Il Futurismo italiano a New York. Intervista a Vivien Greene

La grande esposizione dedicata dal Guggenheim di New York al Futurismo Italiano si porta appresso una fitta serie di considerazioni e interrogativi. Dalla ricezione della stampa (americana e italiana) a quella del pubblico, dalla sua genesi ai suoi possibili esiti. Alcune di queste domande siamo andati a farle a Vivien Greene, curatrice della mostra.

La prima e ultima volta che New York prestò una tale attenzione all’avanguardia storica italiana più influente e più controversa fu per mano del MoMA, nel 1961: Futurism era il titolo della retrospettiva a cura di Peter Selz. Hanno dovuto attendere più di mezzo secolo, dunque, gli Stati Uniti e la loro capitale culturale per veder rivivere la “ricostruzione futurista dell’universo”. E a pochi anni dal centenario del movimento – nato nel 1909 per mano di Filippo Tommaso Marinetti, con il lancio del suo primo manifesto dalle colonne del Figaro – è il turno del Guggenheim e dell’eccezionale mostra enciclopedica realizzata da Vivien Greene, italo-americana originaria di Palermo, senior curator presso la stessa istituzione, nonché esperta di arte europea a cavallo tra il XIX e il XX secolo.
Incontriamo Vivien a seguito di una tavola rotonda (ennesimo evento prestigioso dedicato al tema) tenutasi presso l’Italian Academy della Columbia University. La nostra conversazione si apre, forse prevedibilmente, con un comune rammarico.

New York è riuscita a fare ciò di cui l’Italia non è stata capace nel 2009, anno del centenario: un’unica grande mostra onnicomprensiva. Come te lo spieghi?
Ho come l’impressione che ogni città abbia voluto realizzare la propria mostra, anziché unire le forze e lavorare di comune accordo per mettere su una grande retrospettiva itinerante, un’unica mostra che girasse il Paese, da Nord a Sud. Penso sarebbe stata la cosa più auspicabile, e anche la più utile culturalmente. Si è preferito celebrare il centenario ognuno per proprio conto: come milanesi, come romani e così via. Non come italiani. Rispetto ad altre realtà nazionali, del resto, l’Italia è storicamente ancora molto giovane, e forse deve ancora scontare la sua antica frammentazione e l’assenza di uno “spirito dello Stato”.

Malgrado tutto, sei stata in Italia durante il centenario? Hai visitato qualche mostra?
Sì, ho visitato parecchie mostre. A Milano ho visto quelle di Palazzo Reale e della Fondazione Stelline. Sono stata al Mart, poi a Roma alle Scuderie del Quirinale.

Carlo Carrà, Manifestazione Interventista, 1914 - coll. Gianni Mattioli - Peggy Guggenheim Collection, Venezia - Photo: Courtesy Solomon R. Guggenheim Foundation, New York

Carlo Carrà, Manifestazione Interventista, 1914 – coll. Gianni Mattioli – Peggy Guggenheim Collection, Venezia – Photo: Courtesy Solomon R. Guggenheim Foundation, New York

Cosa te ne è parso? In cosa è diversa questa mostra newyorchese?
Noi abbiamo cercato di raccontare il Futurismo italiano in un modo che coprisse l’intero arco cronologico delle esperienze a esso legate. Soprattutto, non ci siamo limitati a esporre dipinti e sculture, siamo andati ben oltre. Tranne la mostra del Palazzo Reale, ciascuna delle mostre italiane aveva invece scelto di dare un taglio abbastanza preciso alla propria indagine.
Per esempio: la mostra alle Scuderie curata da Didier Ottinger, Ester Coen e Matthew Gale – che da Parigi è arrivata a Roma per poi viaggiare a Londra – si concentrava soprattutto sulle avanguardie storiche europee e sul posto che il Futurismo occupava al loro interno. Di quest’ultimo, poi, si sono prese in esame praticamente solo pittura e scultura, e limitatamente al primo periodo.  Anche il Mart ha seguito una prospettiva comparativa tra Italia, Russia e Germania. La Fondazione Stelline si è concentrata molto sul materiale scritto e sulle “parole in libertà”.
La mostra di Giovanni Lista con Ada Masoero a Palazzo Reale ha avuto, invece, un approccio più simile al nostro, soprattutto non ha trascurato il secondo Futurismo. Anzi, è andata anche oltre al 1944, anno della morte di Marinetti entro il quale, seguendo l’esempio di Enrico Crispolti, noi abbiamo deciso di limitare la nostra narrazione.

