Intervista a Luigi Ontani. Del cinema, della provincia, dei curatori…

Arte e cinema. Se ne discute domani 1° dicembre al Cinema Trevi di Roma, insieme a Pappi Corsicato, in un incontro a cura di Alessandra Mammì. Abbiamo incontrato Luigi Ontani, che a ruota libera ci ha raccontato il suo rapporto con il cinema, e molto altro ancora. Lucio Dalla e la sua galleria, la sua visione dei curatori, Luigi Ghirri, Derek Jarman, Hans Ulrich Obrist a quindici anni…

Qual è il suo rapporto con l’immagine in movimento, dai primi video in Super 8 a oggi?
Il Super 8 è stato un momento avventuroso – ovviamente non l’unico nella mia vita. Aveva senso per me la dimensione del gioco, la ripetizione del gesto, il rito. Era anche un momento in cui, pur avendo già partecipato a molte mostre, non avevo ancora delle prospettive espositive precise. I primi Super 8 sono nati nel contesto di Palazzo Bentivoglio, dove le condizioni di ripresa erano simpaticamente dilettantesche. Ho però cercato di esprimere una mia idea in quei comportamenti. Con tutto l’amore per il cinema, tuttavia, non stavo pensando ad esso. Le mie erano già delle performance fatte e registrate come testimonianza sulla pellicola.

Ma ci sono degli aspetti – il travestimento, la rappresentazione dei tipi umani, le icone, l’allegoria, la memoria – che la interessano del cinema e in cui si identifica?
Amo il cinema, anzi in un’intervista a L’Espresso, nel periodo di una mia mostra a L’Attico, ne parlai come prospettiva per i tableau vivant, che però sono basati su una condizione di immobilità e fissità, come fossero apparizioni, anche quando fatti in pubblico. Davo come possibilità di continuità con il cinema il tableau vivant. È una prospettiva che ho considerato ma non ho svolto: non ci ho creduto abbastanza. Anche perché vivo l’arte come linguaggio, in quanto tuttora offre un’illusione di libertarietà lontano dalle costrizioni professionali: posso fare la mia arte senza dover fare i conti con un contesto che non è così facile da svolgere. Sono più a mio agio se posso condurre il mio viaggio da solo. Il cinema contempla tante cose, la produzione, un’organizzazione che non sono in grado di affrontare.

Pappi Corsicato

Pappi Corsicato

Nel 2010 ha partecipato al film di Pappi Corsicato, Capo Dio Monte, nel quale il racconto del museo avveniva “sotto braccio con Luigi Ontani”. Com’è stato lavorare sotto una regia che non fosse la sua?
Pappi Corsicato è veramente spiritoso, io sono interessato al rito. Non a caso – sembra un giochetto di parole – spiritoso contiene anche rito. Conoscevo Pappi Corsicato da tempo. Poi ci fu un’occasione favorevole, un contatto tramite Lucio Dalla, che conoscevo da sempre, a Bologna. Lucio aprì una galleria per un breve periodo che chiamava No Code, che era lo spazio storico della sua sala d’incisione. Feci questa mostra e Pappi mi contattò. Venne poi a filmare la mostra e il mio studio sugli Appennini, a Vergato, dove sono nato, ai piedi del Montovolo nel villino che si chiamava già Romamor e che fa parte fuori dalle mura del castello moresco La Rocchetta, inventato da un pioniere dell’omeopatia.
Il rapporto con Pappi è stato di gioco, inventato e anche estemporaneo. Ho accettato i suoi capricci e ho proposto i miei. Anche a Capodimonte, in una interlocuzione di simpatia, ha accettato certe mie evoluzioni e io le sue eversioni, entrambi consapevoli che non doveva essere un documentario. Pappi aveva già delle fantasie e io le ho invertite con le mie. Lui ha una passione, un punto di vista, uno sguardo sull’arte che è favorevole anche alla mia possibilità di esprimere.

