Inpratica. Francesco Arcangeli. Un omaggio

Nel pieno della stagione dell’Informale, lo storico dell’arte e critico Francesco Arcangeli costruisce la sua ipotesi di “Ultimo naturalismo”. In due saggi pubblicati sulla rivista Paragone: “Gli ultimi naturalisti” (1954) e “Una situazione non improbabile” (1956). L'approfondimento della rubrica Inpratica sul grande storico dell'arte morto quarant'anni fa.

Per sua stessa ammissione, Francesco Arcangeli (Bologna, 1915-1974) giunge relativamente tardi – all’inizio degli Anni Cinquanta – a contemplare nella sua pienezza lo spettro stilistico e concettuale dell’Informale; e ci arriva per vie traverse e personalissime, che passano per il Romanticismo, Gustave Courbet, e soprattutto per l’Impressionismo. Una linea storica del tutto eterodossa, come si vede, rispetto ai riferimenti canonici dei critici la cui attenzione si rivolgeva nello stesso giro di anni all’Informale: essi guardavano infatti generalmente all’eredità di Cézanne e di Picasso, secondo una certa interpretazione di entrambi, che differiva sensibilmente, per esempio, da quella in voga in altri Paesi ed in altre scuole nazionali (Francia, Usa).
Il primo portato di questo processo è l’elaborazione di una visione storicamente spaziosa e ambiziosa, una cornice intellettuale e critica in cui inserire e comprendere appieno il fenomeno informale. Se l’arte recente a quell’altezza tendeva a essere presentata come essenzialmente a-storica, esplosiva rispetto alle coordinate dell’avanguardia e dell’arte contemporanea – e anzi conosceva proprio in questa sua condizione fuori dalla storia, e dunque dalla storia dell’arte, uno dei suoi maggiori punti di forza e anche di novità critica – Arcangeli traccia una narrazione storica ampia e complessa, del tutto differente, che parte addirittura da Caravaggio e passa per Monet e Renoir, ripensando e riconfigurando la lezione di Roberto Longhi.

Pompilio Mandelli, Alberi d'estate (1953)

Pompilio Mandelli, Alberi d’estate (1953)

Dunque, dopo aver assunto Courbet come capostipite indiscusso della modernità artistica (“il primo ‘peintre de la vie moderne’”, “moderno Caravaggio”: L’impressionismo a Venezia [1948], in Dal romanticismo all’informale. I: Dallo “spazio romantico” al primo Novecento, Einaudi, Torino 1977), è a Claude Monet che Arcangeli si rivolge immediatamente come autentico fondatore e al tempo stesso rivoluzionario, azzardando addirittura un paragone con il Rinascimento che gli costerà molte critiche, ma che non rinnegherà neanche a distanza di anni (anzi, potenziandolo e rafforzandolo ulteriormente, se possibile): “A chi, timoroso di arrendersi a un’evidenza e a un ordine di considerazioni apparentemente scientifiche e naturalistiche, non ha mai fissato l’attenzione con la debita commozione e reverenza, sul momento ideale in cui nella mente del Brunelleschi fu generato il miracolo della prospettiva (che significava, nella apparente povertà matematica di alcune linee convergenti, un nuovo modo di pensare, e in pari tempo di sentire e d’immaginare); a questi non sembrerà forse abbastanza commovente, per gli stessi motivi, l’urto labile e concreto ad un tempo d’una luce vera sul fogliame della radura, sulle vesti luminose, sui volti riverberati dei personaggi che fra il 1865 e il ’66 Monet adunò per il suo Déjeuner sur l’herbe: omaggio e risposta ad un tempo a quel di Manet.”
Il concetto di “art vivant”, che si traduce sempre nella pratica (al tempo stesso metodologia pittorica e approccio filosofico) del “plen air”, è centrale a quest’altezza nella riflessione di Arcangeli, e serve innanzitutto come discrimine fondamentale tra il modello provvisorio (Manet con il primo Déjeuner, ancora appesantito dalla tradizione, dal museo e da una sintesi forse impossibile tra pittori antichi e moderni) e l’invenzione fondamentale del giovane Monet, quell’“urto labile e concreto” di una luce vera, tangibile, riflesso e registrazione della realtà e non creazione artificiale. Chiaramente, come già accennato a proposito di Courbet, il riferimento esplicito è qui Caravaggio.

