Festival di Santarcangelo 2015. Intervista con la direzione artistica

Cosa può fare il teatro nello spazio pubblico? Cosa accade quando l’arte diventa scandalo? Cosa rende instabile l’equilibrio tra reale e possibile? Il Festival Internazionale di Santarcangelo apre la piazza a questi interrogativi. Ne abbiamo parlato con la direttrice artistica Silvia Bottiroli.

Santarcangelo 2015 inaugura un tuo nuovo triennio di direzione artistica. Quali gli elementi di continuità e i punti di rottura rispetto al precedente?
Credo che siano in atto più tratti di discontinuità che di contiguità. Le ragioni sono diverse. Di certo ha un peso significativo la scelta di lavorare da sola, senza co-direttori, in un quadro complessivo di riorganizzazione del festival. L’altro aspetto si coglie nel desiderio di dar corso a una serie di riflessioni espresse nel progetto How to build a Manifesto for the Future of a Festival, ma anche nell’aver immaginato una scuola di ricerca teorica, The School of Exceptions, anziché un osservatorio critico. Già nel triennio passato il festival aveva esteso la propria azione oltre i 10 giorni del festival, creando forme di dialogo tra città e spettatori. La nuova edizione dimostra di ereditare questa tensione, ma precisa la volontà di accompagnare i lavori, di co-produrli e sollecitarli, costruendo spazi di incontro tra gli artisti e un territorio specifico, in equilibro con il panorama internazionale.

Il primo evidente elemento di discontinuità si coglie nella grafica. Il festival si presenta aniconico. Perché questa scelta?
Non avere un’immagine di richiamo risponde alla necessità di pulire lo sguardo rispetto al lavoro molto approfondito sul disegno che avevamo fatto con Marco Smacchia. Insieme a Marzia Dalfini, abbiamo voluto che questa fosse l’occasione di rinterrogare il guardare, al fuori di un rapporto esclusivo con l’immagine. Siamo partiti con una cartolina che conteneva sul fronte i nomi degli artisti, sconfinando anche nel retro. Si è ragionato sull’idea di “presa di parola”, partendo da alcune tue suggestioni, e abbiamo iniziato a dialogare con Romeo Castellucci su alcuni temi che il festival avrebbe sollevato, immaginando un suo gesto personale. È poi stato chiaro che il manifesto potesse essere uno spazio possibile dove collocarlo. Scegliere parole invece che immagini per aprire delle questioni! Per me era importante che non fossero nostre e che non si equivocasse sulla loro natura. Non si tratta infatti di un titolo, ma dello spazio che l’artista si prende in un altro modo rispetto a quello della scena.

Milo Rau, Brevik's Statement © Thomas Muller

Milo Rau, Brevik’s Statement © Thomas Muller

Il lavoro di Milo Rau, che apre il festival, sembra rilanciare questa tensione sull’asse della relazione tra lo spazio pubblico e quello politico…
Sì, in effetti è così. Milo Rau con Breivik’s statement affida a un’attrice e attivista la lettura del discorso integrale di Breivik di fronte al tribunale norvegese che lo accusava delle stragi di Utoya e Oslo del 2011. Si tratta di parole ritenute pericolose, tanto che le autorità ne vietarono la trasmissione fuori dall’aula del processo. Credo che l’aspetto di attrazione per Rau si sia alimentata su questo senso di minaccia percepita. Come spesso nel suo lavoro, siamo di fronte a una forma di reenactment: il testo viene trasportato in un altro contesto, quello del teatro appunto. Ma lo spettacolo non termina con la lettura dello statement, continua in forma di dibattito, un apertura anche per il dissenso, moderato da Gigi Riva, caporedattore dell’Espresso ed esperto di politica internazionale, attento conoscitore del caso Breivik.

È significativo aver collocato il reenactment di Rau nello spazio pubblico. È chiaro l’intento di attivare una frizione tra spettatore come cittadino e cittadino come spettatore. In generale come hai ragionato sul concetto di Piazza?
La piazza di Santarcangelo è certamente il luogo in cui mettere in relazione questi due modi di guardare. Abbiamo scelto di portare il lavoro in piazza sapendo che ne avrebbe amplificato la problematicità, convinti, nello stesso tempo, che fosse il modo più giusto per rispettare profondamente la posta in gioco. In piazza abbiamo scelto di portare lavori che interrogano la città, la politica in maniera diretta e, per la prima volta, lì sarà possibile assistere a spettacoli programmati anche in altri luoghi, per farne un’occasione di fruizione gratuita e dare agli spettacoli la possibilità di esistere in modo diverso. Pensi alla performance di Christophe Meierhans o al lavoro di Simon Allemeersch, incentrato su gentrificazione, social housing e diretto alla casa.

Si tratta di stare in equilibrio sul crinale tra pura performatività e cornici finzionali e ludiche. Non è così per Some use for your broken clay pots di Meierhans?
Il lavoro di Christophe Meierhans è interessante per il modo in cui frequenta quello spazio tra l’approccio teorico-politico e il teatro, tra gioco e realtà. Si presenta come una conferenza-performance in cui si chiede agli spettatori di essere partecipanti, di intervenire durante la presentazione di Meierhans, nella quale il performer illustra la creazione di una nuova Costituzione e un’altra possibile forma di governo. È un discorso votato a sollecitare reazioni, anche forti, da parte degli spettatori. La domanda è: che cosa siamo disposti a mettere in discussione della vita politica organizzata per come la consociamo? Si tratta di collocarsi da un’altra prospettiva per verificare l’effettiva democraticità del sistema di governo nel quale viviamo.

