René Ricard. La morte di un mito vivente

Sabato 28 gennaio 1984. Andy Warhol scrive sul suo diario: “Ho fatto un giro nell’East Village. Ho girato un paio di rullini di pellicola. Ho incontrato René Ricard, che è il George Sanders del Lower East Side, il Rex Reed del mondo dell’arte…”.

 Leggendo oggi queste parole, dettate al telefono a Pat Hackett, come faceva sempre Warhol per aggiornare il suo diario di ottocento pagine, cosa avrebbe pensato il maestro del Pop vedendo il suo ex protetto trasformarsi da star del cinema underground, poeta e critico, ad artista? Un minisaggio di Alan Jones in esclusiva su Artribune.

La prima grande mostra di René Ricard si svolse nel 1990 nella galleria di Soho della Petersburg Press. Non male per un principiante. “Un debutto vivace anche se anomalo”, commentò il critico del New York Times: dipinti, disegni, litografie, monotipi, volantini, insieme a un mucchio di cianfrusaglie raccolte durante una vita di nomadismo urbano. Marcel Broodthaers con un ritmo da bongo.
La scalata della carriera è, dopo il baseball, lo sport spettacolare preferito di New York. Il New Yorker riportò fedelmente ai suoi lettori cosa stava accadendo di interessante: “Non succede ogni giorno che una presenza così esplosiva e virulentemente Baudeleriana come René Ricard si manifesti all’interno del sistema della gallerie di New York City. Il suo debutto come artista, con una mostra generosa e accattivante intitolata ‘Mal de Fin – a veritable bouquet du mal’ dovrebbe probabilmente essere interpretato come un evento meteorologico di eccezionale importanza”.
Esistono innumerevoli precedenti di permutazioni da poeta ad artista visivo. Victor Hugo scarabocchiava; André Breton ogni tanto realizzava collage; persino Marianne Moore disegnò un uccello kiwi allo zoo. Pensate a Soffici, Montale, Pasolini, che attraversavano avanti e indietro il confine tra poesia e arte. Ancora più appropriato è l’esempio di Tano Festa.
Ma qualcosa diceva ai giornalisti del New Yorker che Ricard si era tuffato in acque più profonde. Artisti come Carl Andre, Vito Acconci, Hollis Frampton, dopo tutto, avevano iniziato come poeti. Per René Ricard non c’era nessuna differenza tra recitare in un film di Warhol, scrivere poesie, fare arte, o scatenare una scenata in un ristorante o nella hall di un albergo.
Sarebbe un errore aggiungere il nome di René Ricard alla lunga lista di autori divenuti amatori sentimentali o pittori della domenica – E.E. Cummings, D. H. Lawrence, Henry Miller, Kenneth Patchen – per il semplice motivo che, al di fuori della Bay Area, il mercato secondario dei disegni di Lawrence Ferlinghetti è veramente misero. A differenza di René Ricard, questi scrittori non sono “entrati” nel mondo dell’arte, “restando, frequentandolo e infestandolo”, se vogliamo dirlo parafrasando Henry James. Il suo zigzagare andò ben oltre il valore di curiosità di un fumetto disegnato da John Lennon.
Inoltre, pochi letterati-diventati-litografi possono dire di aver vissuto, come ha fatto René Ricard, un’esistenza condotta ai margini estremi del mondo dell’arte contemporanea e allo stesso tempo nei suoi luoghi centrali e sacri. Non solo era già un Mito, ma era un mito che camminava per le strade quarant’anni prima di ascendere letteralmente tra le nuvole, nel pantheon del pop.
Come Acconci e Broodthaers, le origini di Ricard furono principalmente quelle di un poeta. Ma a differenza di loro due Ricard sembrava deciso a mantenere la poesia stessa all’interno del lavoro visivo che avrebbe imbastito. “Il poema supremo si rivolge al vuoto”, come scriveva Robert Creeley. La poesia era il cuore della creatività di Ricard. In questo egli si rifà a Cocteau, che insisteva sulla poesia come sorgente del suo lavoro, in tutte le forme.

