Massimo da Brescia. Minini senior e una vicenda di provincia

Il tono è secco, piano, deciso. Senza fronzoli e austero, muove quasi a soggezione: duro come si trattasse di una tela di Kiefer. Ha, la bocca, una linea che si muove impercettibile, ma di tanto in tanto si alza agli angoli e abbozza sorrisi che non avresti detto tanto timidi. E partono le battute, le ironie, le punture di spillo. Festeggia quarant’anni di attività Massimo Minini da Brescia, toponimo mai come in questo caso doveroso. Perché tutto ruota attorno a un senso di identità struggente, un radicamento d’altri tempi. Che trasforma la provincia in esempio e modello di un mondo - o almeno, un’Italia - che gira alla stessa maniera un po’ dappertutto. La nuova intervista della serie che Artribune Magazine dedica ai grandi galleristi italiani.

Minini da Brescia è partito e a Brescia è tornato. Seguendo quali traiettorie? 
Studiando legge a Milano ho scoperto le gallerie. Alla metà degli Anni Sessanta in città ce n’erano di straordinarie, forse più di oggi: c’era il Naviglio, il Milione; la Galleria Milano nasceva allora, e poi c’era Schwarz, Gian Ferrari, la Galleria Blu… Veniva naturale, per uno che si interessava di queste cose, andare un po’ in giro. Siccome non c’erano le guide e non c’era Internet, ho preso le Pagine Gialle e ho guardato alla G di ‘galleria’: ovviamente ce n’erano di tutti i colori, dai corniciai alla gente che vendeva poster! Avevo la mia cartina di Milano, con le bandierine, e ho cominciato a visitarle. Prima in modo regolare. Tutte. Poi cancellando a mano a mano quelle che non mi interessavano: facevo le mie classifiche, per cui poi da certi non tornavo più, da altri sì.
Stiamo parlando degli anni dal ’65 al ’68: nel ’69 ho cominciato a lavorare qui a Brescia, dove avrei voluto fare qualcosa nel campo dell’arte, ma non c’era il clima. Ho aperto un’attività di esportazioni, messa in piedi con amici; giravo l’Europa in automobile e anche lì, però, il vizietto veniva fuori: di giorno lavoravo e poi alle cinque levavo la cravatta e andavo a vedere le mostre.

Una passione che cresce in modo spontaneo: quando si trasforma in lavoro?
Mi sono abbonato a Flash Art, così ho conosciuto Giancarlo Politi. Che mi ha detto: “Che cacchio fai a Brescia? Molla tutto e vieni via!”. Allora ho chiuso la porta e sono andato da lui, dove sono stato dal 1970 al 1973, quando sono tornato e con l’amico Enrico Pedrotti ho aperto la galleria.

A Flash Art aveva un ruolo “tecnico”, un po’ da responsabile commerciale un po’ da public relation manager. La mutazione in gallerista come si è compiuta?
L’idea è stata di Pedrotti, non mia. Lui aveva il posto, io avevo il know-how. Mi ha detto: “Apriamo una galleria!”. Era metà settembre, credo l’11 – data per tanti versi fatidica! – e abbiamo aperto il 23 ottobre. Ho radunato un po’ di quadri, alcuni miei e altri no; alcuni me li ha dati lo stesso Politi, che mi aveva appena “dimissionato” da Flash Art: per questo motivo mi sono trovato qualcosa da fare. Così ho ripreso contatto con il mio vecchio lavoro, perché è ovvio che la galleria da sola, almeno all’inizio, non poteva bastare…

Quarant'anni di Minini festeggiati alla Triennale di Milano

Quarant’anni di Minini festeggiati alla Triennale di Milano

Come è stata l’accoglienza di Brescia? Che ambiente c’era all’epoca?
Non era nemmeno troppo male: c’erano diverse grosse collezioni, altre gallerie… C’era fermento. Certo, rispetto a Milano non c’è nemmeno da parlarne, ma là non avrei potuto resistere, era troppo costoso, qui invece ho cercato di… fargliela vedere! La reazione della città? Nessuna! Io volevo dimostrare la mia bravura, ma non avevo interlocutori: nella prima mostra ho fatto vedere Gilbert & George, Griffa, Fulton… Pochi sapevano chi fossero ‘sti signori! Infatti dopo un po’ mi sono stufato, volevo chiudere. Ma ho resistito. E sono ancora qua.

Da quarant’anni… e per quanto ancora?
Le gallerie nascono e muoiono con i titolari, non è una roba che puoi vendere come una tabaccheria o come un’edicola. Tu hai visto Leo Castelli, il più grande al mondo: morto lui… patapum! Sonnabend idem: immagino succederà così anche con la mia.

