Dialoghi di Estetica. Parola a Piero Gilardi

Negli Anni Sessanta Piero Gilardi ha impostato la sua ricerca incentrandola sugli sviluppi delle scienze postnewtoniane e la relazione fra arte e natura. In seguito si è concentrato sulle pratiche relazionali e partecipative e l’esplorazione delle potenzialità provenienti dalle sperimentazioni bio-tecnologiche. Alla luce di questi tratti salienti della sua poetica, questo dialogo verte sul rapporto tra natura e artificio, il superamento del tradizionale modello rappresentazionale e la possibilità di ripensare all’arte in una prospettiva antropologica.

In che modo ha influito sulla tua ricerca artistica la riflessione sul rapporto tra natura e artificio?
Negli Anni Sessanta arte e natura costituivano una coppia oppositiva. Il lavoro di allora era principalmente di carattere empirico. Si procedeva cercando di mettere insieme il mondo artificiale, quello delle macchine, con quello naturale. Lo sforzo era perciò rivolto a trovare una possibile conciliazione. Si cercava di condensare questi due mondi.
Di questa potenziale ibridazione mi è sempre interessato soprattutto l’aspetto antropologico: il tentativo di superare l’antinomia tra natura e artificio, riconoscendo l’evoluzione dell’uomo. Come ci insegnano anche le più recenti ricerche scientifiche, l’uomo nel corso della sua evoluzione si ibrida continuamente con ciò che è differente. Questa ibridazione ha perciò contribuito alla stessa evoluzione dell’uomo. Se ci pensiamo, per millenni questo ha voluto dire attuare uno scambio.

Ci fai un esempio?
Il canto degli umani trova molti dei suoi riferimenti nell’osservazione del canto degli uccelli. Lo stesso gesto estetico sembra in qualche modo rifarsi ai comportamenti proto-estetici degli animali.
Per mezzo secolo ho seguito gli sviluppi di questa coppia oppositiva che rimandano anche al rapporto tra arte e cultura. Considerata l’evoluzione della tecnoscienza e il suo integrarsi alla vita, penso che oggi il divario tra i due poli oppositivi si sia ridotto. Forse possiamo dire che la distanza tra natura e artificio sia stata ormai superata. Negli Anni Sessanta, il mio lavoro prendeva avvio proprio dalla ricerca di una possibile soluzione. Oggi mi sembra che quest’ultima sia stata trovata.

Piero Gilardi, Tappeto angurie - C.C.C. TOURS - photo Francoçis Fernadendez

Piero Gilardi, Tappeto angurie – C.C.C. TOURS – photo Francoçis Fernadendez

Questo approccio è anche all’origine del tuo abbandono del modello classico della rappresentazione – penso in particolare ai tuoi tappeti-natura – per procedere in direzione di un’arte incentrata sulla relazionalità. In un certo senso, anche la Macchina per discorrere che hai realizzato nel 1963 mostrava già questa direzione del tuo lavoro.
Anche i tappeti-natura erano già un’offerta relazionale, poiché sono pensati per essere soffici giacigli che si offrono al corpo. Proprio questo aspetto rivela anche l’altra dinamica parallela del mio lavoro: compiere un superamento della natura iconica dell’arte per portarla su un registro relazionale.
In questo caso, all’origine delle mie ricerche vi è anche una riflessione sui sensi e la mente, ossia sulla antinomia tra mente e corpo che tuttavia non possono essere scissi. Sono inestricabili. La stessa vita relazionale è basata su questa inscindibilità. Rispetto a questo potenziale superamento (dalla produzione iconica a quella relazionale), sono però convinto che il ciclo si sia quasi compiuto.

Quasi?
Sì, perché vedo nell’arte i residui di una produzione ancora basata su una logica iconica. Si fanno ancora monumenti e l’icona ha tutt’oggi una forza sorprendente soprattutto in ambito mediatico. A ben vedere, le icone sono ancora surrettiziamente valide.