Andy Warhol, Andy Warhol and Jean-Michel Basquiat, 1985 – Sammlung Bischofberger, Schweiz ©Foto: Galerie Bruno Bischofberger, Schweiz ©The Andy Warhol Foundation for the Visual Arts, Inc. ©VBK, Wien, 2013

Andy Warhol, Andy Warhol and Jean-Michel Basquiat, 1985 – Sammlung Bischofberger, Schweiz ©Foto: Galerie Bruno Bischofberger, Schweiz ©The Andy Warhol Foundation for the Visual Arts, Inc. ©VBK, Wien, 2013

René disse un giorno uscendo dalla boutique di Agnès B: “Cocteau è il cocktail Picasso“.
Coleridge era un uomo che avrebbe confessato la sua disperazione spirituale a mezzogiorno, e poi cenato fuori brillantemente a mezzanotte”, scrisse Richard Holmes.
Ugualmente a suo agio nelle strade come nei salotti, dal Max’s Kansas City al Mudd Club, in altre parole da Warhol a Basquiat, Ricard interpretava molteplici ruoli e acquisì una conoscenza formidabile delle regole del gioco (e di come romperle) prima di fare la sua entrata trionfale alla Petersburg Gallery con il senso del tempo di un attore.
Samuel Coleridge e René Ricard erano entrambi noti per la loro abitudine al consumo di droghe illegali, anche se per ostinazione prometeica e incredibile resistenza New York fece mangiare la polvere al suo corrispettivo inglese. Quando fece la sua mostra alla Petersburg Press nel 1990, considerato il suo approccio zingaro, piratesco e picaresco alla vita, Ricard ritenne più che normale usare la galleria come il suo bancomat personale, passando ogni giorno a spremere contanti e a farsi vedere in giro. Dopo alcune settimane di sussidi, la pazienza di Clarissa Darlwymple, coraggiosa direttrice della galleria, era quasi esaurita. Un mercante d’arte, dopo tutto, non è un Mecenate, che distribuisce monete ogni mattina alla sua clientela di poeti immortali. Infine arrivò il giorno del rifiuto. Ma Clarissa si intenerì e gli allungò una banconota da cinquanta dollari. René lo prese e lo fissò incredulo: un inutile… biglietto da cinquanta… dollari…?
Ammutolito dal suo orgoglio ferito, il poeta-pittore azionò il trituratore della carta e ci passò la banconota dentro, riducendola in coriandoli.
René Ricard come critico. Se le sue poesie sono condite da nomi di pittori, da Richard Hambleton a Ross Bleckner, i saggi sull’arte che Ricard ci ha lasciato come pietre miliari durante i primi Anni Ottanta erano, insieme a quelli di Peter Plagens, tra le pochissime cose che potevano essere lette in un giornale d’arte non soltanto per informarsi, ma per puro divertimento e piacere. Ingrid Sishy, editor di Artforum, chiamò Ricard e con infinita pazienza lo convinse a scrivere una serie di cover-stories che oggi sono riconosciute come le primissime esplorazioni del lavoro di artisti come Julian Schnabel, Keith Haring, Jean Michel Basquiat, Francesco Clemente. Erano degli articoli davvero importanti. L’oggetto centrale di ogni monografia, però, restava René Ricard.
Questo comportamento da bambino viziato, portato ai suoi estremi, ci fa ricordare un René Ricard che non passava da un tavolo all’altro al ristorante Mr Chow dopo le inaugurazioni di Basquiat, ma ci camminava letteralmente sopra… come ci ha mostrato il famoso film omonimo diretto da Julian Schnabel.
Dalla poesia alla pittura, passando dal pandemonio. In uno studio su Brice Marden e Bill Rice intitolato An Art of Regret (Artforum, estate 1985), Ricard rivelò le linee di forza che connettevano questi duplici interessi: “Trovo affascinante rintracciare l’interdipendenza tra poesia e pittura. Questo secolo, in particolare, porta con sé una tradizione poetica legata saldamente alla pittura, sia che si pensi alle poesie basate sui dipinti (il caso tipico), o dell’inverso, come nel Surrealismo ad esempio. Il tema è praticamente inesauribile, ma il poeta che mi viene in mente per primo – il nonno della ‘reductive poetry’ e l’influenza formativa più importante per i poeti il cui lavoro sembra particolarmente consonante con quello di questi due pittori – è William Carlos Williams. Le sue poesie sono prive di commenti, di metafore e similitudini, di tutti gli indizi che guidano il lettore verso il traguardo dell’emozione. Grazie a questa scelta, nelle sue poesie l’informazione semplicemente enunciata acquista peso e dignità. L’informazione senza l’emozione funziona secondo il principio che le parole davvero sentite, scritte con esattezza, possono, attraverso qualche occulto meccanismo, ridurre il campo di interpretazione della parola da parte del lettore. La responsabilità del poeta consiste nel limitare le possibili implicazioni di ogni singola parola.
Ora, se senza forzare il ragionamento possiamo mettere in relazione i nostri due pittori con i loro corrispondenti poeti, potremmo sostenere una tesi interessante: Robert Creeley sarebbe il poeta che meglio risponde a Brice Marden, mentre, figlio della sua lumière, John Wieners sarebbe il poeta di di Bill Rice.
In diretta linea di discendenza da Williams, Creeley, con la sua concentrazione di pensiero e la sua precisione di indirizzo, è ancora il più Moderno dei poeti – diciamo che sembra il più Moderno, forse perché la sua poesia si allinea così bene con la pittura primaria dei suoi contemporanei e compari. È una poesia fatta di virilità e discrezione, scritta (allo stesso modo in cui Marden dipinge) come Creeley intitolò la sua poesia più nota: “For Love” (Per amore). 
La poesia di John Wiener, dall’altra parte, devia dalla discendenza diretta di Williams. La sua è l’unica poesia scritta come un assolo di sassofono e ci porta verso luoghi dove nessun altro poeta ha osato andare”.

