Codice Italia di Vincenzo Trione (3). Ecco perché questo padiglione sarà l’ultimo

Dalle premonizioni millenaristiche di Luca Beatrice agli esperimenti di “curatela liquida” di Maurizio Cattelan, Andrea Bellini e Hans-Ulrich Obrist: il ruolo del curatore, così come lo consociamo oggi, è finito. E così il Padiglione Italia di Vincenzo Trione sarà l’ultimo nel suo genere: dunque non potrà non piacerci...

Incaricato di curare il Padiglione Italia alla Biennale di Venezia 2015, Vincenzo Trione merita quell’affetto e quella solidarietà – diciamolo in latino sennò suona malissimo: quella pietas – che i libri di storia riservano agli ultimi imperatori di Roma. Ai Valentiniano (primo, secondo o terzo poco importa) e ai Maggioriano, ai certamente validi strateghi e illuminati statisti cui il destino ficcò in mano la pagliuzza più corta, il cerino già in buona parte consunto. Non è questione di competenze, abilità, lungimiranza, estro o addirittura genio; a fare la differenza sono la contingenza e il contesto, gli ultimi disperati cenni di vita di un sistema strascicato nelle reti del cambiamento e ora abbandonato a battere gli ultimi colpi di coda, solo e nudo. Perché Trione sarà l’ultimo. L’ultimo curatore del Padiglione Italia ad una Biennale di Venezia. Almeno nel senso tradizionale del termine. Tutto spinge verso la morte irreversibile di un ruolo che risulta da un lato fatto a pezzi dalla cannibalizzazione della vecchia guardia, dall’altro messo in crisi dalla moltiplicazione di compiti e competenze che ha progressivamente trasformato il curatore stesso in executive producer. Nel mondo post-ideologico, nell’era del nichilismo reale, il lavoro intellettuale e concettuale del curatore diventa sempre più accessorio; scavalcato dalle sue abilità manageriali e relazionali. Così l’autodeterminazione dell’artista prende il sopravvento. E risulta allora epitaffio azzeccatissimo la nota pubblicata da Luca Beatrice su Il Giornale a commento di Shit and Die, quando in riferimento alla curatela griffata Cattelan per One Torino afferma: “Maurizio ci manda tutti in pensione. Me compreso”. Il successo della mostra di Palazzo Cavour – ottomila visitatori nelle sue prime settantadue ore e critiche positive pressoché unanimi, al netto delle cieche pregiudiziali sul personaggio – è solo uno dei chiodi infilati nella bara del curatore. Ci aveva visto lungo quel barbaro di Vittorio Sgarbi, con il suo folle caravanserraglio alla Biennale del 2011 a suggerire la tesi dadaista della “non-curatela”; ci ha visto lunghissimo, con processo di tutt’altra maturità e consapevolezza e risultati ovviamente ben diversi Andrea Bellini, che per la Biennale dell’Immagine in Movimento in corso a Ginevra rinuncia all’idea classica di curatore costruendo un riuscito modello di “curatela liquida”. Con il processo di realizzazione dei lavori degli artisti invitati costruito, passo dopo passo, in modo condiviso – quasi collegiale – e con un personaggio come Hans-Ulrich Obrist coinvolto, tutt’altro che limitato semmai esaltato, in veste di fiancheggiatore e al tempo stesso agente provocatore. Umile nel dare dritte, consigliare, discutere, proporre; esimendosi dal calare dall’alto tesi preconcette, o addirittura progetti preconfezionati.

Obrist alla Biennale dell'Immagine in Movimento 2014

Obrist alla Biennale dell’Immagine in Movimento 2014

Perché il curatore, come siamo abituati a immaginarlo, si sta astraendo in modo sempre più veloce dalla contemporaneità, confondendo il suo ruolo con quello dello storico; facendosi utilissimo e prezioso archeologo di un passato cronologicamente vicino, ma reso lontanissimo dall’accelerazione dei linguaggi. E infatti le mostre più importanti dell’anno, almeno in Italia, quelle dove il lavoro del curatore in senso canonico emerge in modo più compiuto e prezioso guardano ad autori ormai storicizzati: pensiamo alla splendida personale di Luigi Ontani portata da Giacinto Di Pietrantonio alla GAMEC; o ancora al tris che MADRE, MAXXI e GAM di Torino hanno dedicato ad Ettore Spalletti, con l’ottimo lavoro messo in campo da Anna Mattirolo e Danilo EccherAndrea Viliani Alessandro Rabottini. Quest’ultimo autore di un piccolo grande miracolo con la retrospettiva itinerante costruita attorno a Robert Overby (morto vent’anni fa), secondo Artforum tra i più importanti eventi del 2014.

Luigi Ontani, Lapsus Lupus, 1973

Luigi Ontani, Lapsus Lupus, 1973

È alla luce di questa trasformazione naturale del ruolo di curatore e dell’idea stessa di curatela che la nomina di Vincenzo Trione risulta calzante: perché in un contesto sostanzialmente reazionario come quello di una Biennale di Venezia, a fronte dell’immaturità dei tempi per la scelta di un “non-curatore”, coerenza ha voluto che si optasse per un “curatore-storico”. Ed è sempre per questi motivi che allora sì, il Padiglione Italia di Trione ci piacerà. Perché sarà testimone preciso di questo passaggio a suo modo epocale, ultimo frammento di una tradizione che ci ha accompagnato per oltre un secolo; e che trova nella volontà di scrivere un Codice Italia uno struggente e ammirevole tentativo di fermare per un momento l’inarrestabile, di scavare sotto la superficie della massificazione e della globalizzazione per trovare l’illusione di un’identità che c’è, ma solo in modo subliminale. L’Italia non esiste, esiste un Paese al plurale; ma esistono esperienze che – piacciano o non piacciano – raccontano di un modo di vedere, sentire, annusare, pensare che solo qui ha potuto generarsi: ed è di questo che un Padiglione nazionale, per statuto, deve rendere conto. La fascinazione tattile per la memoria artigiana, fatta di pattern e tessuti, di un Paolo Gonzato non poteva nascere e crescere se non in Italia; l’ossessione per il passato di un Luigi Presicce non poteva avere spazio se non qui; l’estetica dell’immagine di uno Yuri Ancarani poteva venire fuori solo da chi è conterraneo di Fellini. E dunque godiamoci il Padiglione Italia di Trione. Perché sarà l’ultimo prima della rivoluzione che stiamo aspettando.

Francesco Sala


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