Inpratica. Noterelle sulla cultura (X)

La crisi non accenna ad allentare la propria morsa? È un problema - anche - di prospettiva. Perché si stanno disfacendo le infrastrutture materiali e immateriali. Però così si sta creando uno spazio importante. Chi lo vuole e lo può occupare?

Quella che è una precondizione sostanziale di ogni discorso incentrato sulla cultura e sulla creatività viene in generale sorvolata, e va dunque continuamente precisata e definita. Non solo la creatività è alla base delle produzioni culturali e creative e della filiera industriale che fa ad esse riferimento diretto, ma oggi è e rappresenta molto di più, in termini di ruolo e di impatto. Uno degli errori di prospettiva più comuni relativi a questo tema consiste infatti nel considerare i diversi ambiti produttivi, innovativi, economici come disconnessi e separati, in base a una compartimentazione che non esiste più nei fatti, ormai da molto tempo, nelle società avanzate: questo errore è particolarmente evidente, per esempio, proprio nei Paesi che all’interno della presente crisi non riescono a uscire, a livello di visione politica e di policies concrete da attuare, da una logica totalmente concentrata sulla “manifattura” o sulla “grande industria”, a discapito delle idee e dell’innovazione (ogni riferimento all’Italia non è affatto casuale).
Una delle ragioni strutturali dell’invasività di questa crisi è proprio la sua capacità di colpire l’obsolescenza delle infrastrutture, non solo materiali ma anche e soprattutto immateriali. Mentali. E, dunque, recede chi non si rende conto drammaticamente di come innovazione e creatività siano fattori assolutamente determinanti e interconnessi per la ricostruzione della propria economia (è per questo che uno dei settori più fecondi di analisi e di studio in questo momento è proprio quello relativo all’interconnessione e all’interdipendenza tra filiere creative e filiere industriali).
Frank Stella, K.54 (2008)
La creatività non è perciò un territorio a sé stante, indipendente dalle logiche dei territori produttivi e tutto sommato marginale, ma è un’attitudine che attraversa e governa tutti gli altri territori: è la palestra fondamentale che allena qualunque settore produttivo e imprenditoriale a pensare, applicare e sviluppare idee nuove, cioè all’innovazione continua. La creatività è al centro di ogni territorio economico e produttivo che voglia pensarsi considerarsi configurarsi in uno scenario internazionale, e deve dunque essere posta coerentemente al centro di politiche industriali che siano aggiornate a economie fortemente innervate di conoscenza, di cultura e orientate alla produzione di senso e di identità.
In Italia la concentrazione autarchica e autoreferenziale sul “sistema dell’arte” – l’illusione che l’arte potesse vivere su una specie di piano parallelo, in una sorta di bolla… – ha fatto sì che questo territorio accumulasse un ritardo grave rispetto ad altri campi culturali (la letteratura, per esempio) e che sviluppasse una forma acuta di dissociazione rispetto al presente.  Un post-post-concettualismo di risulta – divenuto nel corso dell’ultimo ventennio Maniera Internazionale – rappresenta un intero sistema di lingua e di convenzioni, un recinto formale e formativo che di fatto non permette alla maggior parte degli autori di confrontarsi criticamente con la realtà che li circonda, di interpretare il mondo attraverso l’arte e la pratica creativa – proprio perché questo sistema-recinto non riconosce alcuna prospettiva al di fuori della propria. (E, d’altra parte, quando si continua a celebrare la “morte delle ideologie” si omette regolarmente di specificare che essa è la morte di “tutte le altre” ideologie, rispetto all’unica vincente al momento, vincente al punto di inabissarsi e di rendersi invisibile: l’ideologia perfetta si mimetizza, si rende trasparente e irriconoscibile in quanto tale. Scompare del tutto perché pervade tutto.)

Claude Monet, Sentiero sotto gli archi di rose a Giverny (1922)

Claude Monet, Sentiero sotto gli archi di rose a Giverny (1922)

Da anni nel nostro Paese ci si lamenta della “scomparsa dell’intellettuale” (e quindi del critico, dell’artista ecc.) come figura di riferimento il cui ruolo è quello di impiegare i suoi strumenti culturali e umani per interpretare le trasformazioni della società e per criticare l’esistente: ma questa lamentatio è solo una distorsione prospettica, una delle tante in azione oggi. Nessuno ha privato gli intellettuali della loro funzione e della loro voce: lo schema è piuttosto quello dell’abdicazione. Per paura, per convenienza, perché era più comodo così.Come diceva Hunter S. Thompson all’indomani dell’11 settembre a proposito del giornalismo d’inchiesta: “Tutti si lamentano che non ci sia più spazio; in realtà c’è un sacco di spazio, solo che quasi nessuno lo vuole occupare”. È probabile che oggi si stia facendo faticosamente e traumaticamente strada un maggiore desiderio – e consapevolezza – di tornare a occupare quello spazio.

Christian Caliandro

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #21

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Christian Caliandro

Christian Caliandro

Christian Caliandro (1979), storico dell’arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali, insegna storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Ha pubblicato “La…

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