tra architettura e arte agli antipodi? Forse per la paura di apparire un isolato.
Se ne dovette accorgere lui stesso, tanto che a Mies chiede di non esporre le sue case alla De Stijl, gli fa invece esporre il suo grattacielo in cristallo. Come a dire: “Ti invito, ma non facciamo confusione, quello che ho in mente io, non è una architettura dove il colore è subordinato alla struttura architettonica”.  Il centro della mostra sono i suoi progetti. Sono realizzati con Cornelius van Eestern, un promettente architetto di 26 anni che lui, quarantenne e senza una formazione professionale, pensa di utilizzare come docile strumento per esplicitare la sua visione De Stijl, o meglio Dada–De Stijl (Cornelius più tardi dirà che i progetti erano esclusivamente suoi e che van Doesberg aveva contribuito solo con i colori; van Doesburg, nelle pubblicazioni, i progetti li firma come suoi con la sola collaborazione di van Eestern e, per di più, aggiunge spesso e volentieri tra i propri titoli quello di architetto).

Theo van Doesburg & Cornelis van Eesteren, Maison particulière

Theo van Doesburg & Cornelis van Eesteren, Maison particulière

IL VALORE DELLA PITTURA
Quale è la novità della Maison Particulière e della Maison d’Artiste, i due pezzi forti presentati dalla coppia? Che si muovono con due approcci diversi: la prima è una casa per piani che si articolano a comporre volumi, la seconda una casa per volumi in cui vengono disarticolati i piani. In entrambe il colore gioca in un modo inusuale: come contro-composizione. Contro vuol dire che non asseconda, che vive di vita autonoma, che nega, come impone lo spirito Dada.
Il prodotto di queste contro-composizioni sono disegni in assonometria che selezionano (in base a quale criterio è difficile dire) sezioni della casa. Infatti ogni progetto ha più assonometrie diverse che raccontano di sequenze cromatiche diverse.  Come se la pittura fosse insieme dentro l’architettura e oltre. E difatti van Doesburg parla di quarta dimensione, anche se poi non sa esattamente neanche lui stesso cosa ciò voglia dire, se non che questi diversi percorsi spaziali-cromatici sono compresenti sovrapponendosi l’uno all’altro: è noto del resto quanto gli artisti siano approssimativi quando parlano di scienza. Certo è che la pittura non è più relegata a essere una finestra virtuale, cioè un quadro, all’interno di una parete, né un artificio cromatico, alla Mies o alla Le Corbusier, per far comprendere meglio l’architettura.
Ecco cosa voleva dire quando in un suo scritto aveva preannunciato un terzo tipo di architettura che non fosse decorativa, né costruttiva e puramente funzionale, ma monumentale. Gestita, forse voleva dire, attraverso una tappezzeria cromatica quadridimensionale e quindi monumentale.

Luigi Prestinenza Puglisi

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Luigi Prestinenza Puglisi

Luigi Prestinenza Puglisi

Luigi Prestinenza Puglisi (Catania 1956). Critico di architettura. Collabora abitualmente con Edilizia e territorio, The Plan, A10. E’ il direttore scientifico della rivista Compasses (www.compasses.ae) e della rivista on line presS/Tletter. E’ presidente dell’ Associazione Italiana di Architettura e Critica…

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