Inpratica. Noterelle sulla cultura (II)

“Molto spesso, parlando con cinquanta-sessantenni italiani appartenenti alla cosiddetta “classe creativa” e intellettuale, ho come l’impressione che la realtà per loro effettivamente non esista”. L’affondo, l’ennesimo, di Christian Caliandro nella rubrica Inpratica.

Mentre osservava, il ciclo completò il suo corso.
Gli alberi germogliavano dai semi e si elevavano
verso il cielo, portando con sé la malattia e succhiandone
dell’altra dal suolo, e così crescevano e deperivano
nello stesso tempo, contorti, rachitici e malformati.
Morivano, cadevano, si trasformavano in concime e
terriccio, e i radioisotopi si insinuavano nelle nuove piante.

Michael Swanwick, Il tempo dei mutanti (1985)


Oceani di tristezza
. La qualità di questo presente italiano: desolazione, scarsità, diminuzione di opportunità, grigio, durezza, disumanità, stupidità sono ciò che lo rendono tanto interessante e importante. (Il costo dei parcheggi, nelle città e nelle località di vacanza, è stato ed è un chiaro segno di protervia, e di mancanza di immaginazione: il risultato – prevedibilissimo per chiunque fosse un pochino meno ottuso degli amministratori – è la fuga da quei medesimi luoghi. Devo pagare per il privilegio di “sostare” nel vostro paese, nelle vostre strade? Benissimo, non ci vengo più.)

Conflitto generazionale. In questa fase, i sessantenni si sono chiusi a riccio – ancora più di prima, se possibile – nei loro privilegi e nelle loro attività. È per questo che la soluzione creativa individuata da più parti, soprattutto in ambito letterario, nella “claustrofilia” rappresenta di fatto un’ideologia della resa, la declinazione più recente, XXI secolo, della resa totale e incondizionata: è in definitiva il punto di vista di neo-quarantenni che adottano con orgoglio, che assumono con consapevolezza lo statuto di prigionieri psichici. Prigionieri generazionali. Solo che questa estenuazione, questa adozione molto sofisticata degli spazi concentrazionari italiani, materiali e immateriali, non è soddisfacente nell’ottica dello scontro. Naturalmente, costituisce l’ennesima rimozione del conflitto generazionale: un conto è riconoscere nella crisi la propria casa attuale, abitare il disagio e scoprirne i lati inediti, le qualità nuove che sostanziano il presente; un altro conto, affatto diverso, è accettare in tutto e per tutto, come date e immodificabili, le condizioni che ci sono state imposte non da un destino crudele, ma proprio dalle generazioni precedenti – condizioni nostre che continuano ad alimentare e sostenere la loro posizione ancora dominante.

Italiane le più amate! Cartone della pizza

Italiane le più amate! Cartone della pizza

Le donne e gli uomini protagonisti della lunga stagione contestataria (che in Italia, sebbene in forma crepuscolare e assai mutevole, dura oltre la metà degli anni settanta), superata la soglia della maturità hanno più o meno consapevolmente castrato i propri figli, vigilando sulle loro aspirazioni e complicando il loro raggiungimento, anche a livello economico, di una reale emancipazione. Dal loro punto di vista noi saremo giovani per sempre. Nostro malgrado, pur invecchiando naturalmente come tutti gli uomini e le donne prima di noi, ci mancherà il privilegio della maturità” (Alessandro Bertante, Contro il ’68, 2007). Declinare lo scontro e non evitarlo: altrimenti, la cultura italiana come produzione e come fruizione continuerà ad essere, per propria esclusiva responsabilità, una pura e semplice “decorazione” del disagio collettivo, e una complicata giustificazione dell’ingiustizia compiuta e che si compie continuamente.

Pier Paolo Pasolini, Porcile (1969)

Pier Paolo Pasolini, Porcile (1969)

Un aspetto correlato e complementare. Molto spesso, parlando con cinquanta-sessantenni italiani appartenenti alla cosiddetta “classe creativa” e intellettuale, ho come l’impressione che la realtà per loro effettivamente non esista, perché si sono abituati molto presto a rimuoverla. Mi spiego meglio. Non sono affatto interessati ai processi in atto nei territori dell’arte e della cultura, pur occupandosi nominalmente di arte e di cultura. Il punto è che una trasformazione così importante come quella avvenuta nei cervelli delle persone nel corso degli ultimi venti-trent’anni, che ha avuto un impatto determinante anche sullo scenario dell’arte contemporanea, sul senso stesso del fare arte e del fare storia e critica d’arte, viene sostanzialmente liquidata, esclusa dallo sguardo perché troppo “rivoltante” o al massimo compressa in narrazioni di comodo, autoassolutorie e ipersemplificate. Dagli stessi, poi (è bene dirlo, anche se è ovvio), che hanno partecipato attivamente a questa stessa mutazione, configurandone e legittimandone i caratteri fondamentali. Si dà il caso che questo stesso processo storico giudicato troppo “rivoltante” sia la radice del presente: conoscerlo e indagarlo significa banalmente conoscere e indagare noi stessi. Porsi “fuori” da tutto questo – ammesso che sia possibile: e non lo è – significa invece non capire nulla, e addirittura amare la prospettiva di non capire nulla.

Christian Caliandro

 

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati

Christian Caliandro

Christian Caliandro

Christian Caliandro (1979), storico dell’arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali, insegna storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Ha pubblicato “La…

Scopri di più