In omaggio a Zaha Hadid. Il ricordo di Marco Sammicheli

A qualche ora dalla scomparsa di Zaha Hadid, abbiamo raggiunto il design curator di Abitare e co-curatore di Being Zaha Hadid, numero monografico della rivista, pubblicato nell’aprile 2011. Un’esperienza professionale che non si è esaurita con la pubblicazione del volume e del successivo Zaha Hadid Inspiration and process, avendo fornito l’espediente per l’inizio di un rapporto di conoscenza.

Si racconta che l’esperienza di curatela Being Zaha Hadid sia stata molto complessa, con una forte presenza della Hadid… Che ricordo hai di quel periodo a stretto contatto con lei?
È stata un’esperienza formidabile. A cavallo tra il 2010 e il 2011, la fotografa Giovanna Silva ed io abbiamo girato il mondo con Zaha e con gli architetti del suo studio, visitando cantieri, presenziando a conferenze, incontrando personalità, inaugurando edifici. In quei mesi ho potuto vedere e poi raccontare ai lettori di Abitare – la monografia è stata tradotta anche in inglese e cinese – il lavoro di una grande orchestra, lo studio Zaha Hadid Architects.
Giovanna ed io abbiamo seguito Zaha, Patrick Schumacher, il nutrito team di associati e lo sciame di giovani progettisti nella loro quotidianità. All’epoca lo studio, oltre alla sede di Londra, aveva due piccole propaggini, una in Germania e l’altra a Roma, per seguire il lungo cantiere del Maxxi e le altre commesse già attive in Italia, come Salerno, Afragola e CityLife a Milano. Straordinario, indimenticabile.

La monografia era strutturata in tre macro-sezioni – The Teacher The Architect La Diva – quasi a rilevare tre aspetti compresenti nella medesima figura.
Sì, erano tre elementi non scorporabili dalla personalità e dalla poetica di Zaha. Era generosissima nell’insegnamento (The Teacher) tanto è vero che i suoi corsi alla AA di Londra e quelli all’Angewandte Kunst di Vienna, seppur durissimi, si sono trasformati in grandi occasioni per reclutare, all’interno del suo studio, giovani forze creative.
The Architect perché lo è stata senza risparmiarsi: ha sempre seguito con grande afflato e controllo tutti i cantieri e tutti i progetti.
E poi La Diva, dato che in anni in cui la speculazione della comunicazione spingeva verso la creazione del mito dell’archistar, questo ruolo le calzava a pennello. Lei era per sua natura una star, era una principessa. Proveniva da una famiglia irachena molto importante, grazie alla quale ha imparato a stare al mondo. E per questo lei ha dominato il contesto della sua disciplina.

Zaha Hadid - Eli and Edythe Broad Art Museum, East Lansing, Michigan (foto Iwan Baan)

Zaha Hadid – Eli and Edythe Broad Art Museum, East Lansing, Michigan (foto Iwan Baan)

Si fa un po’ di fatica a immaginarla nella veste di docente…
Eppure c’è un episodio che fa capire quanto lo sia stata: la discussione delle tesi di laurea, a Vienna, nel giugno 2010. La commissione era composta da grandi nomi del panorama internazionale, tra cui Wolf D. Prix di Coop Himmelb(l)au, Patrik Schumacher, Greg Lynn, Hernan Diaz-Alonso, Alejandro Zaera-Polo. In quell’occasione, pensando anche ad altri contesti accademici italiani che frequentavo, fui sorpreso dalla generosità e dalla grandissima opportunità che uno studente poteva avere. Non solo per un semestre poteva studiare con queste persone, ma aveva la chance di attivare uno scambio reale con loro. E Zaha a questo scambio non si sottraeva mai.

Dunque, non sempre era diva.
Era diva quando serviva esserlo. Nelle occasioni pubbliche, nella gestione della comunicazione, nella liturgia estetico-formale del suo vestire. Serviva a costruire l’immaginario. Ma in studio, con i suoi collaboratori o con gli studenti, era estremamente presente. Sempre con grande vigore e, talvolta, anche con durezza.

