Inpratica. Nuove noterelle sull’Italia (IX)

Siamo nella peggior situazione possibile, ora in questa Italia? Non è così vero. La generazione di mezzo del Ventennio visse la stessa oscurità e la medesima pena, in forma più acuta e stringente, dolorosa.

… e, se eravate intellettuali,
non voleste dunque esserlo fino in fondo,
mentre questo era poi fra i tanti il vostro vero dovere
Pier Paolo Pasolini,
La poesia della tradizione
(IN Trasumanar e organizzar, 1971)

Il disturbo culturale – la noia mortale che è stare nell’Italia di questi anni – il respiro corto di questa visione di questa politica di questa gestione di questa umanità – e gli artisti i poeti gli scrittori che stanno costruendo le loro opere come in cattività, senza che l’attenzione si possa dire posarsi su ciò che fanno e dicono e pensano, oscuramente – e d’altra parte non è la prima volta, la generazione di mezzo del Ventennio visse la stessa oscurità e la medesima pena, in forma più acuta e stringente, dolorosa – il trauma di vivere distaccati dal proprio presente luminoso celebrato retorico, e di percepire invece un altro presente italiano, sotterraneo, sconosciuto, alieno e collegato alle epoche più profonde e preziose di questa comunità, di questa identità – un’unica forma di stupefazione collega i tempi, tutti questi presenti che si sdoppiano continuamente – la costante è dunque una forma doppia di presente, non ambigua ma proprio duplice, due presenti che si toccano e si sovrappongono come le due Italie di Pasolini (“due Stati incastrati uno nell’altro”; “un paese nel paese”) – tutto sta a comprendere e far comprendere qual è la nazione segreta di oggi, nascosta sotto strati e strati di simulazione e di robaccia inutile.
E d’altra parte, come si è detto, non è la prima volta: “L’‘uomo ermetico’, l’uomo che non si lascia sopraffare da altre ragioni che non siano quelle dei suoi minimi trasalimenti scontati fino all’osso, che scopre la sua verità sempre al margine di quanto ingombra la scena, quest’uomo avaro di sentimenti e sensazioni ma senz’altra concretezza al di fuori d’essi, quest’uomo senza appigli, protetto da uno scabro guscio siliceo o sfuggente come un’anguilla, quest’uomo che sembra costruito apposta per passare attraverso tempi infausti e realtà non condivise con un minimo di contaminazione e insieme con un minimo di rischio, fu proprio un caso tipico di proposta della letteratura per risolvere i problemi dei rapporti dell’uomo col suo tempo, in un’opposizione alla storia che il giudizio d’oggi ci rivela più complessa di quanto non sembrasse, ambivalente” (Italo Calvino, Il midollo del leone [1955], in Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, Mondadori, Milano 2009, pp. 6-7).

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Mario Mafai, Demolizioni di via Giulia, 1936

Mario Mafai, Demolizioni di via Giulia, 1936

“…oh generazione sfortunata, / arriverai alla mezza età e poi alla vecchiaia / senza aver goduto ciò che avevi diritto di godere / e che non si gode senza ansia e umiltà / e così capirai di aver servito il mondo / contro cui con zelo “portasti avanti la lotta” (Pasolini, La poesia della tradizione, cit.).
E questo che stiamo vivendo giorno dopo giorno non è più una fine che non finisce di finire, ma un inizio che non la smette di iniziare – incastrati come siamo in racconti e spiegazioni e narrazioni che non ci appartengono, che ci sono stati consegnati e imposti, che non sono veri neanche un po’ – normale che non lo siano, non lo sono mai per quelli che vengono dopo ma l’innaturale è averli accettati così com’erano, come oro colato, come verbo rivelato, non averli mai discussi e rifiutati se non in maniera infantile, poco convinta e perciò per nulla convincente – quando tutto ciò che ci sarebbe stato e ci sarebbe ancora da fare (c’è sempre tempo: anche il “non c’è più nulla da fare, è tutto finito, questo Paese è irrimediabilmente compromesso, irredimibile, eccetera eccetera” è la consolazione ultima, definitiva, e per questo più velenosa di tutte le altre) è costruire nuovi racconti e altre interpretazioni di quello che ci è accaduto, scavando scavando indietro nel tempo e nell’identità, nelle nostre genealogie, rimescolando tutti i materiali e gli approcci e riesumando la verità, senza stare a sentire quelli che dicono che non esiste, e alla fine (o all’inizio, che fa lo stesso) buttare via anche la storia e la memoria e costruire ciò-che-viene-dopo, l’inatteso, lo sconosciuto, quello che fa più paura e non ce ne dovrebbe essere ragione alcuna – costruire ciò che sradica con la sua stessa presenza e esistenza tutte le giustificazioni e i vorrei-ma-non-posso e l’immancabile “tengo famiglia” della nostra familiare Storia. Perché altrimenti, come già accaduto (questa volta non ottanta ma quarant’anni fa), e in maniera ancora più tragica e avvilente e irrisolta di allora, “vi troverete vecchi senza l’amore per i libri e la vita: / perfetti abitanti di quel mondo rinnovato / attraverso le sue reazioni e repressioni, sì, sì, è vero, / ma soprattutto attraverso voi, che vi siete ribellati / proprio come esso voleva, Automa in quanto Tutto” (Pasolini, La poesia della tradizione, cit.).

Christian Caliandro

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Christian Caliandro

Christian Caliandro

Christian Caliandro (1979), storico dell’arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali, insegna storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Ha pubblicato “La…

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