René Ricard

René Ricard

Come i poeti elisabettiani prima di lui, Ricard ha allenato il suo acume con la pratica tespiana. Approdato a New York nel 1965, recitò in classici di Warhol come Chelsea Girls. Nella biografia di Edie Sedgwick scritta da Jean Stein, c’è una testimonianza di Ricard su quel periodo: “Edie e Andy! Avresti dovuto vederli. Ma tu li hai visti! Tutti e due vestiti allo stesso modo – con le magliette a strisce con il collo a barchetta. Andy indossava dei jeans di velluto a coste, stivali a forma di banana con il tacco alto – stivali orribili. Li odiavo. Lui non riusciva mai a starci in piedi. Non aveva mai una buona parrucca in quel periodo, poverino. Edie era acconciata per assomigliargli – ma lei era bellissima! La maglietta. Le calze nere. Gli orecchini lunghi. Semplicemente la più incantevole, devastante bellezza”.
La conseguente guerra a colpi di parole tra Warhol e Ricard è ormai leggendaria. Anni dopo, Warhol scrisse nel suo diario a proposito di un ospite di John Reinhold: “Mi ha ricordato René Ricard ai tempi in cui l’avevo conosciuto – gli dissi che era un viscido, e poi dovetti spiegare che quando uso la parola ‘viscido’ non significa che non mi piacciano i viscidi, e ci ho messo un’ora buona”.
La mostra di Warhol Shadow Paintings inaugurò da Heiner Friedrich, a Soho, nel Gennaio 1979. Ricard era invitato alla cena. “Arrivò al 65 di Irving Place e disse che il mio lavoro era soltanto ‘decorativo’”, scrive Warhol nel suo diario. “La cosa mi fece andare su tutte le furie, e mi imbarazzò moltissimo, tutti videro il vero me. Diventai rosso e cominciai a dirgliene quattro. Poi iniziai a urlare cose come che John Fairfield Jr era il mio fidanzato – sapete come sia orribile René – ed era come una delle litigate che faceva Ondine, e tutti erano scioccati di vedermi così arrabbiato e fuori controllo e urlante. E sapete che ora René ha un agente? E sapete chi è questo agente? Gerald Malanga. Voglio dire, René si atteggia a grande scrittore, ma ha avuto una sola idea e continua a ripeterla all’infinito – di come viene nutrito e coccolato dai ricchi e di come si procura le cose gratis, sempre le solite vecchie storie. Per fortuna Henry Post non ha assistito a quella litigata, perché era seduto a un altro tavolo”.
Warhol sembrava provare un certo gusto a intavolare questi scambi verbali. Nel febbraio 1983, a un’inaugurazione di Keth Haring: “Eravamo nel Lower East Side, alla Fun Gallery, così si chiama. Entriamo nella galleria e notiamo René Ricard. Appena ci vede strilla ‘Oh mio Dio! Dagli anni sessanta agli anni ottanta e ancora ti vedo dappertutto!’”.
Sei anni dopo Ricard intitolò una poesia St. Julian Apostator:

“The day Andy died Ross Bleckner called
Julian’s to say that Julian was now the
 ‘Greatest
Painter in
America’
Well what’s the point of being the greatest
If Andy doesn’t come to your opening…”

Poeta maledetto, campione di scenate, malvivente, flâneur, figura oscura ed enigmatica, abitante di Downtown, trascendente, arbitro del gusto: René Ricard fu chiamato con tutti questi nomi. Ma il suo acume spericolato era inconfondibile.
Il Greenwich Village è conosciuto da sempre per il suo famoso cast di personaggi. L’arrivo di René Ricard su quei marciapiedi diffuse una zaffata allarmante per tutta la strada. Se Coco Chanel gli avesse commissionato una nuova fragranza, si sarebbe potuta chiamare Odeur de René, o Eau de Ricard.
Che poi somiglia all’odore pungente di una popolare marca francese di pastis. Evocare il nome di Coco Chanel non dovrebbe in alcun modo essere interpretato come un riferimento all’acconciatura personale di René. Lui era sempre impeccabile; aveva, d’altra parte, un’affidabile rete di amici che poteva chiamare, di solito senza preavviso, per poi occupare le loro vasche da bagno per dei pomeriggi interi, a volte addirittura per dei weekend. A volte entrava dalla porta dello studio, altre volte dalla finestra passando dalla scala antincendio, cogliendo di sorpresa gli ignari padroni di casa durante una pacifica colazione domenicale.
Artisti come Bill Beckley potrebbero contribuire a compilare una vasta antologia di casi di sindrome della falsa memoria che accompagnavano le tante occasioni in cui il poeta sequestrò le loro case. Bientôt vous verrez come la génie paie ses dettes, disse una volta Honoré de Balzac. Quando se ne andava, dopo alcune ore o alcuni giorni, René aveva però sempre ripagato la sua visita con ilarità in abbondanza.
Il fatto che Ricard non avesse mai trovato il tempo di mettersi a cercare un posto dove vivere, tipo un appartamento, non significa che fosse il classico senzatetto. Sembrava essere molto a suo agio all’aria aperta. New York aveva già visto in passato Walt Whitman, che con la sua barba fluente e il suo sombrero passeggiava per Broadway tra Houston e Broome Street, e nei ruggenti Anni Venti Gould aveva composto History of the World minuto per minuto e luogo dopo luogo.
Durante tutti gli Anni Sessanta, Settanta, Ottanta e Novanta, fino ai Duemila, René Ricard, con indosso il suo cappello grigio “Johnny Reb” della Guerra Civile Americana, un Confederato “Ribelle senza una causa”, era il Pupazzo-a-Molla che poteva spuntare fuori in ogni momento, in qualsiasi luogo, quando meno lo si aspettava.

