India, Biennale di Kochi Muziris. Intervista con Valentina Gioia Levy

Ce ne sono dappertutto, di biennali. Ve le raccontiamo di continuo, ma in questo caso c’è un tocco italiano importante. Sì, perché una delle mostre collaterali è curata da Valentina Gioia Levy, che abbiamo intervistato.

Partiamo da te: cosa stai facendo in India? Qual è il tuo rapporto con il MoG – Museum of Goa?
Il mio rapporto con il MoG è iniziato l’estate scorsa. Ho passato circa un mese in India a fare ricerca per la galleria newyorchese con cui collaboro, la RH Contemporary Art. Allo stesso tempo pensavo a una collettiva con artisti indiani da presentare al Museo Nazionale d’Arte Orientale di Roma. Dopo una quindicina di studio visit a Bombay mi sono spostata a Goa, dove ho incontrato Subodh Kerkar che, oltre a essere un artista, è anche il direttore del MoG.
Il museo nasce proprio dalla sua attività di catalizzatore di energie sul territorio e dal desiderio di dar vita a uno spazio istituzionale per promuovere mostre di alto profilo e creare un luogo per scambi internazionali. Il MoG sarà l’unica istituzione esclusivamente dedicata al contemporaneo in tutto lo stato di Goa e una delle pochissime in tutta l’India del sud. Quando ho incontrato per la prima volta Subodh Kerkar la scorsa estate, lui aveva già iniziato a lavorare alla mostra Janela, mettendo insieme principalmente artisti basati a Goa e invitandoli a riflettere su tematiche che ruotavano intorno alla storia della regione. Mi ha chiesto se volevo riprendere in mano il progetto e occuparmene… ovviamente ne sono stata felicissima.

La mostra che stai curando è uno degli eventi collaterali della Biennale di Kochi Muziris, in Kerala. Che risonanza ha nel Paese? Com’è strutturata?
La Biennale di Kochi Muziris è l’evento artistico più importante di tutta l’India. La prima edizione è stata visitata da circa 400mila persone e per quest’anno ci si aspetta un’affluenza ancora più importante. È una biennale creata da artisti e diretta da artisti, i fondatori sono Bose Krishnamachari e Riyas Komu, entrambi presenti nella mostra itinerante Indian Highway, di cui una tappa è stata presentata anche al MAXXI. In ogni edizione viene scelto un direttore artistico, quest’anno è l’artista Jitish Kallat. Una volta ogni due anni la città viene “investita” dall’arte, un po’ come succede a Venezia. Si usano spazi pubblici e privati, al chiuso e all’aperto, c’è un’energia molto bella.

Bhisaji Gadekar, Samai, 2014 - Courtesy of the Artist

Bhisaji Gadekar, Samai, 2014 – Courtesy of the Artist

Veniamo alla tua mostra. Spiegaci il concept, a partire dal titolo Janela. Migrating Forms & Migrating Gods.
La prima problematica da affrontare a livello curatoriale è stata proprio quella di dover riprendere in mano un progetto già avviato. Janela era il titolo pensato da Subodh Kerkar per la mostra che avrebbe presentato principalmente artisti di Goa. Janela è una parola portoghese che significa ‘finestra’ e che, come molte altre in epoca coloniale, è entrata a far parte della lingua kolkani, parlata nella regione di Goa. Come prima cosa ho cercato di individuare un filo conduttore in grado di aprire un dialogo tra ricerche artistiche locali e internazionali, tenendo conto, come suggerito dall’input proposto da Subodh Kerkar, della storia e della realtà di Goa, tradizionalmente considerata in India del sud come una finestra sul resto del mondo.
Mi è sembrato che uno dei temi più interessanti da esplorare, per la vastità e la malleabilità dei suoi confini, fosse la questione della “migrazione delle forme visive” e come queste mutino e si ridefiniscano nel loro ricontestualizzarsi in altri luoghi e in altri tempi. In particolare, la mia attenzione si è focalizzata sulla questione dell’immagine che potremmo definire “sacra”, un elemento che ho riscontrato in molti dei lavori degli artisti visitati a Goa, ma che è comune a tanti altri anche a livello internazionale e che oggi si riconduce soprattutto a ricerche di matrice identitaria, socio-politica o antropologica.