Però l’evoluzione novecentesca dell’arte si deve sia alla produzione di immagini sia alla trasmissione delle idee. Il concettualismo si aggiunge alle tradizionali forme d’arte visiva e plastica, che privilegiano tutt’oggi la produzione iconica. Che cosa ne pensi?
Indubbiamente gli aspetti cognitivi e di elaborazione concettuale sono stati importanti per me e per tutta la nostra generazione. Il lavoro sui concetti e le categorie è stato decisivo. In quegli anni, quello che ci appariva chiaro era proprio che il gesto estetico era la conseguenza di una diversa visione del mondo.
Certo, il mio lavoro, così come quello di altri artisti attivi negli stessi anni, può essere riconosciuto innanzitutto come concettuale. C’è un periodo in particolare della mia ricerca che lo conferma: quello sull’arte microemotiva, che per me corrisponde a un momento di profondo travaglio concettuale.

Piero Gilardi, Macchina per discorrere, 1963 - C.C.C. TOURS - photo Francoçis Fernadendez

Piero Gilardi, Macchina per discorrere, 1963 – C.C.C. TOURS – photo Francoçis Fernadendez

Questa parte del tuo lavoro rivela anche un forte legame con la tua riflessione sulla comunità e le relazioni umane, lasciando supporre che tu abbia compiuto un passaggio dal concettualismo alla relazionalità.
L’elaborazione concettuale per me è avvenuta a partire da una riflessione sul gioco esistenziale sia dell’individuo sia della comunità umana. Questo ha avuto anche un risvolto politico: trovare una nuova connessione tra l’individuo e la comunità, ovvero poter situare le due entità in un nuovo modo. Penso allora all’arte politica come incentrata su questa possibilità: garantire all’individuo un potenziale di libertà e, allo stesso tempo, mirare a ottenere quella sinergia che si crea nella comunanza e nella condivisione sociale. Credo che il nodo del gioco esistenziale sia questo.
Il lavorio concettuale per me ha avuto a che fare prima di tutto con la possibilità di garantire lo scambio mirando ad accogliere la differenza individuale all’interno del cerchio della comunanza. Possiamo intendere tutto questo nei termini di un discorso di apertura dei cerchi: una comunità accoglie la diversità dei suoi componenti individuali nella stessa misura in cui è aperta al dialogo con altri cerchi esterni, ossia con altre comunità. Si tratta dunque di un problema esistenziale che considero, prima di tutto, proprio nei termini di un approccio antropologico.

Forse è proprio in virtù di una riflessione antropologica – ossia di ricerche incentrate sulle relazioni e gli scambi comunitari, l’accoglienza delle diversità – che l’arte, anziché essere sfiorita, è rinata proprio grazie alle ricerche condotte a partire dagli Anni Sessanta. Ti sembra una prospettiva condivisibile?
Sì. Ci sono stati diversi preannunci, spesso di carattere utopico, fatti in ambito artistico in questa direzione. Penso, per esempio, all’annuncio della scultura sociale fatto da Beuys. Un concetto sul quale sono tornato più volte anch’io. L’arte è di tutti. Non dimentichiamo infatti che lo scambio dell’arte, dunque della produzione simbolica, è fondamentale tanto per l’evoluzione delle società quanto per quella degli individui. La stessa costruzione della soggettività è legata alla produzione simbolica e alla condivisione dell’arte a livello comunitario. L’arte è, in fondo, un bene comune.
Ma, messa in questi termini, la questione diventa ancora più complessa. Perché, se possiamo dire che l’arte non sia degli artisti o di chi la acquista – supponendo che essa abbia funzioni progettuali, simboliche, terapeutiche ecc. – allo stesso tempo, dovremmo anche esser maggiormente capaci di riconoscerla come potenziale veicolo del cambiamento, come portatrice di nuove speranze.

Piero Gilardi, Akwesasne – Canada - photo Piero Gilardi, 1983

Piero Gilardi, Akwesasne – Canada – photo Piero Gilardi, 1983

Questa concezione dell’arte si traduce direttamente negli sviluppi successivi delle tue ricerche, penso in particolare all’attivismo sociale e agli interventi di riattivazione creativa che hai attuato in diversi contesti urbani. Quale potrebbe essere un aspetto saliente che ha contrassegnato queste tue attività?
Per me ha voluto dire concentrarmi soprattutto sul mondo pulsionale. Per otto anni ho fatto l’arte-terapeuta. Avevo aperto quattro atelier in cui svolgevo attività insieme a pazienti psichiatrici con patologie diverse. Queste attività mi hanno reso più consapevole del fatto che nell’espressione artistica c’è sempre un’energia libidica.
Proprio negli Anni Sessanta si discuteva di due diversi orientamenti teorici della psicoanalisi. Per Freud la produzione di rappresentazioni è espressione censurata delle pulsioni, mentre secondo la concezione junghiana la rappresentazione è piuttosto il costrutto progettuale della pulsione. Questa seconda visione credo che permetta di comprendere meglio il compimento della liberazione dell’estetica da qualsiasi valenza normativa.

