Incontri, confronti, scontri e cambiamenti. Come salvare l’arte secondo Angelo Bellobono

Il fallimento come antidoto alla retorica del successo. Per riuscire a parlare di nuovo alle comunità e con le comunità, e non a proposito di esse in ristretti circoli che non hanno nemmeno più il fascino del denaro. La riflessione dell'artista Angelo Bellobono, per salvare l’arte dal proprio egocentrismo.

Non essendo in grado di generare differenza, continueremo a soffrire a lungo per la nostra indifferenza.
L’epoca dell’opportunismo è una delle cause della distruzione delle opportunità individuali e collettive e la propaganda personale ha preso il posto della comunicazione. Il terrore di non essere presenti nel dibattito, anche per un solo giorno, genera una bulimia di azioni disinnescate.
Il fallimento come ipotesi di sviluppo e cambiamento è quasi sempre censurato dalle positiviste teorie dei successi, costruite secondo logiche che poco spazio lasciano all’etica e all’ascolto, mirando spesso a obiettivi legati a un senso di diffusa “egosolidarietà”.

L’accettazione e il riconoscimento di un certo grado di vulnerabilità è e resta il miglior mezzo per continuare a esistere e resistere.
Gli antidoti all’ipocrisia che usiamo per prendere le distanze dai nostri “peccati ordinari e straordinari” quasi sempre somigliano a innocue azioni documentative, autoreferenziali e funzionali all’obiettivo del riconoscimento fine a se stesso, che non prevedono di dare risposte reali a chi coinvolgiamo.
L’arte, che sta esaurendo i salotti in cui entrare, cerca di appropriarsi – senza usare codici nuovi e diversi – di ambiti utilissimi a spettacolarizzare e “non monumentalizzare” azioni prive di contenuti reali, ma cariche di tatticismi sistemici e funzionali a se stessi. Anche in questo caso lo spazio operativo si restringe a quello propriamente riconoscibile ed “egosolidale” in cui si muovono gli specialisti dell’arte.

Angelo Bellobono al lavoro nello studio residenza dell'Alto Atlas

Angelo Bellobono al lavoro nello studio residenza dell’Alto Atlas

Oggi che i salotti e i loro proprietari l’arte se la fanno e se la criticano da soli, la stoccata sociale sembra l’unica via d’uscita per ripulirsi dalle noccioline, dallo champagne e dai soldi di faccendieri senza scrupoli. Bisogna predisporsi a vivere tra le comunità che spesso vengono tirate in ballo per raccontarle e non raccontarsi, per ascoltarle e non farci ascoltare.
L’iperspecializzazione verso cui si è orientata negli ultimi decenni la “società” globale è la causa primaria dei numerosi crolli e delle irreparabili fratture a cui stiamo assistendo.
Questo ha prodotto uno scollamento profondo tra le varie forme di conoscenza e tra gli uomini, generando sistemi autoriferiti e ignoranti, egocentrici e malati. Gli uomini perdono rapidamente la capacità di concepire la diversità, se per qualche tempo si disabituano a vederla.
Allo stesso modo perdono la capacità di percepire la verità e di distinguere la mediocrità dominante e la propaganda personale dalla volontà di condivisione e comunicazione.
Il lavoro sul campo e non sui blog dovrebbe allontanare da quelle dinamiche che liquidano argomenti e mondi che egosolidarmente si attorcigliano su se stessi, usando stessi nomi, stessi riferimenti e circuiti, senza neanche non dico affacciarsi, ma almeno aprire la finestra per cambiar aria.
Nonostante gli argomenti messi sul campo siano condivisibili, poi però continuano a vivere in un recinto che non produce effetti reali sulla vita, ma alimenta solo un dibattito tra quegli addetti ai lavori che sono i soli ai quali si fa riferimento.

L'installazione di Angelo Bellobono alla Biennale di Marrakech

L’installazione di Angelo Bellobono alla Biennale di Marrakech

Anziché far conferenze nei luoghi convenzionali e convenzionati, è tempo di assumersi responsabilità reali, che si traducono in azioni, non necessariamente ascrivibili a quella vaga nebulosa in cui si cerca di collocare l’arte.
L’arte ha il dovere di mettersi in discussione proponendo ipotesi di cura (non solo di mostre e progetti) e prevenzione, esponendosi al rischio di essere derisi, mandati affanculo e anche attaccati fisicamente. Non è al mondo dell’arte (che non è mai esistito) che bisogna chiedere cosa fare “per costruire un’accattivante teoria del fallimento”, ma al mondo che presumibilmente ha fatto percepire un’urgenza.
Gli artisti (e ancor più i curatori) devono anche, senza timore, lasciarsi usare come strumenti da una comunità che dice loro dove andare, senza essere i direttori autoritari di una orchestra immaginaria. Lo sviluppo di una consapevolezza reciproca dà senso e valore a un fare che altrimenti sarebbe fine a se stesso. In questo il corpo e l’azione rimangono un mezzo di contatto immediato e di relazione percepita reale in tutte quelle situazioni di emergenza sociale. È auspicabile il manifestarsi di nuove e inedite onestà, capaci di spiazzare e meravigliare con il loro carico di umanità.

Angelo Bellobono

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Redazione

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