Qual è la dimensione del sacro in India?
In India il sacro è parte integrante della quotidianità e allo stesso tempo ha un significato diverso rispetto a come lo intendiamo in Europa. L’immagine sacra in particolare ha avuto nella storia dell’arte, ma anche nella vita di ogni giorno, un notevole peso. Questo è qualcosa che l’India ha sicuramente in comune con l’Italia. Entrando in una casa in India del sud puoi trovare alle pareti un altarino con una scultura di Ganesha, un quadro col Sacro Cuore di Gesù, una foto di Bob Marley e quella di un leader del partito comunista. Può capitare anche da noi ovviamente, ma nessuno si sognerebbe di pregare Bob Marley, tranne forse a Napoli dove Maradona è quasi sullo stesso livello di San Gennaro. Molti cartoni animati per bambini e serie animate televisive si basano sulle storie dei poemi epico-religiosi del Mahabharata e del Ramayana.
Una delle cose che mi ha colpito di più è scoprire che nei curriculum vitae c’è uno spazio in cui indicare la religione di appartenenza. Il discorso sul sacro è molto ampio e ha radici che affondano nel passato ma anche e soprattutto nell’attualità, basta pensare ai cambiamenti della geopolitica internazionale, alla ridefinizione dei territori che sempre più spesso si produce dietro la spinta delle fedi religiose. In particolare, poi, si lega ai flussi migratori che stanno ridefinendo le geografie umane e con esse gli immaginari individuali e collettivi. Mi sembrava interessante capire come l’arte si rapporti a tutto ciò con i suoi linguaggi.

Luigi Presicce, The Wizard of Cefalù, 2014 - Courtesy Galleria Bianconi

Luigi Presicce, The Wizard of Cefalù, 2014 – Courtesy Galleria Bianconi

Fra gli artisti invitati c’è una incredibile percentuale di italiani: Stefano Canto, Luana Perilli, Luigi Presicce e Marco Tirelli, oltre al romano d’adozione H.H. Lim. Quindi per avere nostri connazionali in rassegne internazionali ci vogliono i curatori italiani? Come valuti questa scarsa considerazione nei confronti dei nostri artisti da parte dei curatori internazionali?
Non credo ci vogliano per forza curatori italiani, ma sicuramente curatori che conoscano bene la scena artistica italiana e credo che fondamentalmente ce ne siano pochi all’estero. Ma per quello che vedo, spostandomi abbastanza in Europa, Stati Uniti e Asia, mi sembra che ci sia parecchio interesse verso l’Italia. La galleria americana con cui collaboro ne è un esempio. Abbiamo un contratto di un anno in cui mi sono impegnata a fare ricerca principalmente in Italia, proprio perché sono interessati a conoscere artisti italiani.
La scarsa considerazione nei confronti della nostra scena artistica credo sia dovuta a molti fattori, ma principalmente credo sia semplicemente una mancanza di conoscenza, a cui contribuisce anche il fatto che ci siano pochi curatori stranieri sul territorio. Ovviamente c’è anche da considerare il fatto che i nostri artisti sono scarsamente “supportati” a livello economico da istituzioni pubbliche e private e in molti casi questo può avere un notevole peso.

Raccontaci un poco i progetti che gli italiani portano in India.
Considerato il tema della mostra, non poteva mancare uno degli artisti che oggi incarna meglio la figura dell’artista-sciamano, Luigi Presicce, la cui ricerca affonda le radici nelle tradizioni e nei miti popolari, nel recupero delle filosofie occultiste e di una raffinata estetica esoterica. Presicce presenta la prima di queste “divinità migranti”, una scultura de Il Mago di Cefalù, figura che ha ispirato alcune delle sue prime performance. Il Mago di Cefalù prende il nome dal periodo buio di uno dei mistici più significativi del Novecento, Aleister Crowley, figura controversa e spesso analizzata con leggerezza, fondatore per molti del satanismo moderno. Attraverso le mani degli artigiani di Goa, il mago sembra trasformarsi nella figura di un sadhu, seduto in posizione yogica e dipinto dello stesso nero della dea Kali.
Stefano Canto realizza invece il lavoro Our Lady of Sorrow riproducendo l’omonimo dipinto conservato nel Museo d’Arte Cristiana di Goa. La tela viene applicata su una macchina rudimentale composta da un carrello di ferro, una bicicletta e un meccanismo di rotazione. Pedalando il meccanismo si mette in movimento e il quadro comincia a ruotare, rendendo impossibile la visione dell’opera e creando un vortice di colori in cui gli elementi distintivi del dipinto perdono ogni riconoscibilità. Durante una performance di alcune ore il quadro sarà trasportato per le vie affollate di Fort Kochi. Dislocazione, precarietà, fatica, incomprensione, limitazione della fruizione dell’opera, disturbo della visione: sono tutti elementi che entrano in gioco in questo lavoro di Canto, in cui l’immagine sacra diventa anche il pretesto per avviare un ripensamento sul rapporto tra religione e potere.