Spiegaci meglio quest’ultimo concetto.
Oggi in arte non c’è più un canone. E questo permette anche di capire meglio l’attuale eclettismo diffuso nell’arte. Prima di tutto, però, dev’esserci un medium. Sia esso il linguaggio, una macchia di colore, un gesto… È necessario un medium perché vi sia produzione simbolica.
Quello che intendo è che gli Anni Sessanta hanno contribuito a depotenziare la valenza normativa del medium. Ti faccio un esempio che potrebbe essere più calzante. Proprio in quegli anni ho lavorato molto realizzando diverse animazioni artistiche, sia in Italia sia all’estero: sono stato in Africa, in Nicaragua… Queste esperienze mi hanno permesso di individuare una sorta di procedura che si ripeteva con frequenza, ossia le diverse fasi che componevano l’attività creativa, che prevedeva il coinvolgimento dei partecipanti in quella che, in fondo, era un’opera d’arte totale. L’attività prendeva avvio con un gioco liberatorio al quale seguiva un momento rituale con caratteristiche estetiche – ad esempio, il coordinamento coreutico dei partecipanti o lo svolgimento di un’attività teatrale. Alla fine, questo rito tornava di nuovo al gioco.
Questa liberazione di cui ti dicevo non può prescindere dal medium, e la penso proprio nei termini di questo momento liberatorio successivo alla fase del rituale. Un momento di elaborazione della rappresentazione che viene abbandonata in modi diversi per tornare alla libertà creativa.

Piero Gilardi, Connected Es - Galleria Civica di Modena, 1999

Piero Gilardi, Connected Es – Galleria Civica di Modena, 1999

Quali potrebbero essere allora le conseguenze di questo superamento della rappresentazione in arte?
Questa trasformazione dell’arte rientra in un grosso movimento di trasformazione antropologica che può contribuire alla costituzione di una nuova mente. In questo modo, l’arte offre risorse creative e possibilità relazionali che potrebbero aiutarci ad affrontare le complessità del mondo contemporaneo.
La mostra che è stata recentemente inaugurata al PAV, in cui vengono esposti lavori di tre collettivi di artisti agro-ecologici, è una dimostrazione di questa possibilità: il lavoro in campagna lascia emergere la componente creativa. Si tratta allora di poter intravedere nelle continue trasformazioni dell’arte le offerte di diverse possibilità di salvezza.

La nuova funzione sociale dellarte potrebbe allora trarre origine da un incremento della portata simbolica nelle pratiche creative e, parallelamente, da una riduzione di quella rappresentazionale?
Nell’interazione simbolica tra gli individui vi sono diversi aspetti da considerare: lo scambio delle pulsioni, l’empatia della speranza, la condivisione di un progetto. Credo che siano fattori che rientrano anche nella produzione artistica e che sono decisivi anche per la sua continua trasformazione.
Questo mi fa anche pensare a tutte le teorizzazioni sulla morte dell’arte. Le ho sempre considerate come metafore per l’elaborazione del lutto per la morte dell’arte umanistica. Ossia, di quella basata sulla rappresentazione e sull’antropocentrismo. Ma queste teorie rivelano l’esigenza, in parte consapevole, di dare un senso non a un lutto ma a una trasformazione. Attraverso diverse esperienze transculturali, l’arte si è trasformata. Le diverse forme di possibile ibridazione sono all’origine di tutto questo. Credo che attraverso di esse l’arte sia fuoriuscita dalla sua torre d’avorio per entrare nel vivo dello svolgimento dell’antropologia culturale.

Davide Dal Sasso

http://labont.it/
www.parcoartevivente.it

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Davide Dal Sasso

Davide Dal Sasso

Davide Dal Sasso è ricercatore (RTD-A) in estetica presso la Scuola IMT Alti Studi Lucca. Le sue ricerche sono incentrate su quattro soggetti principali: il rapporto tra filosofia estetica e arti contemporanee, l’essenza delle pratiche artistiche, la natura del catalogo…

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