Christophe Meierhans, Some use for your broken clay pots © Jan Lietaert

Christophe Meierhans, Some use for your broken clay pots © Jan Lietaert

Un‘altra traiettoria del festival ruota sul concetto di “archivio”. Come si declina?
Si è venuto formando a partire dai lavori di Tino Seghal e Boris Charmatz, e di Mette Ingvartsen. Tutti, a vario titolo, interpellano la questione dell’archivio, aprendo anche all’attuale dibattito sul rapporto tra istituzioni delle arti visive e danza. Come possiamo immaginare un museo della danza? Come la danza, arte dell’effimero, si misura con l’idea dell’archivio o come un archivio può essere performato? In modi diversi Untitled di Seghal/Charmatz e 69 Positions di Ingvartsen sollevano questa questione, conducendoci ora dentro la storia della danza del ‘900 ora nel seno di body art e live art, laddove la sessualità e la dimensione politica del corpo hanno ruolo centrale. Con la presenza di Arkadi Zaides si affronta la stessa questione da una prospettiva diversa, riconnettendola al discorso politico in modo più schietto e collegandola alla nozione di sguardo, a quel resto che le immagini lasciano quando sono tanto forti da imprimersi irrevocabilmente nella mente dello spettatore.

A proposito di archivio, Santarcangelo ospita BURNING BOOKS. Il catalogo della Ubulibri viene salvato dal macero per essere donato alla comunità degli spettatori…
Accettare la proposta dell’Associazione Ubu per Franco Quadri è stato accogliere un regalo molto ben pensato. Immediatamente ha risuonato con altre presenze e linee del Festival. Penso ad esempio al lavoro di Mette Edvardsen nella Biblioteca Comunale. La questione del libro non è mai stata presente come quest’anno. BURNING BOOKS – titolo che trovo bellissimo con quel richiamo invertito a Fahrenheit 451 – ci fa interrogare su un archivio che ha segnato la storia non solo del teatro ma della cultura italiana, attraverso un gesto che mi sembra un bel suggello per la chiusura del festival.  

Arkadi Zaides, Archive © Jean Couturier

Arkadi Zaides, Archive © Jean Couturier

L’edizione 2015 conquista anche un suo proprio spazio editoriale…
Il progetto editoriale è articolato in quattro uscite. Ogni pubblicazione ha un tema e un titolo, con l’intento di dare voce ai diversi nodi che percorrono il festival. Abbiamo deciso di pubblicare testi esistenti o non tradotti in italiano, mi riferisco ad esempio al primo capitolo de Le Spectateur émancipé di Jacques Rancière, che sarà pubblicato integralmente da DeriveApprodi il prossimo anno. In fondo ci si vuole interrogare anche sull’editoria italiana, su cosa non stiamo traducendo. Ogni libretto include una bibliografia e casi studio che permettono di contestualizzare certe questioni in modo ampio. L’ultimo, previsto in autunno, sarà curato da Aleppo e dai 12 partecipanti alla School of Exceptions. È importante consegnare le pagine ad altri che possano lavorare con un tempo più lungo di riflessione. Sarà dedicato al “futuro”, parola che le pubblicazioni si portano dietro sin dal titolo complessivo che le raccoglie, How to Build a Manifesto for the Future of a Festival. È un modo per esplicitare la responsabilità sul futuro di cui deve farsi carico un’istituzione artistica, e abbiamo deciso di farlo – con Marzia Dalfini e Giulia Polenta che co-curano il progetto – pensando a un Manifesto a più voci con una serie di punti possibili.

Anche quest’anno il festival ospita la Piattaforma della Danza Balinese. Come si inscrive nelle nuove traiettorie del festival?
L’anno scorso dopo la fine del festival avevamo la sensazione distinta che la Piattaforma fosse stata un’esperienza importante, sentivamo che era davvero accaduto qualcosa. Ma era altrettanto chiaro che il progetto non fosse stato del tutto compreso. Con Michele Di Stefano, Cristina Rizzo e Fabrizio Favale ci siamo dichiarati il desiderio di coltivare questo spazio incolto, rendendoci conto della necessità di dover fare dei passi. Loro hanno deciso di essere presenti al festival solo con la Piattaforma, senza presentare i propri spettacoli, com’era accaduto lo scorso anno, e com’era importante che accadesse. Si è puntato sull’urgenza di rendere leggibile la natura di questa forma di presenza inscritta in un luogo privo di giudizio con una geometria politica molto precisa. Si è molto ragionato su come rendere organici gli inviti alle persone che abiteranno Balinese. Abbiamo individuato una serie di figure che, in modi diversi, sentiamo vicine per “la creazione di un campo dove possano nascere tutti i tipi di piante”, dice Cristina Rizzo. In questa corniche si inscrive la presenza delle scuole di danza del territorio, invitate a portare un estratto del saggio. È stato allora importante anche riflettere sullo spazio, lavorando nella direzione dello spiazzamento. Dopo aver vagliato molte ipotesi, ho proposto la Sala Consigliare del Comune per chiederci cosa accade se la danza entra nello spazio politico?

Piersandra Di Matteo

http://santarcangelofestival.com/sa15/

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Piersandra Di Matteo

Piersandra Di Matteo

Teorico di teatro contemporaneo e curatore indipendente nel campo delle performing arts. Svolge attività di ricerca al Dipartimento delle Arti dell’Università di Bologna. Sperimentatrice di formati ibridi tra performance e produzione editoriale, ha realizzato progetti performative writing. Dal 2008 è…

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