Leggendo le recensioni sulla stampa americana, mi sembra evidente che qui la mostra sia stata molto apprezzata. Eppure, in diversi casi sembra che si voglia quasi mettere in guardia il lettore, insistendo puntualmente sulle dichiarazioni d’amore per la guerra e di disprezzo per la donna, e naturalmente sulla vicinanza del movimento al Fascismo nel suo secondo periodo. Hai avuto questa stessa impressione?
Sinceramente no. È vero che tutti ne hanno parlato, in certi casi anche in maniera ironica, ma non ci ho visto un atteggiamento malizioso. Anzi. Credo che gli americani si siano dimostrati molto aperti a sospendere il giudizio su certi aspetti controversi che riguardano il Futurismo. La reazione della stampa, in questo senso, mi ha molto colpito, anche perché non sempre il Futurismo piace agli stranieri. Per esempio, Roberta Smith sul New York Times ha definito “mediocre” gran parte della pittura futurista (anche il primo Futurismo!), ma ha riconosciuto senza esitazioni la straordinarietà del movimento intero e i suoi caratteri avanguardistici.
In Italia il Fascismo è evidentemente una ferita ancora aperta, e a ciò si deve un diffuso disagio nel trattare ciò che è successo durante il Secondo Futurismo; oppure, come spesso accade, si arriva addirittura a negare i legami del Futurismo con il Fascismo. Le avanguardie, si sa, sono storicamente considerate una cosa di sinistra: chiamare il Futurismo un’avanguardia tende ad allentare questo vincolo culturale e politico.

Ritieni che la stampa italiana non abbia parlato della mostra con lo stesso entusiasmo di quella americana?
Benché la stampa americana abbia versato molto più inchiostro a riguardo, e un po’ questo mi ha lasciato sorpresa, direi che sono molto soddisfatta, in generale, di come tutta la stampa, anche quella italiana, ha reagito all’evento. Ma già che siamo qui, ne approfitterò per dire che Artribune, in effetti, è stato il giornale ad aver mosso l’unica critica negativa nei confronti della mostra.

The Italian Futurism 1909-1944, Guggenheim Museum, New York (courtesy Solomon R. Guggenheim Foundation, New York)

The Italian Futurism 1909-1944, Guggenheim Museum, New York (courtesy Solomon R. Guggenheim Foundation, New York)

Vero. Vuoi rispondere?
Nell’articolo a firma di Valentina Gioia Levy si evidenziava l’assenza d’innovazione in questa mostra, rispetto a quella di Didier Ottinger alle Scuderie nel 2009, nella quale il primo Futurismo veniva messo in relazione con le altre avanguardie europee dell’epoca. Mi preme tuttavia ribadire che il nostro obiettivo non era quello di fare una cosa necessariamente innovativa, o in competizione con le mostre del centenario: molto più semplicemente, abbiamo voluto presentare il Futurismo italiano al pubblico americano, che lo conosce molto poco o niente affatto (scopo tra l’altro sottolineato nel comunicato stampa). Per questo abbiamo organizzato una retrospettiva enciclopedica, mostrando non solo pittura e scultura, ma anche le arti grafiche, la letteratura, la moda, la danza, il teatro: insomma, l’ideale vero e proprio di “ricostruzione futurista dell’universo”. Ecco, l’innovazione di cui possiamo fregiarci, forse, è l’aver mostrato tutto in un unico insieme, senza dividere la mostra in sezioni distinte, come è stato fatto per esempio a Milano, e in questo sicuramente la struttura del Guggenheim ci ha aiutati molto.

Sappiamo che molte opere esposte a New York uscivano dall’Italia per la prima volta. In generale, è stato difficile ottenere i prestiti?
No, affatto, sono stati tutti molto generosi. Tutti tenevano a che questa mostra fosse ben fatta e hanno collaborato: istituzioni pubbliche e collezionisti privati. Vero, molte opere uscivano dall’Italia per la prima volta, ma si sono tutti fidati sin dal primo momento. C’è stata grande soddisfazione, soprattutto, quando abbiamo espresso interesse per quei manufatti che non erano quasi mai stati richiesti in precedenza per mostre fuori dall’Italia: vestiti, servizi da cucina e così via. È un po’ una dimostrazione del fatto che questa mostra sia stata una delle poche ad aver prestato attenzione a questi aspetti del Futurismo, sinora abbastanza trascurati nell’arena internazionale.

Secondo te questa mostra può avere qualche esito positivo in Italia?
Mi auguro di sì, malgrado il treno del centenario sia ormai abbondantemente passato. Penso che l’attenzione che gli Stati Uniti stanno dando al Futurismo grazie a questa mostra sia comunque una cosa molto positiva per l’immagine dell’Italia fuori dai suoi confini. Di solito, all’estero, l’Italia dell’arte significa quasi esclusivamente Rinascimento, oppure Impero Romano: l’Italia del Primo Novecento qui è conosciuta più che altro per due guerre mondiali e per l’ascesa e la rovina di una dittatura. Gli americani stanno invece scoprendo, con una certa sorpresa, la sua straordinaria modernità culturale e artistica, e il suo ruolo fondamentale di avanguardia.

Vittorio Parisi

New York // fino al 1° settembre 2014
Italian Futurism, 1909–1944: Reconstructing the Universe
a cura di Vivien Greene
SOLOMON R. GUGGENHEIM MUSEUM
1071 Fifth Avenue at 89th Street
+1 212 4233500
[email protected] 
www.guggenheim.org

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Vittorio Parisi

Vittorio Parisi

Nato a Bari nel 1986, si laurea in Lettere Moderne e prosegue gli studi con una laurea magistrale in Storia dell’Arte Contemporanea. Dottorando in Estetica all’Université Panthéon-Sorbonne, vive da tre anni a Parigi, dove ha lavorato come assistente presso la…

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