René Ricard

René Ricard

I suoi amici più cari cercarono spesso di convincere il bandito ad abbandonare la giungla urbana per ritirarsi in una riserva. Uno di questi sofferenti e preoccupati cittadini del mondo dell’arte era Francesco Clemente. Il pittore italiano, che era ormai diventato in tutto e per tutto un Newyorkese, regalò a René Ricard un acquerello di grandi dimensioni e gli disse il nome della galleria dove sarebbe potuto andare a venderlo, trasformandolo immediatamente in un mucchio di contanti. Così sarebbe stato finalmente in grado di affittare un appartamento e vivere finalmente da bohémien normale.
Una volta intascato il malloppo di banconote di grosso taglio, dimenticandosi di fare tappa in un’agenzia immobiliare, René prese un taxi e si diresse nella zona nord della città nella gioielleria più esclusiva di New York, da Harry Winston. La porta del negozio si apriva, naturalmente, con un pulsante, e la vista di un pazzo che gesticolava e batteva alla porta causò sicuramente una certa esitazione nel discreto e ben vestito staff. Forse Renè mostrò velocemente una mazzetta di verdoni attraverso la vetrina. Comunque sia riuscito ad entrare, sappiamo che ne uscì poco dopo, calcando il marciapiede della Quinta Strada con indosso uno dei più grossi anelli di smeraldo in vendita nel negozio.
Quella sera c’erano alcune inaugurazioni, forse da Mary Boone, Annina Nosei o la Sonnabend; dopo i vernissage, le cene in galleria; e dopo ancora i party, e poi i night club, e dopo i club gli after-hour. La mattina seguente, mentre il sole sorgeva su Tompkins Square Park, noto duecento anni prima come lo stagno di Stuyvesant, il poeta stava emergendo dalla giungla per tornare nella civiltà. L’anello di smeraldo, che era stato la delizia del suo cuore per una sera, il suo orgoglio da mostrare e raccontare a tutti durante una singola, stravagante soirée, non era più al suo dito.
È facile immaginare l’uomo al banco dei pegni mentre guarda con indifferenza la prostituta adolescente attraverso la sua lente di ingrandimento e dice: “Potrei darti trenta dollari per questo…”.
Un uomo che ha nelle sue prospettive un’eredità o una carriera redditizia nel commercio”, scrisse Stanley Makower nella sua biografia del poeta Richard Savage, “potrebbe esitare prima di impegnarsi nella professione dello scrittore, anche se dotato di un altissimo impulso letterario. Ma quando non ci sono prospettive di altro tipo da prendere in considerazione, quando la vita è per necessità un’avventura e la passione per la definizione è molto forte, la capacità di scegliere un’occupazione diventa nulla”.
Il mondo oggi vuole zuppe in scatola, non sonetti: scatole Brillo, non ballate. Mentre l’arte contemporanea veniva inondata di concettualisti di seconda generazione, educati secondo la versione accademica del genere art-and-language – una minestra riscaldata lasciata a languire sui muri da Shangai a San Jose – era bellissimo vedere un poeta avere successo in questo campo senza provarci troppo e senza dargli troppa importanza, e allo stesso tempo dimostrando un élan inimitabile.
Anche io mi sono chiesto se avessi mai potuto vendere qualcosa, o avere successo nella vita. Per molto tempo non sono stato bravo a fare niente”, dichiarò Marcel Broodthaers sul memorabile invito che annunciava la sua prima mostra in galleria nel 1964.
Una volta accessibili a tutti, ma non particolarmente utili a nessuno, le poesie-su-carta di René Ricard sono oggi destinate a diventare ambiti oggetti da collezione. Speriamo che lui si stia facendo una grassa risata.
Il passare degli anni, e delle decadi, non fece che provare che la morte non si addiceva a René Ricard, soprattutto considerando le tante opportunità che aveva avuto per raggiungerla nella sua rischiosa vita da bucaniere. Nessuno si sarebbe sorpreso se gli spacciatori di droga gli avessero spedito dei campioni dei loro nuovi prodotti per valutarli, come fanno i produttori di computer quando devono testare l’ultimo software.
Secco come un filo spinato e animato come l’uccello corridore di Wile E. Coyote, doveva avere la costituzione di un bue selvatico. L’opera The Rake’s Progress di Stravinsky-Auden è un gioco da ragazzi in confronto al solco che Ricard ha tracciato.
Forse il miglior ritratto che gli è mai stato fatto è quello del suo amico William Rand, che lo raffigura come una sorta di Don Chisciotte sotto anfetamine che incita i topi con una frusta. René Ricard è sopravvissuto a tutti quelli che sono morti prima di lui. È vissuto persino più a lungo del Chelsea Hotel.

Alan Jones
(traduzione dall’inglese di Valentina Tanni)

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