Inspiration and Process in Architecture - Zaha Hadid

Inspiration and Process in Architecture – Zaha Hadid

In queste ultime 24 ore, dalla notizia della sua morte in poi, stiamo assistendo, a molteplici manifestazioni di partecipazione. La riflessione, sul fronte della critica, sembra concentrarsi su almeno due temi: uno connesso alla cosiddetta “questione di genere”, orientato alla consacrazione della Hadid come figura pionieristica sul fronte della partecipazione delle donne in architettura; l’altro saldamente ancorato alla ricognizione sulla sua produzione, da sempre estremamente divisiva. Qual è la tua posizione a riguardo?
Il talento non ha genitali. Zaha Hadid non sopportava tirare in ballo la questione del suo essere donna. La sua condizione di partenza era senza dubbio di privilegio, ma su questo iniziale vantaggio lei non si è mai adagiata. Certo, il fatto di appartenere a una famiglia con una storia, la possibilità di studiare prima matematica a Beirut, all’università americana, poi architettura a Londra sono stati oggettivi punti a suo favore. Tuttavia lei non si è mai relazionata al mondo della professione dovendo o volendo recuperare uno scarto di genere.
L’architettura di Zaha rivela sempre grande personalità, è ipnotica e attraverso questa peculiarità risulta traversale anche nei sentimenti che genera. Piace e/o disgusta gli addetti ai lavori come l’uomo della strada. Resta il fatto che la sua è un’architettura muscolare che ha segnato una profonda rivoluzione dagli Anni Ottanta ad oggi, anche quando era solo un’architettura dipinta su tela. Possiede una forza, identità e forza di rappresentazione ma allo stesso tempo è fibrosa e dinamica, al pari di un muscolo umano.

Guardando oltre l’emotività del momento e orientando lo sguardo sui cantieri attualmente in progress, quale quadro andrà a comporsi d’ora in poi? E in quali tra i progetti in fase di realizzazione rintracceremo con più evidenza il suo segno, nonostante l’assenza fisica nelle fasi realizzative?
Ci sarà un’evoluzione. Del resto il linguaggio compositivo di Hadid e Schumacher ha sempre seguito la velocità della tecnologia delle costruzioni e l’innovazione degli strumenti con cui si immagina l’architettura. Non intendo fare una lista individuando quale sarà il prossimo masterpiece. Da italiano, guardo con curiosità al progetto di CityLife, aspetto Salerno così come gli altri cantieri. Di una cosa sono sicuro: il suo segno è stato così incisivo che non solo l’attività di progettazione dello studio proseguirà, ma anche quella legata al design.

Zaha Hadid - Aquatic Center - Londra

Zaha Hadid – Aquatic Center – Londra

La morte ha raggiunto Hadid a Miami. Qual era il suo rapporto con la città e con gli Stati Uniti?
Zaha ha amato moltissimo Miami e lì aveva molti amici. Anche grazie a Design Miami è iniziato il processo di legittimazione del suo ruolo nell’area nordamericana. C’era stata Cincinnati e oggi c’è il Broad Art Museum in Michigan, ma Miami è stato il vero rompighiaccio. Solo successivamente sono arrivati i cantieri in Inghilterra, sua terra d’adozione. Penso alla Evelyn Grace Academy di Brixton, al Riverside Museum di Glasgow e al London Aquatic Centre per le Olimpiadi del 2012.

In Italia l’attenzione dei media si sta soffermando molto sulle sue opere realizzate o in progress nel nostro Paese. Qual era la sua opinione sul design italiano?
Pier Luigi Nervi era un mito e un modello. Zaha provava un’autentica venerazione per lui ed era felicissima che il Maxxi fosse fisicamente così vicino al Palazzetto dello Sport dell’ingegnere. Aveva grande stima anche per Massimo Morozzi, così come amava moltissimo il lavoro dello stilista Romeo Gigli. E poi adorava Bernini: lo scoprì da bambina, visitando Roma con il padre. Per non dimenticarlo mai più.

Valentina Silvestrini

www.zaha-hadid.com

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Valentina Silvestrini

Valentina Silvestrini

Dal 2016 coordina la sezione architettura di Artribune, piattaforma per la quale scrive da giugno 2012, occupandosi anche della scena culturale fiorentina. È cocuratrice della newsletter "Render". Ha studiato architettura all’Università La Sapienza di Roma, città in cui ha conseguito…

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