Come si è realizzato tutto ciò?
Ad esempio, nella sala di Capodimonte che è la magnifica sala delle cineserie dove ho fatto un gioco di pose e di autoironia e al centro della sala ho posto La Pulce di Pulcinella, che è una barca con una Torre di Babele e un mare di seta ricamato in modo labirintico a mano e in oro. Per la prima volta, dopo un viaggio nel mondo, finalmente quest’opera veniva esposta a Napoli. Pappi ha, per fortuna, delle sue condizioni che a volte ho giocato a contraddire.
Questo è stato evidente anche quando è venuto al Museo Hendrik Christian Andersen, nel 2012, dove ho esposto le mie maschere musicali contemplanti il mio viaggio dagli Anni Ottanta – e vale tuttora – in Oriente, precisamente a Bali. Ogni maschera conteneva uno strumento musicale. Le ho suonate e gestite e le ho appese alle statue conservate nel museo, che sono di per sé paradossali. E la musica, per generosità di Charlemagne Palestine, ha fatto un nucleo centrale musicale. Lo spettatore avvicinandosi a ogni maschera ne sentiva la voce… Pappi Corsicato ha viaggiato con questa musica all’interno dello spazio. Sono stato al gioco perché tecnicamente aveva messo un carrello, dunque venivo sospeso come fosse un’apparizione miracolata dalla musica oltre che dal cinema.

Luigi Ontani, Krishna, 1978 - collezione privata - courtesy Archivio L'Attico

Luigi Ontani, Krishna, 1978 – collezione privata – courtesy Archivio L’Attico

Qual è la sua idea di cinema?
Mi interessa il cinema come ritualità, il tempo del passeggiare, del guardare, dell’esprimere senza montaggio. Mi interessa tuttavia il movimento, ma nell’istante in cui lo blocco. Probabilmente lei mi sta chiedendo dell’accadimento del movimento del cinema rispetto a quello della vita. Ma io tendo a non distinguere. Sì, tendo a non distinguere.

Crede, con il suo lavoro, di aver influenzato degli autori?
Da molti anni mi compiaccio di una definizione che ho coniato. Ho constatato che esistono dei “maestri postumi”, soprattutto nell’arte, cioè degli artisti che hanno espresso un’idea che può essere suggestionata, suggerita, che sono arrivati dopo di me e l’hanno formalizzata a modo loro, più coincidente all’aspettativa del tempo. Adesso si vede, ad esempio e da tempo, un uso e un abuso del concetto di tableau vivant. Ci sono dei registi giapponesi e indiani, per dire. Ricordo, inoltre, che quando uscì il Sebastiane di Derek Jarman, l’attore protagonista veniva alle mie mostre a L’Attico… Ma non vorrei osare in egocentrìa, che peraltro è anche un mio modo di esprimermi…

Ma Luigi Ontani girerà mai un film?
Cerco di avere una curiosità nel vivere. Mi interessa un altrove. Sto volutamente dietro a un muro estetico, ma non è che non ho la consapevolezza del mondo. Rispetto ai fatti, che hanno così inevitabilmente emozionato tutti, non è che gioco con i capricci, ho formulato un titolo e non dò spiegazione: “Gli sceriffi e i califfi o i califfi e gli sceriffi?”. È un mio modo per essere dissociato? Non credo. So cosa sta succedendo nell’arte e nella società e trovo straordinario che un artista possa continuare a vivere in Italia, in questo ex Belpaese dove si fa tanto rumore, ma nessuno si è mai interessato profondamente degli artisti. Si sono tutti autodistrutti.
Non è un problema di stare in posa o in movimento, ma credo che l’artista abbia la libertà di esprimersi e di contraddirsi. Quindi potrebbe anche essere che in senilità faccio un mio film, ma non ci credo perché non è il caso. Sono contento di quello che faccio, perché mi dà la possibilità di non essere condizionato da questa orrenda società, che tuttavia è straordinaria in sé. Vivo a Roma perché è una città barbarica: se non lo fosse, non ci vivrei.