Quanto ci è voluto perché Minini diventasse Minini?
Per farla diventare un’economia sufficiente alla sopravvivenza c’è voluta una decina d’anni. All’inizio tanti ne entravano e tanti ne uscivano. Avendo un altro mestiere, per la galleria è stato un privilegio poter contare su tutte le entrate, senza doverle sottrarle niente per vivere: entrava un milione, spendevo un milione. La galleria si è autoalimentata, non ho avuto finanziamenti da fuori: ero io il finanziatore della mia attività. Al mattino lavoravo da una parte, al pomeriggio correvo dall’altra. Poi, nel 1979, ho radunato tutto qui nella sede di via Apollonio, dove siamo rimasti. Quando siamo arrivati ci ballavamo dentro, non sapevamo cosa farci di tutto questo spazio; oggi me ne servirebbe dell’altro…

Massimo Minini con Jan Der Cock

Massimo Minini con Jan Der Cock

Ha portato a Brescia nomi di spessore internazionale, quasi straniante pensarli in un contesto in fin dei conti provinciale. Gli aneddoti certo non mancano: se dovesse indicarne uno, quale sceglierebbe?
Quello dell’arte è un mondo che si autoalimenta, di artisti importanti ne sono passati molti. Alcuni lo facevano per me, altri per le mostre: Richter è stato qui per Paolini, Merz veniva perché era amico di Valentino Zini. Ricordo che, quando abbiamo ospitato Francesco Clemente per la sua mostra, aveva poco più di vent’anni e vestiva molto… all’avanguardia. Portava stivali di gomma, un abito tutto rotto, cintura sempre di gomma… rosa! Il portinaio non voleva farlo salire a casa nostra perché gli sembrava un clochard.

Massimo Minini è legato in modo viscerale alla sua città. Al punto che ha partecipato in modo attivo alle ultime amministrative, schierandosi con una lista civica che ha espresso l’attuale Giunta. In campagna elettorale si diceva che, in caso di vittoria, avrebbe assunto un ruolo di primo piano nella Fondazione Brescia Musei…
Ci sono tempi da rispettare per queste cose. Bisogna aspettare la primavera, la fine delle nebbie… Poi vediamo. Se dovesse capitare a me un ruolo del genere, penserei a guardare se non al futuro al presente, certo non al passato. Non sarei io a fare mostre sull’Impressionismo, anzi, probabilmente non vorrei nemmeno fare mostre. Mi piacerebbe lavorare sul patrimonio della città, contribuire a incrementarlo; non vorrei occuparmi dell’effimero. A Brescia c’è stato un signore, nei primi anni dell’Ottocento, che si chiamava Paolo Tosio, che ha lasciato alla città qualche centinaio di opere: noi non sappiamo niente di cosa fosse l’amministrazione pubblica all’epoca, se a comandare fossero massoni o carbonari, liberali o forcaioli, filo-austriaci o altri. Però sappiamo che oggi abbiamo i Raffaello e gli Hayez. Ci ricordiamo del signor Paolo Tosio per quello: vorrei che si ricordassero di me per essere riuscito a fare altrettanto.

La collezione di Paolo Tosio ha portato alla nascita della Pinacoteca Tosio-Martinengo. C’è un nuovo museo nel disegno di Massimo Minini?
Non è che ogni città sia obbligata ad avere un museo d’arte contemporanea, anzi. Come ho detto spesso, se ne facessimo uno qui a Brescia ci sarebbero ottime possibilità che venga fuori male. Se aprissimo la centesima Galleria d’Arte Moderna, con i vari Fontana, Bonalumi, Manzoni e Castellani, non cambierebbe niente: perché c’è sempre qualcuno che ne ha di più, che esiste da più tempo. In Italia abbiamo passato anni a fare mostre: se guardi l’elenco di quante ce ne sono, ti arrendi dopo poco… c’è da spararsi! Ce ne sono troppe! Bisogna fare qualcosa che sposti l’immagine delle città.

Minini si inchina davanti all'opera di Solakov

Minini si inchina davanti all’opera di Solakov

Come? Facendo cosa?
Siamo una città ancora molto ricca, che però non può spendere per il patto di stabilità; il privato non tira fuori soldi neanche a girarlo a gambe per aria. Non si riesce a coinvolgerlo, probabilmente anche perché gli investimenti in cultura non sono deducibili: ci vorrebbe una legge, anche in Italia, che li rendesse tali. Se mai avessi un ruolo pubblico o semi-pubblico, probabilmente come prima cosa prenderei un commercialista per studiare una legge apposta.

Minini ha cominciato la sua attività di gallerista nell’autunno del ’73, non un periodo felicissimo per l’economia globale. Mai però, forse, come quello che stiamo vivendo ora.
Questa è la crisi più forte di tutte. Curiosamente per l’arte sta andando abbastanza bene: non solo per noi, parlo a livello generale. Come sempre nei momenti di grande difficoltà c’è qualcuno che sparisce. Ma per una FinArte che ha chiuso, ci sono altre case d’asta, soprattutto all’estero, che stanno molto bene. Per l’Italia ovviamente il discorso è diverso: sembra che abbiamo delle leggi punitive, con l’Iva al 22%, il diritto di seguito, tante cose che ci fanno faticare nei confronti dei nostri… vicini. Voglio dire: se uno vuole comprare da me un Paolini, io posso chiedere, ad esempio, 100mila euro tutto compreso. Sarebbe sufficiente spostarsi a Lugano, dove infatti stanno aprendo molte gallerie, per trovare un’opera analoga a 80mila. Quando ho cominciato, la Svizzera era lontana, oggi è a due passi; il mercato globalizzato è così.

Francesco Sala

http://www.galleriaminini.it/

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #16

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