Budapest chiama Napoli. ZimmerFrei al City Film Festival

È in scena a Napoli dal 27 novembre al 3 dicembre la prima edizione del City Film Festival, rassegna che propone attraverso sguardi d’autore (da Julien Temple a Nicolas Provost) una riflessione su come è cambiato negli ultimi anni il modo di vivere e osservare la città. Diverse le opere prodotte dalla rassegna, come l’ultimo progetto degli ZimmerFrei. Che ci spiegano cosa sono finiti a fare a Budapest...

Tradizione cosmopolita, figlia della sua natura di porto di mare, località di transito e quindi piattaforma privilegiata per ogni genere di scambio culturale. Ma al tempo stesso vocazione identitaria spinta al massimo: con un dialetto che non è tale ma è una vera e propria lingua, con una scena culturale che mantiene alta la bandiera di una squisita originalità. E poi, chiaramente, gli alti e bassi di un contesto sociale unico; con il dramma della criminalità organizzata a spremere dalla città il peggio ma al tempo stesso il meglio, in forma di tenacia e volontà di reazione, che essa sa esprimere. È un contesto irreplicabile quello di Napoli, sede più indicata per la prima edizione del City Film Festival, che dal 27 novembre al 3 dicembre occupa gli spazi di Palazzo Grenoble, Casa Matania, Palazzo Serra di Cassano e della Mediateca Santa Sofia. Con decine di corti e lungometraggi che si pongono l’obiettivo di dare la misura dei diversi modi di leggere, attraverso cinema e video-arte, la città. Intesa nella sua complessità di relazioni, suggestioni, fatti ed emozioni; per quello che suona come un affascinante e articolato progetto di narrazione collettiva, gigantesco studio condiviso di antropologia culturale. Dodici le opere nella sezione Atlantide, che apre una finestra sul mondo, e che si fregia dell’anteprima italiana dell’ultimo film di Julien Temple sul Brasile (Rio 50 degrees – Carry on carioca), della trilogia che Nicolas Provost dedica al triangolo New York – Tokyo – Los Angeles (riunita nel titolo complessivo di Plot Point Trilogy) e di The Square di  Jehane Noujaim, candidato all’Oscar come miglior documentario.
Cifra distintiva di questa esperienza è però la sezione In residenza, nella quale si passa dalla fase “contemplativa” tipica delle kermesse di questo tipo a quella propositiva, con la presentazione di progetti prodotti proprio dal festival o da altre rassegne omologhe. Tra questi anche Temporary 8th, ultimo lavoro del collettivo ZimmerFrei. Uno dei suoi fondatori, Massimo Carozzi, ci racconta di cosa si tratta.

ZimmerFrei - Temporary 8th

ZimmerFrei – Temporary 8th

Con Temporary 8th ci portate a Budapest: perché qui e non altrove?
Questo film fa parte di Temporary Cities, serie di lavori realizzati nell’ambito del progetto In Situ, circuito di festival europei che si sono consorziati per co-produrre un’indagine su diverse città europee. Ci siamo mossi a Copenhagen, Marsiglia, Bruxelles e quindi a Budapest, dove si tiene una delle rassegne (il PLACCC, n.d.r.) partner dell’iniziativa. Quindi siamo stati teletrasportati in quella città.

Anche la scelta del quartiere nel quale operare è stata filtrata dal festival? O avete avuto libertà d’azione?
Abbiamo conosciuto la città, fatto più sopralluoghi soprattutto nella parte storica di Pest, e abbiamo scelto di concentrarci su una zona particolare: l’Ottavo Distretto che dà il titolo al film, appunto. Era il quartiere dove abitavano i rom inurbati, che a partire dal 2002-2003 è stato oggetto di un grosso progetto di trasformazione: le persone che risiedevano lì sono state indotte a trasferirsi secondo lo schema classico della gentrificazione, cioè con il progressivo aumento dei canoni di affitto che ha costretto molte famiglie  – che pure abitavano in quest’area magari da generazioni – a trasferirsi in periferia, dando il via libera all’atterramento di interi palazzi con la prospettiva di ricostruire nuove soluzioni immobiliari. Con l’arrivo della crisi economica, a partire dal 2008, sono però finiti i soldi e i lavori sono rimasti a metà. Il quartiere quindi è disseminato di crateri dove un tempo c’erano le case e dove avrebbero dovuto sorgere i nuovi edifici. Ci hanno incuriosito questi buchi nel territorio urbano.

Si tratta di un modello negativo si sviluppo urbano: Temporary 8th è un’opera di denuncia? Un’opera se vogliamo politica?
Non è il taglio che vogliamo dare con questo film, non ci interessa se si possa parlare di un processo di speculazione né di come questo sia avvenuto: ci interessava capire come la gente viveva e vive in quello spazio pubblico. Così com’era e com’è oggi.

Con chi vi siete relazionati, e quali risposte avete avuto?
Abbiamo parlato con diverse persone: urbanisti, architetti, ma anche residenti comuni che hanno preso possesso di uno di questi crateri per trasformarlo in un guardino pubblico; abbiamo incontrato due senza tetto che vivono recuperando metalli dai cantieri abbandonati, che ci hanno raccontato una storia bizzarra su un mercato che stavano abbattendo proprio a seguito di un nuovo progetto urbanistico…

Avete trovato più rassegnazione o più voglia di reagire, di guardare avanti?
Rassegnazione. Ce lo confermava una delle persone che abbiamo incontrato, Samu Szemerey, un urbanista che ha vissuto e lavorato anche negli Stati Uniti e nel resto d’Europa: da decenni il popolo ungherese è abituato se non a vivere sotto un regime di oppressione certamente a subire molte decisioni che vengono prese dai governi del Paese.

Hai descritto una condizione che, fatte le debite differenze, può essere rapportata all’immagine che abbiamo di Napoli come luogo dalle grandi potenzialità inespresse. Cosa credi possa imparare la città specchiandosi, attraverso il vostro lavoro, in Budapest?
Quello che cerchiamo di fare con i nostri video è mostrare i luoghi che esploriamo con gli occhi delle persone che li vivono. In queste situazioni noi ci poniamo sempre come stranieri, abbiamo bisogno dello sguardo delle persone che vivono quei luoghi per capire dove siamo: si tratta di un ideale passaggio di consegne, un passaggio di sguardi tra noi che guardiamo loro e loro che guardano il posto dove vivono. Cosa si può trarre da questo approccio? Forse l’abitudine al confronto con lo sguardo dell’altro.

In quel altra città, ora vi/ti piacerebbe lavorare ora?
A me, personalmente, Belgrado. Non la conosco, ma credo non si ancora stata completamente assorbita dalla european way of life, la immagino come una città in transizione.

Francesco Sala

http://www.cityfilmfestival.org/

 

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Francesco Sala

Francesco Sala

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