Luigi Ontani nel Fienile del Campiaro

Luigi Ontani nel Fienile del Campiaro

Ci racconta invece le sue origini?
Sono nato in una situazione di cui non mi compiaccio, ma in una totale provincialità. Amo la provincia, ma vorrei essere ancora più provinciale, pur avendo un’indole di viaggio. Poi è subentrata da molto tempo una provincialità globale che non condivido, però ammiro chi l’ha sfidata e anche chi è riuscito a esprimerla.
Il contesto delle mie origini è negli Anni Sessanta, facendo delle cose, ovviamente acerbe, ma non troppo. Ho avuto una grande attrazione per la storia dell’arte, perché vengo da un luogo dove l’arte non c’era. Certamente ho cercato di agire senza lasciarmi condizionare dalla mia generazione o dal linguaggio della moda, che poi moda non era perché, se era arte commerciale, non so come si possa definire l’arte attuale.

Cos’ha fatto, dunque?
Ho cercato come un equilibrista di reggere un’idea in bilico, una fantasia, un progetto, un desiderio dell’arte, evadendo diverse cose e accettando quasi senza accorgermene delle altre avventure. Per me è molto importante l’arte concettuale, l’arte di comportamento, l’aspetto manierato relativo alla maschera, la mia identità. Ho letto molto, ad esempio Marinetti, certa letteratura romantica, ho avuto una formazione attraverso il ready made. Dopo cento anni si può ancora fare, ma non come costante. Ecco perché non condivido una certa disinvoltura professionale a fare tutto e niente, che è bellissimo, ma non può essere un passe-partout di comodo per essere attuali.

Chi individua, senza distinzione di settore, come suoi compagni di strada?
Adesso a Roma c’è una mostra di Balthus, ma io ero per Klossowski. Rispetto a de Chirico, ho sempre avuto una simpatia per Savinio. E arrivando ai contemporanei, per Paolini, per Fabro, che ha rivoluzionato la scultura, per Manzoni e Fontana e Castellani, che quando lo mandarono al confino aveva in realtà trascorso una vita al confino dell’arte. Per paradosso mi interessano gli artisti molto diversi da me. Sono per la simpatia e le affinità a distanza. Non mi interessa appartenere a una tendenza, a meno che ce ne sia una ancora.

Pappi Corsicato, Maschere Sonanti, documentario su Luigi Ontani - Museo Andersen, Roma 2012 - still

Pappi Corsicato, Maschere Sonanti, documentario su Luigi Ontani – Museo Andersen, Roma 2012 – still

Lei è stato un pioniere della performing art e della video arte. Che opinione ha della nuova generazione di artisti che approcciano a questi strumenti? Ci sono dei giovani artisti di cui stima particolarmente il lavoro?
Gli artisti in Italia ci sono sempre stati, giovani o vecchi. È che l’ambiente non ha mai creduto abbastanza nell’arte contemporanea. Basta leggere le interviste che hanno fatto a de Chirico, quasi lo prendevano in giro, ma lui era talmente abile a divertirsi sui preconcetti… Il punto di vista in questo ex Belpaese è esterofilo. E questa è una prova di qualità perché è un’apertura sul mondo. Quindi è molto facile che la gente conosca i giovani artisti stranieri, perché la tendenza è quella: la provincia guarda il mondo. I giovani artisti italiani devono avere la costanza e l’avvertenza di continuare la propria avventura e per coerenza saranno riconosciuti. Si è giovani in eterno… questo è molto bello, figuriamoci… a me piace l’infinito!

E i curatori?
Non sto facendo alcuna battaglia, ma constato che non sono d’accordo con i curatori, perché loro hanno preconcetti. Sono dei sudditi, non sudditi dell’idea, ma del sociale. Quindi propongono dei progetti che sono il loro punto di vista, anche quando sembrerebbe che stanno facendo qualcosa che appartiene a un panorama più ampio. Non è così, deformano la storia perché non sono interessati a chiarirla. Se devo essere polemico, lo sono con i curatori. E infatti sto evadendo delle mostre: non vedo perché devo essere fatto a pezzi dall’ultimo arrivato. Nessuno si comportava così. Anche i critici più esibizionisti esponevano le cose tenendo conto dell’idea dell’artista, invece i curatori di oggi non mi sembra che facciano questo.

