Sguardo di donna. Intervista con Francesca Alfano Miglietti

“Io ho un'idea dell'arte come qualcosa di non pacificato né di rassicurante. Le mie ricerche mi hanno sempre portato verso artisti complicati, decisamente non tranquillizzanti”. Ne abbiamo parlato a più riprese, ve l'abbiamo fatta vedere con fotogallery e video, vi abbiamo fatto sentire il racconto di chi l'ha curata, il grande stilista Antonio Marras, sempre più spesso “prestato” alle arti visive, vi abbiamo dato anche il nostro punto di vista con una recensione. Per chi se la fosse persa, restano due giorni per vedere la mostra “Sguardo di donna”, quella macchina teoretica e poi visiva – come l'abbiamo definita – allestita a Venezia alla Casa dei Tre Oci. E per chiudere in bellezza, ci facciamo guidare dalla curatrice, Francesca Alfano Miglietti.

Di mostre dedicate alle donne se ne contano molte. Qual è lo spunto che rende unica questa?
Non sono storie di donne, non si parla di donne. Il titolo è una sorta di adescamento. Secondo me l’arte ha molto a che fare con l’adescamento: usa trappole seduttive per attirare l’attenzione dell’osservatore. Sguardo di donna è un titolo neutro: io in realtà avrei voluto intitolare la mostra Donne di vita, ma questo ha spaventato tutti! Sia per il rimando troppo diretto a Pasolini, con cui in verità mi sento molto affine; sia perché faceva pensare a donne di facili costumi…

Ci hai detto cosa “non” è. Ora dicci cosa è.
È una mostra che scardina il concetto di femminile: non siamo più ai tempi in cui le donne avevano la necessità di essere l’altra metà di qualcosa. Io come tutti sono debitrice a Lea Vergine di aver avuto l’idea e il coraggio di fare una mostra negli Anni Ottanta su “L’altra metà dell’Avanguardia“. Però secondo me occorre sottolineare che quando parliamo di “altra metà dell’Avanguardia” ci riferiamo ai primi Anni Venti, a un momento in cui spesso le compagne degli artisti erano esse stesse artiste, o forse lo diventavano. E non è un caso che molte delle protagoniste della mostra della Vergine ebbero brevi stagioni creative, per poi sparire dalla scena: quindi forse erano proprio questi legami che creavano una sorta di contagio creativo. Uno dei piani di lettura di questa mostra, è che non è una mostra di nomi: è una mostra di opere. Ho impiegato due anni a sceglierle, una per una.

In verità, vedendo la mostra queste categorie sembrano assottigliarsi.
Io non credo che in questo momento l’essere femminile o l’essere maschile sia un’identità unica: sono identità mutanti, ognuno di noi muta a seconda delle situazioni, si autocensura o si scatena. E questa mostra, più che di un’identità sessuale, di un genere, parla di una qualità dello sguardo: uno sguardo di con-passione. Nell’accezione buddhista, come “patire insieme”. E questa, purtroppo, è una peculiarità del femminile.

Sguardo di donna, Casa dei Tre Oci, Venezia

Sguardo di donna, Casa dei Tre Oci, Venezia

Nella mostra però ci sono solo donne che immortalano altre donne. Perché? L’uomo non ce la fa?
Le autrici sono donne, ma le opere che ci guardano non sono tutte di donne. Certo, secondo me le donne con più charme usano il mascara. Quindi, uno sguardo truccato, uno sguardo che deve essere seduttivo: anche quando si va in ospedale a portare un panino a un amico ci si mette il mascara. A me piace molto questa gestualità femminile, il desiderio di non perdere se stessa: c’è una storia emblematica, che racconta che durante la guerra le donne che non avevano più soldi per comprare le calze, con la matita per gli occhi si facevano una riga, a simulare le calze. Le donne raramente perdono l’idea di avere un corpo, e un corpo femminile. Quello che cerco di rappresentare è uno sguardo che vuole essere seduttivo, anche quando parla di cose scabrose. Però non voglio fare separazioni di genere: se c’è un genere in questa mostra, è un genere trans.

C’è un rapporto vivo anche con la città, con il teatro…
Venezia entra con decisione in questa mostra. È una città che devi lasciar trapelare, così come quando c’è l’acqua alta, che si diffonde ovunque. E poi è una città che ti costringe a prendere contatto con il tuo corpo, sentendone tutta la precarietà: aspetti il vaporetto e traballi, mentre cammini senti il pavimento vibrare, una precarietà continua, che assomiglia agli stati di ebbrezza, o di certe visionarietà, che ti aprono ad altre sensibilità. Il Barocco, l’eccesso, i colori, le maschere, la Fenice, che spesso diventano anche luoghi comuni di Venezia: e noi li abbiamo voluti portare dentro la mostra.

In questo sono nodali le scelte allestitive di Antonio Marras.
Antonio secondo me è il cantore di elezione per questa città. Lui è un eccessivo, ha paura dei buchi vuoti, ma ha un grande rispetto dell’arte, è sempre molto “intimorito” dalle opere d’arte, e questo è tipico delle persone che hanno grande sensibilità. Lui ha introdotto l’idea di accogliere il visitatore con una teoria di costumi del Teatro la Fenice appesi rovesciati, un po’ come fantasmi, come presenze che possono essere minacciose o rassicuranti.

Antonio Marras alla mostra Sguardo di donna, Casa dei Tre Oci, Venezia Antonio Marras

Antonio Marras alla mostra Sguardo di donna, Casa dei Tre Oci, Venezia Antonio Marras


Per un curatore, affidarsi per l’allestimento a un personaggio così forte come Marras non è un po’ come privarsi di qualcosa?

Io non sono un curatore. Io distinguo fortemente fra i curatori e i critici d’arte. E siccome sono antica, obsoleta, e anche clandestina, preferisco iscrivermi all’anagrafe come critico d’arte. L’arte non ha un tempo, non penso che ci sia un’arte che parla a questo tempo. Io riesco a dialogare, ad avere fonti di ricerca con uno come Caravaggio o Michelangelo. La capacità dell’arte è di intercettare anche il tempo che viene. Freud diceva che “gli artisti hanno scoperto l’inconscio prime di me”. Per tornare al rapporto con Marras: io comunque sono onnipotente, per cui non ho paura di uno che è più onnipotente di me, o che comunque è così esuberante. Lui poi penso che lavori per simpatia, ancora una volta nel senso buddhista: e la simpatia nasce dalla ricerca di affinità con l’altro. Siamo due maniaci, due perfezionisti, entrambi con un grande Super-Io, entrambi evidentemente abbiamo avuto un’altra vita tedesca. A me piace ballare insieme: a una festa in cui si balla da soli, magari ci si sente gratificati, ma poi ci si annoia.

Massimo Mattioli

Venezia // fino al 10 gennaio 2016
Sguardo di donna
a cura di Francesca Alfano Miglietti
CASA DEI TRE OCI
Fondamenta delle Zitelle 43
041 2412332
[email protected]
http://www.treoci.org/

MORE INFO: http://www.artribune.com/dettaglio/evento/46987/sguardo-di-donna/

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Massimo Mattioli

Massimo Mattioli

É nato a Todi (Pg). Laureato in Storia dell'Arte Contemporanea all’Università di Perugia, fra il 1993 e il 1994 ha lavorato a Torino come redattore de “Il Giornale dell'Arte”. Nel 2005 ha pubblicato per Silvia Editrice il libro “Rigando dritto.…

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