Luana Perilli, Korallen Korb, 2014 - Courtesy The Gallery Apart

Luana Perilli, Korallen Korb, 2014 – Courtesy The Gallery Apart

Ora Luana Perilli e Marco Tirelli.
Ribaltamento, mutazione, migrazione sono gli elementi concettuali attorno cui ruota il lavoro di Luana Perilli, che realizza per la mostra un’installazione composta da due sculture in ceramica, ispirate a livello formale alle produzioni realizzate in Germania nel dopoguerra e una pianta importata in India durante la colonizzazione portoghese, diventata oggi di uso comune nella vita popolare. Le ceramiche, nate come oggetti puramente scultorei, una volta posizionati all’esterno, su un albero nel cortile di fronte i padiglioni espositivi, potranno trasformarsi in alveari ospitando colonie di insetti e attivando una funzionalità latente all’interno dell’opera d’arte. Le opere di Perilli, a metà tra arte e scienza, esplorano il mistero della vita al di là della biologia e si fondano spesso sulla messa in moto di meccanismi autonomi che funzionano oltre la volontà dell’artista.
Infine di Marco Tirelli saranno presentati una serie di lavori su carta, sei stampe che riproducono immagini attinte da tempi, luoghi e culture diverse. Un serbatoio di forme visive che nutrono l’immaginario dell’artista e che sono state scelte in funzione della loro vicinanza con temi connessi alla spiritualità e al legame tra trascendente e immanente. L’artista si fa ricettacolo e archivio vivente d’immagini che si interrogano sul ruolo dell’uomo nell’universo, dando vita a una Wunderkammer personale di forme, idee, sogni, ricordi.

In tutto gli artisti che hai invitato sono 28, con alcuni nomi notissimi (Kendel Geers e Yoko Ono, fra gli altri) e molti del territorio. Parlaci in particolare di questi ultimi: hai fatto molti studio visit? Com’è la scena nel suo complesso?
All’inizio dell’estate Subodh Kerkar aveva lanciato una open call rivolta agli artisti sul territorio. La maggior parte degli artisti che hanno risposto mandando un progetto per questa mostra mi erano completamente sconosciuti e trovare della documentazione sul loro lavoro è stato in molti casi estremamente difficile. A volte, oltre gli scarsi elementi biografici, non avevo in mano nulla per poter valutare il lavoro che veniva presentato alla mia attenzione, se non il lavoro stesso. In alcuni casi mi sono trovata quindi nella difficilissima posizione di dover giudicare un artista in base a un’unica opera.
Di questi sono stati selezionati circa una quindicina di artisti che poi ho visitato personalmente cercando di scegliere insieme l’opera più adatta. La selezione fatta è frutto di quella che può essere considerata come un’aderenza alle tendenze attuali globali tenendo conto delle specificità locali. Sicuramente gli artisti basati a Goa, fatta eccezione per Nikhil Chopra o per lo stesso Subodh Kerkar, risentono della mancanza di luoghi dedicati all’arte contemporanea. La mancanza di confronto e l’isolamento è il problema principale in molti casi, perché è vero che Internet è nelle case di tutti, ma cosa scegliere e dove andare a guardare in Rete è difficile se non si hanno punti di riferimento. Molti di questi artisti non sono mai usciti fuori dall’India e hanno viaggiato pochissimo anche all’interno del Paese: difficile riuscire a entrare nelle dinamiche del contemporaneo se non si ha in qualche modo una direzione da prendere. Per me è stata una bella sfida e una bella soddisfazione vedere come soltanto con pochi semplicissimi consigli in alcuni casi siano venuti fuori dei risultati davvero interessanti.

Marco Tirelli, Untitled, 2013 - Courtesy of the Artist

Marco Tirelli, Untitled, 2013 – Courtesy of the Artist

Dal punto di vista del collezionismo, come si collocano gli indiani? Si tratta di un mercato aperto verso l’esterno o più “nazionalista”? Maggiore interesse per il moderno o per il contemporaneo?
Tutto il sistema dell’arte contemporanea in India si tiene in piedi grazie al collezionismo. Le istituzioni sono pochissime e gli aiuti statali praticamente inesistenti. È un collezionismo prevalentemente “nazionalista” perché, se si vogliono acquistare opere provenienti da fuori, ci sono delle tasse altissime. I collezionisti che acquistano artisti internazionali in genere lo fanno all’estero nelle grandi fiere internazionali oppure da artisti che producono direttamente sul territorio.

Marco Enrico Giacomelli

Kochi // fino al 29 marzo 2015
Janela. Migrating Forms and Migrating Gods
a cura di Valentina Gioia Levy
MILL HALL COMPOUND
IV/599 Eraveli Road (Mattancherry)
http://kochimuzirisbiennale.org/collateral-projects/

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Marco Enrico Giacomelli

Marco Enrico Giacomelli

Giornalista professionista e dottore di ricerca in Estetica, ha studiato filosofia alle Università di Torino, Paris 8 e Bologna. Ha collaborato all’"Abécédaire de Michel Foucault" (Mons-Paris 2004) e all’"Abécédaire de Jacques Derrida" (Mons-Paris 2007). Tra le sue pubblicazioni: "Ascendances et…

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