Ennio Morlotti, L'Adda a Imbersago (1955)

Ennio Morlotti, L’Adda a Imbersago (1955)

Come il pittore realista per eccellenza aveva fatto della luce il suo oggetto, ricreandola sulla tela in una forma peraltro adatta e pertinente al contesto storico, quindi attraverso un controllo ferreo e drammatico, così Monet la libera definitivamente e la fa vedere realmente, senza più filtri e mediazioni, allo spettatore, concludendo un tragitto faticoso e perlopiù sommerso che copre trecento anni, e spalancando al tempo stesso territori inesplorati alla civiltà pittorica: “Quasi tre secoli innanzi il Caravaggio aveva definitivamente compromesso le certezze umanistiche, antropocentriche della civiltà rinascimentale con l’incidenza delle sue luci radenti; ma, essendo i tempi prematuri perché si desse la possibilità mentale d’un vero sole, il lume caravaggesco sembrava quello d’una negromantica lucerna, sostenuta da una mano perduta nelle tenebre del cosmo e che coraggiosamente esplorasse, da un cavernoso ritiro, gli spessori impenetrabili dei corpi e delle cose. Monet riprendeva l’antico tema, riassumendo le ricerche parziali che s’eran seguite, in quasi trecento anni, per la scoperta d’una luce più abbordabile; ma questa volta spalancando “veramente” una finestra, donde entrava, finalmente, il raggio d’un universo felice d’irrorare anche le ombre con l’improvviso d’una verità rivelata.”

Ennio Morlotti, Paesaggio (1955)_MAGA Gallarate

Ennio Morlotti, Paesaggio (1955)_MAGA Gallarate

Il rapporto panico con la natura, il senso del “due” Il senso del ‘due’ (“i nuovi pittori sentono, cercano il ‘due’: il limite delle nostre possibilità, la religione naturale”) rappresenta così il perno e il nucleo di tutta la riflessione critica portata avanti da Arcangeli, presentando il gruppo di artisti composto da Ennio Morlotti, Pompilio Mandelli, Sergio Vacchi, Vasco Bendini, Sergio Romiti, Mattia Moreni: “La nostra civiltà e la nostra partecipazione a un rivolgimento morale, per cui il significato dell’azione umana si è fatto più mobile, e infinitamente irradiante verso il cosmo; un concetto della natura sempre più interiore e nuovamente animistico, il senso di una osmosi eterna tra noi e l’universo, tutto questo non ci permetterà più di tornare al paradiso perduto della classicità greco-romana o del Rinascimento italiano” (Una situazione non improbabile, “Paragone”, 1956).
Parte essenziale di questo percorso critico e umano sarà la travagliata biografia di Giorgio Morandi, composta nei primi Anni Sessanta e pubblicata solo nel 1964: un libro per molti versi traumatico che segna però uno spartiacque nella storia dell’arte contemporanea, italiana e non solo.

Christian Caliandro

CUBO – Centro Unipol Bologna organizza e ospita un omaggio a Francesco Arcangeli, alla vigilia del centenario della sua nascita, nella città, Bologna, che gli diede i natali. Ne parleranno presso lo Spazio Cultura di CUBO (piazza Viera de Mello, 3-5), sabato 4 ottobre alle ore 17, Christian Caliandro, Michele Dantini e Lorenzo Canova.
http://www.cubounipol.it/

 

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Christian Caliandro

Christian Caliandro

Christian Caliandro (1979), storico dell’arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali, insegna storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Ha pubblicato “La…

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