Salviamo qualcuno?
Obrist. È straordinario perché nel suo protagonismo fa esprimere gli artisti che coinvolge. Venne a trovarmi a Roma che aveva quindici anni. Stavo nelle mie celle di via Brunetti di cui scrisse un bellissimo testo di testimonianza Goffredo Parise. Contattò Boetti, me e Turcato. Abitando ancora in Svizzera, venne a Roma per chiederci se eravamo disponibili a fargli un progetto per una linea aerea del suo Paese. Eravamo nel ’75. Gli proposi di estrapolare la posa di Mercurio oppure tutto l’Olimpo, che poteva essere declinato in un kit da viaggio. Il mio Olimpo si dissolse nel vento perché fu censurato e fu realizzato solo il gioco enigmatico proposto da Alighiero. A prescindere, credo che il modo di lavorare di Obrist sia quello giusto.

Luigi Ontani, trittico Sganappino, Dottor Ballanzone, Fagiolino, anni Settanta, realizzati in fotoceramica nel 2015

Luigi Ontani, trittico Sganappino, Dottor Ballanzone, Fagiolino, anni Settanta, realizzati in fotoceramica nel 2015

Lei prima parlava di provincia. Lei è nato a Vergato, vicino a Grizzana Morandi. Pensa che ci sia un filo conduttore, un’atmosfera comune, nella sua ricerca con artisti come Giorgio Morandi, Luigi Ghirri, un immaginario che appartiene a quel tipo di territori?
Fin dal primo momento ho voluto fare il contrario non per reazione, ma per consapevolezza. Morandi rappresenta il sapere, il dipingere, il sublime, la fedeltà agli strumenti dell’arte, in una ripetizione che non è mai banale, ma inventiva e creativa costante del quotidiano. Io ho cercato di allontanarmi dalla quotidianità in questo altrove idealizzato e nel linguaggio che ho espresso.

E Ghirri?
È una delle prime persone che ho conosciuto frequentando Bologna, che era la città di riferimento, e quando lui fece le prime copertine di Lucio Dalla io giocavo sulla mia origine etrusca e raccontavo della casa di Morandi. Non dico che ho suggerito a Ghirri, ma in effetti negli Anni Ottanta è poi andato a riprendere la casa dell’artista. Il Professore che ha fatto le foto della mia mostra in omaggio a Morandi, nel 2015 – ho cercato di farlo diventare il mio catalogo ma evidentemente anche lui è come i curatori di prima – ha fatto un album alla maniera di Ghirri, tanto è vero che ha acceso spiritosamente un televisore che stava vicino a un vasetto con il quale omaggiavo Morandi.
Ma è un’eccezione, ho preso come spartito i quadri ai quali cui mi sono riferito. C’è un’incisione, ad esempio, con testa di burattino. Ho preso perciò il mio calco e l’ho fatto diventare la testa di Fagiolino, che con Sganappino sono le maschere del mio paese. Ho giocato sul tema della metamorfosi e della natura morta, per dare il mio volto alle bottiglie, sul tavolo metafisico. Ho fatto un omaggio al capolavoro che ha rappresentato Morandi, anche se il mio discorso è palesemente all’opposto. L’ho stigmatizzato trasformandolo con il mio calco.

Santa Nastro

Roma // 1° dicembre ore 19
E pur si muove… Luigi Ontani e Pappi Corsicato: tra opera e film
a cura di Alessandra Mammì
CINEMA TREVI
Vicolo del Puttarello 25
06 6781206
[email protected] (prenotazione obbligatoria)
www.fondazionecsc.it

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Santa Nastro

Santa Nastro

Santa Nastro è nata a Napoli nel 1981. Laureata in Storia dell'Arte presso l'Università di Bologna con una tesi su Francesco Arcangeli, è critico d'arte, giornalista e comunicatore. Attualmente è vicedirettore di Artribune. È Responsabile della Comunicazione di FMAV Fondazione…

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